martedì, gennaio 30, 2007

PALESTINA, "terra santa", TRA ISLAM E MODERNITA'



UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SASSARI
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO


LA PALESTINA, “ TERRA SANTA ”,
TRA ISLAM E MODERNITA’




RELAZIONE DI MARIO VIRDIS, matricola 30019800

Esame di: Culture e conflitti nell’area mediterranea
PROF. RODOLFO RAGIONIERI

INDICE

In copertina:
PALESTINA, “Terra sancta quæ in sacris terra promissionis olim Palestina “ Dal Theatrum Orbis Terrarum, nella rara edizione di Blaeu del 1635. Importante carta nautica incisa in rame con vivace coloritura coeva; misure: mm. 510x385
- Indice……………………………………………………………………....................pag. 2
- Premessa …………………………………………………………………................. pag. 3
- La Palestina nell’attuale scacchiere internazionale……….………………pag. 8
1- Tra Islam e Modernità…………………………………........………………..pag. 8
2- Nasce lo Stato d’Israele……………………………………………….........…pag. 9
3- Gli ulteriori interventi di pace della Comunità Internazionale……pag. 10
4- La Palestina del dopo Arafat………………………………….......………….pag. 12

-Conclusioni……………………………………………………………............…………..pag. 13
-Bibliografia……………………………………………………………………............…..pag. 16









PREMESSA

La Palestina è notoriamente considerata “Terra Santa”, terra promessa da Dio, per le tre grandi religioni monoteistiche mondiali: Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo. Terra Santa, quindi, prediletta dalla sorte? Forse no, ma da millenni sempre contesa, sì.
Eppure questo specialissimo lembo di terra promessa non è un Eden. In parte desertica, arida e inospitale, stretta tra il Mediterraneo ed il Deserto Siriaco, la Palestina è stata sempre teatro di aspre contese per il suo possesso. Questa terra ha una collocazione particolarmente strategica: collega geograficamente e idealmente tre Continenti: Europa, Asia e Africa, che in quel punto si incontrano. E’ nella sua posizione geografica, forse, il motivo di tanta contesa.
Le Genti che iniziarono ad abitare questo territorio presumibilmente risalgono ad almeno 3500/4000 anni orsono. La Bibbia, testo sacro degli Ebrei, ci aiuta in questa ricerca. Questo testo pone le radici giudaiche in Mesopotamia con Abramo. Egli, però, come dice la Bibbia, ricevette da Dio il compito di recarsi in Palestina con la sua stirpe. Il nipote di Abramo, Giacobbe figlio di Isacco, detto anche Israele, è considerato il capostipite del popolo ebraico, in quanto dai suoi dodici figli sarebbero discese le 12 tribù di Israele.
L’occupazione della Palestina da parte degli Ebrei avviene, soprattutto, intorno al XII secolo A.C. : era la realizzazione dell’invito di Dio ad occupare la terra promessa, nota allora col nome di Canaan. L’occupazione non fu indolore, anzi fu estremamente brutale, con lo sterminio dei Cananei da parte dei Giudei. Nella regione era stabilmente insediato anche il popolo indoeuropeo dei Filistei, uno dei progenitori degli odierni Palestinesi. La rivalità fra Ebrei e Filistei diede luogo ad una lunga serie di guerre sanguinose: celebre la sconfitta subita dalla coalizione delle tribù giudaiche a Ebenezer, ove i Filistei catturarono l’Arca dell’Alleanza con Yaweh. In funzione antifilistea il condottiero Saul fu nominato Re degli Ebrei, capostipite di quel regno ebraico che visse alterne fortune. Pur vivendo momenti di indipendenza, infatti, questo regno visse un destino satellite di grandi imperi: prima l’Impero Medio-Persiano, poi l’Impero Macedone di Alessandro Magno ed il Regno dei Seleucidi ed infine l’Impero Romano. Lo status di “Provincia romana” non era ben accetto dagli Ebrei che, in parte, iniziarono ad emigrare; altri restarono e diedero vita a ripetute e sanguinose rivolte. Il periodo più drammatico fu quello del 70 D.C., quando Tito, figlio dell’imperatore romano Vespasiano, per sedare la ribellione assediò Gerusalemme. Lo scontro, che causò la morte di centinaia di migliaia di persone, tra ebrei e altri popoli che abitavano a Gerusalemme, si concluse con la caduta della città e la distruzione del Tempio di Salomone. Per gli Ebrei era l’inizio della Diaspora.
La dispersione nel mondo non disgregò, comunque, il popolo ebraico. La cultura, la fede, la forza di coesione e lo spirito di appartenenza portarono il “Popolo guidato da Dio” a creare anche fuori dalla Palestina una “Comunità”. Una fitta rete di solidarietà etnica consentì agli esuli di integrarsi in comunità ebraiche precedentemente costituite o di costruirne di nuove in altre parti del mondo, mantenendo, in linea a di massima, una costante separazione culturale dalle popolazioni autoctone nei nuovi insediamenti.
In Palestina, intanto, i posti progressivamente lasciati liberi dalla diaspora ebraica erano riempiti dalla migrazione di genti vicine, in particolare, dopo Maometto, dagli Arabi. La massiccia migrazione, a metà del VII secolo, porta la Palestina ad entrare a far parte dell’impero costruito dai Califfi (“successori”) di Maometto, subendo cosi una profonda arabizzazione demografica, culturale e religiosa. Le minoranze ebraiche rimaste in Palestina e quelle cristiane che ormai erano stabilmente insediate, tuttavia, riuscivano a mantenere la propria identità in quanto il Califfo riconosceva loro il diritto di praticare la propria religione e vivere secondo i propri usi e costumi in comunità autonome. L’unica condizione imposta era che dette comunità pagassero una tassa che costituiva il loro contributo al benessere ed alla potenza dell’Islam. Rispetto alla condizioni precedentemente vissute sotto l’impero di Bisanzio questa nuova condizione era, in effetti, migliorativa. Questo fatto consentiva loro, all’occorrenza, di schierarsi apertamente con gli Arabi contro Bisanzio.
Nel resto d’Europa con l’avanzare del Cristianesimo (la conversione di intere popolazioni barbariche ne fece aumentare considerevolmente il numero) la violenza tra Ebrei e Cristiani era in costante aumento e, considerata la minore consistenza, erano gli Ebrei ad avere la peggio. Tuttavia la forte solidarietà ebraica consentiva loro di mantenere posizioni dominanti, sia economiche che sociali, con la copertura di importanti incarichi nelle strutture amministrative e di potere in quasi tutti i regni nazionali ove erano insediati.
Nessuno, però, dimentica la Palestina, la terra degli avi. Nonostante il passare dei secoli ed il raggiungimento di traguardi importanti nel resto del mondo, la Palestina e la sua capitale Gerusalemme, continuano ad essere un forte punto di riferimento e di richiamo.
La Terra Santa e, soprattutto, Gerusalemme, erano un simbolo sacro, un forte richiamo di appartenenza, non solo per gli Ebrei, ma anche per gli esponenti delle altre due religioni, tutte discendenti da Abramo, che vi erano nate: il Cristianesimo e l’Islamismo.
Sostanzialmente per le seguenti ragioni:

- per gli Ebrei, perché era stata la capitale del loro regno;
- per i Cristiani, perché vi era morto e risuscitato il Messia;
- per i Musulmani, perché là era stato portato in volo Maometto a conoscere Abramo, Mose' e Gesu', e da li era asceso al Cielo.

La convivenza delle tre religioni in Palestina fino all’anno Mille fu possibile, come detto prima, per la tolleranza dei Califfi che consentivano ai pellegrini ebrei e cristiani l’accesso ai luoghi santi. A rompere questo equilibrio, intorno all’XI secolo, fu l’intervento del Papa Urbano II° che, con l’intento di “liberare” i luoghi sacri del Cristianesimo dalla presenza musulmana, diede inizio alle crociate. La crociata che nel 1099 parti' da Costantinopoli, con alla testa condottieri del peso di Ugo da Vermandois, Goffredo di Buglione e Boemondo d’Altavilla, consentì ai cristiani la conquista di Gerusalemme a prezzo, però, di un feroce massacro della popolazione musulmana e giudaica. Dopo questa immane violenza i Musulmani non poterono più consentire ai regni cristiani di sopravvivere a lungo in Palestina. La reazione fu considerata necessaria non solo per vendicare il massacro ma, soprattutto, perché la testa di ponte cristiana era una seria minaccia per la fede islamica. La reazione islamica non tardò a farsi sentire. Il Sultano Solimano fu il condottiero che nel 1187 riconquisto' Gerusalemme. Nonostante le successive reazioni cristiane respinse anche la terza crociata condotta, in forze, dall’imperatore Federico Barbarossa, dal re Filippo di Francia, dal re Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra e dal re Guglielmo di Sicilia.
La sconfitta non penalizzò più di tanto Cattolici e Ortodossi e, nonostante la fama, il feroce Saladino continuo' a permettere loro, come in passato, l’accesso in Terra Santa.
Tra alterne vicende, odi e intolleranze reciproche, in un costante precario equilibrio di convivenza, dobbiamo arrivare fino alla nostra epoca per assistere ad un nuovo rivolgimento della situazione politica in Palestina che riaccende gli scontri. Il fatto “nuovo” è la crisi e la successiva caduta dell’Impero Ottomano, in conseguenza della sconfitta nella prima guerra mondiale. L’impero viene smembrato e la Palestina passa sotto “mandato” britannico.
L’Islam dopo la caduta dell’Impero Ottomano non era più una “grande potenza”. La forzata divisione lo aveva ridotto in mille pezzi: frammentato e controllato da una serie di stati europei, con l’unica eccezione della Turchia che riuscì a mantenere la sua autonomia.
La situazione degli Ebrei in Europa, intanto, era nettamente migliorata: emancipati dalla Rivoluzione Francese, i più capaci erano diventati esponenti di primo piano sia negli ambienti politici che in quelli economici. Alcuni intellettuali avevano anche maturato una propria idea nazionale di Nazione Ebraica, gettando uno sguardo sulla Palestina.
E’ verso la metà del XIX secolo, quando quasi tutte le aspirazioni nazionali dei popoli d’Europa si sono realizzate o stanno per farlo, che questa idea di nazione israelita, partita da pochi intellettuali, cresce e si diffonde. Il primo a parlare di Sionismo (dalla collina di Sion a Gerusalemme) fu lo scrittore Birnbaum nel 1895. Era un bisogno nuovo quello che stava maturando in quanto sia nel Medio Evo che nell’Età Moderna gli Ebrei non avevano mai sentito il bisogno di creare un proprio stato-nazione.
Il Sionismo, come costruzione identitaria di “Stato-Nazione”, fino al 1945, fu sposato solo da una corrente minoritaria composta per lo più da intellettuali e Giudei dei ceti più abbienti. Non tutti, però, pensavano alla Palestina. Teodoro Herzl , ad esempio, pensava all’Argentina, terra allora poco popolata e ancora non oggetto di forte emigrazione, e solo in second’ordine alla Palestina, descritta come “ terra degli avi”. La Palestina, al contrario dell’Argentina, però, non era affatto spopolata: in circa 18 secoli aveva garantito la buona convivenza tra la popolazione araba e le minoranze ebree e cristiane. La Palestina, inoltre, era ancora sotto il controllo della Turchia. Tentativi fatti presso il Sultano per l’acquisto di questa regione furono vani: la regione non era vendibile a nessun prezzo, solo con quello del sangue. Saranno successivamente gli Inglesi (la Palestina era sotto “mandato” britannico) a fare le prime promesse per l’assegnazione della regione agli Ebrei e costituire quel “focolare nazionale” per gli Ebrei in Palestina.
Com’è noto l’Impero Britannico, all’atto della guerra con l’Impero Ottomano, fece una doppia promessa: agli Arabi promise di dare, dopo la vittoria, una propria nazione in cambio dell’aiuto offerto in guerra; agli Ebrei, invece, assicurava la creazione di una loro nazione in Palestina. Era la famosa “ Dichiarazione Balfour ” che i potentati sionisti erano riusciti ad ottenere dal governo inglese.
Come scrive Daniele Scalea, scrittore e giornalista nella pubblicazione “ La Nazione Eurasia ” (numero speciale 1, La lotta della Palestina. Omaggio a Yasser Arafat) : “…Chiaramente l’intriganza inglese, una volta di più, aveva dato un colpo al cerchio ed uno alla botte, e nel 1918, a guerra conclusa, per sfuggire all’ambigua situazione, finirono col non mantenere nessuno dei due impegni! Infatti gli Arabi, lungi dall’ottenere una propria nazione, secondo gli accordi presi con la Corona britannica, videro i propri Paesi spartiti tra gli imperialismi coloniali di Francia e Inghilterra; gli Ebrei dal canto loro, poterono trasferirsi in Palestina, ma solo a piccole quote annuali prestabilite, e comunque la regione rimaneva saldamente sotto il controllo inglese…”.
Inizia cosi per gli Ebrei il flusso migratorio verso la Palestina: prima lento, tiepido, poi forte e massiccio, quasi un esodo dall’Europa negli anni ’30, a seguito della politica antisemita del Nazionalsocialismo tedesco e del fascismo italiano. Alla fine della guerra gli Ebrei che uscivano dai campi di concentramento venivano avviati, anche dai porti italiani, in gran numero, verso la Palestina. Questa operazione è da molti considerata un “disegno strategico” portato avanti dalle potenti Lobbies sioniste dei Paesi Anglosassoni, considerato che la Palestina era ancora colonia britannica. Questa emigrazione in massa mette a dura prova la convivenza dei nuovi arrivati con i già residenti, con l’esplosione di seri conflitti. Inoltre la realizzazione della doppia proposta inglese di “creare due Stati separati” , uno per gli Arabi e uno per gli Ebrei, è rifiutata da entrambe le parti.
E’ l’inizio della lunga lotta armata, con la creazione di organizzazioni e formazioni terroristiche indirizzate inizialmente contro le truppe della Corona per liberare la Palestina dal dominio inglese e poi per l’estromissione di una delle due parti pretendenti.
Nel 1947 gli Inglesi rinunciano al mandato coloniale e abbandonano la patata bollente nelle mani dell’ONU. Il nuovo tentativo di creare due Stati, in relazione al “peso” demografico dei due popoli non riuscì: anche l’ONU, come prima gli Inglesi, si mostrava “cerchiobottista”. Ebrei e Arabi si decisero allora a risolvere il problema con le armi: nel maggio del 1948 i Paesi arabi inviarono le loro truppe in Palestina per conquistarla ed estromettere gli Ebrei. L’esercito sionista, ampiamente sostenuto in mezzi e apparati bellici da forze esterne, si impone sull’avversario conquistando larga parte della Palestina e lasciando agli Arabi solo Gaza e la Cisgiordania. Il 14 dello stesso mese di Maggio gli Ebrei proclamano unilateralmente la nascita della Stato d’Israele.
Per la Palestina, però, non è la fine di una lungo e tormentato periodo ma solo la modesta tappa di un lungo cammino.



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LA PALESTINA NELL’ATTUALE SCACCHIERE INTERNAZIONALE

1-TRA ISLAM E MODERNITA’

L’attuale disputa tra quello che viene comunemente definito “l’Islam” e “l’Occidente” ha radici lontane. Le intolleranze reciproche tra le basi teologiche islamiche, ebraiche e cristiane, sono state sempre fonte di esplosioni e reazioni fin dal Medioevo ed i relativi sistemi intellettuali, spirituali, morali e giuridici sono sempre stati di esclusione reciproca. Islam sinonimo di valori della tradizione, Occidente sinonimo, invece, di modernità, di conquista, di rifiuto della tradizione.
Scrive Mohammed Arkoun, studioso dell’Islam, algerino classe 1928, docente all’Università di Lyon (Francia) in un articolo dal titolo “ Come conciliare Islam e modernità”, reperito in “rete”:
“…Islam e Modernità: questi due concetti chiave richiedono una rielaborazione, se si vuole far luce nella confusione attuale derivante da un uso polemico e ideologico dei termini, che tende a contrapporre due forze antagoniste, a prescindere da qualsiasi analisi storica, sociologica, antropologica, teologica o filosofica che sia. E’ necessario, infatti, attingere a tutte queste discipline per esplicitare quella che è la posta in gioco, sul piano del pensiero, della cultura, della civiltà, di solito abilmente nascosta anche dai sedicenti esperti dell’uno o l’altro polo di quella che io chiamerei <>… “.
Ciascuna delle tre comunità rivendica la primogenitura, l’unzione, per essere stata eletta da Dio depositaria esclusiva della Verità rivelata. E’ un lungo percorso, un continuo ribadire la propria istanza di legittimazione con la conseguente estromissione dell’altro, cacciando l’usurpatore. Si è assistito e si continua ad assistere, da secoli, ad una lunga serie di “guerre giuste”. Diversi i motivi scatenanti, ma uguale il tema di fondo: la contrapposizione frontale tra le proprie identità, le tradizioni religiose e culturali e quelle dell’altro, quelle che creano la summenzionata “esclusione reciproca”. Riducendo, per semplificare il concetto, a due i contendenti (accomunando ebrei e cristiani insieme), questo lembo di spazio mediterraneo, la Palestina, sin dall’avvento dell’Islam si trova diviso tra due sponde: quelle “ebraico-cristiane”, e quelle “arabo-musulmane”. In una simbolica eterna lotta tra il Bene e il Male.


2-NASCE LO STATO D’ ISRAELE

E’ lontano, oggi, quel 1948 quando l’Assemblea generale dell’ONU adotta il piano di ripartizione della Palestina che attribuisce il 55% delle terre agli Ebrei ed il restante ai Palestinesi. Tuttavia per le vicende recenti, per le proposte che ancora si susseguono, per le lunghe dispute e trattative su metri quadri di terra, contati e ricontati, vinti e persi ad intermittenza, quell’anno sembra cosi vicino! Oggi come ieri e, forse, anche domani poco cambierà; ma torniamo alla storia.
Immediatamente dopo la proclamazione dello Stato di Israele scoppia la prima guerra arabo-israeliana. E’ il primo tentativo fatto dalle truppe dei principali paesi arabi che cercano di occupare militarmente lo stato sionista. Il tentativo, però, fallisce ed al termine delle ostilità Israele annette ulteriori territori ( il 40% in più in due anni) dividendo l’area palestinese in due zone: la Cisgiordania e la striscia di Gaza, occupata militarmente dall’Egitto. E’ la prima di una infinita serie di guerre: tra le più importanti ricordiamo la guerra del canale di Suez (1956), la guerra dei sei giorni (1967), la guerra dello Yom Kippur (1973) la guerra del Golfo (1991) e le successive guerre contro il terrorismo. Ecco in dettaglio i protagonisti.
Il 1956 è l’anno della seconda guerra arabo-israeliana. Nasser, il leader egiziano, nazionalizza il canale di Suez e proibisce il transito delle navi israeliane. Inghilterra e Francia intervengono a fianco di Israele, arrivando all’occupazione della penisola del Sinai. L’escalation della tensione porta, nel 1967, al terzo conflitto, chiamato guerra dei sei giorni. In questo breve lasso di tempo lo stato d’Israele conquista le due zone, in cui era stata divisa l’area palestinese, che diventano Territori Occupati. E’ il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la risoluzione n. 242, a stabilire che da un lato Israele ha il diritto di vivere in pace e sicurezza, ma che il suo esercito deve ritirarsi dai territori occupati. La tregua armata, tra alti e bassi, vive un periodo di relativa calma apparente fino al 1973. In quell’anno, il 6 di Ottobre, nel giorno di digiuno più solenne del calendario ebraico, lo Yom Kippur, gli eserciti di Egitto e Siria lanciano un attacco contro Israele per la riconquista dei territori perduti in precedenza. La guerra, che prende il nome di guerra del Kippur, è vinta da Israele che detta le condizioni e ripristina i confini del 1967.
La successiva conferenza di pace è tenuta a Ginevra sotto l’egida dell’ONU che, con la risoluzione n. 338, ribadisce il proprio invito all’applicazione della precedente risoluzione numero 242. La conferenza, per il rifiuto ribadito dai rappresentanti arabi e israeliani a trattare direttamente, viene aggiornata sine die.
La reazione araba nei confronti dell’ ”Occidente”, considerato troppo tiepido nei confronti di Israele, porta all’embargo petrolifero che fa lievitare vertiginosamente i prezzi del petrolio nel mondo. Il risultato è che diverse organizzazioni sovranazionali, tra cui la Comunità Europea, adottano mozioni contrarie alla politica di Israele. Gli anni dal 1973 al 1977 vedono le formazioni terroristiche arabe, palestinesi soprattutto, compiere attentati all’estero. Tra gli altri quello all’aeroporto di Fiumicino, il 31 dicembre del 1973. Nel 1974, con la mediazione dell’allora segretario di Stato USA Kissinger, Israele si ritira dai territori egiziani e siriani occupati durante la guerra del Kippur. Il 14 ottobre dello stesso anno l’ONU riconosce all’OLP lo status di rappresentante del popolo palestinese. Yasser Arafat, primo leader dell’Organizzazione, ribadisce non solo la negazione alle trattative con Israele ma la ferma volontà di cancellare lo stato ebraico.
Un modesto disgelo tra i Paesi arabi e Israele inizia nel 1977. E’ il presidente egiziano Sadat a rompere le ostilità visitando Gerusalemme su invito del primo ministro israeliano Begin. Nel settembre del 1978 il presidente USA Carter invita Sadat e Begin in America, dove, a Camp David, il 26 marzo 1979 viene firmata la pace. Con quest’atto Israele restituisce il Sinai all’Egitto. Nonostante i momenti di pace le lotte continuano. Nel 1982 Israele invade il Libano, dove postazioni militari dell’OLP lanciano attacchi contro le truppe israeliane. Tra alti e bassi, ed una convivenza sempre più precaria tra palestinesi e israeliani, si arriva al 1987, anno della prima Intifada.


3- GLI ULTERIORI INTERVENTI DI PACE DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE

E’ il 1987, infatti, l’anno della ripresa degli scontri armati. L’occasione è data da un banale incidente d’auto: l’eccessiva reazione ed i toni forti raggiunti dalla disputa, riaccendono gli animi facendo ripartire gli scontri. E’ l’inizio di una guerriglia che prende il nome di Intifada (in arabo risveglio, sollevamento). Questa prima nuova presa di coscienza è concomitante con la fine della Guerra Fredda e porta la Comunità Internazionale ad occuparsi nuovamente dell’annoso conflitto. Nel 1991 i leaders delle maggiori Potenze organizzano a Madrid la prima conferenza di pace tra arabi e israeliani. Le difficoltà, però, sono praticamente insormontabili: Il non riconoscimento del popolo palestinese e le difficoltà di dialogo tra le delegazioni fanno si che i delegati del governo laburista di Yitzhak Rabin e gli esponenti dell’OLP di Yasser Arafat non raggiungono alcun punto di incontro.
Il problema, però, non viene accantonato dalle Grandi Potenze. Successivi incontri segreti ad Oslo, dopo mediazioni laboriose, sfociano nella “ Dichiarazione dei Principi (DOP) per la creazione di una Autorità Palestinese (AP), firmata sul prato della Casa Bianca ad Washington il 13 settembre del 1993, in presenza di Bill Clinton e di altre importanti autorità internazionali. Quello che a molti sembrava impossibile è accaduto: Arafat, a nome del popolo palestinese riconosce Israele e Rabin, a nome di Israele, riconosce l’OLP come rappresentante del popolo palestinese.
La DOP prevede un periodo ad interim di 5 anni in cui da un lato l’esercito israeliano si dovrà ritirare dalla Cisgiordania e da Gaza, dall’altro i palestinesi eleggeranno una Autorità che si occuperà dell’amministrazione civile della popolazione. Le questioni più controverse sono i confini del futuro Stato palestinese, le colonie israeliane, lo Statuto di Gerusalemme e la sorte dei rifugiati; questi problemi “difficili” saranno risolti con successivi contatti. Gli accordi di Oslo possono essere considerati uno dei primi concreti tentativi di pace.
Nel 1995, con gli accordi di Oslo II, i territori occupati vengono divisi in tre aree: la zona A sotto il totale controllo dell’AP, la zona B sotto il controllo amministrativo palestinese e militare israeliano, la zona C sotto il totale controllo israeliano. A sconvolgere, però, la via della pace due importanti fatti: l’uccisione di Rabin e la vittoria del partito di destra israeliano, il Likud, da sempre contrario al processo di pace. I due avvenimenti portano ad un parziale fallimento degli accordi di Oslo II, allontanando nuovamente le ipotesi di pace.
Il primo tentativo di dare corpo allo Statuto definitivo, previsto negli accordi di Oslo, viene effettuato dal nuovo primo ministro laburista israeliano Ehud Barak e da Yasser Arafat leader palestinese. L’incontro avviene nel luglio del 2001 a Camp David ma fallisce miseramente.
Il 29 settembre dello stesso anno l’esponente del Likud Ariel Sharon, giudicato personalmente responsabile del massacro dei campi di Sabra e Chatila, compie provocatoriamente una “passeggiata” sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo sacro dell’Islam, provocando reazioni e proteste durissime. L’eccessiva repressione delle manifestazioni provoca lo scoppio di una seconda intifada (l’intifada di Al Aqsa) che alimenta la ripresa delle repressioni israeliane e, dall’altra, l’aumento degli attacchi suicidi. E’ una guerra totale che fa migliaia di morti e causa la distruzione di intere città palestinesi. Dopo la vittoria elettorale di Ariel Sharon nel 2001 i tentativi di conciliazione cessano praticamente del tutto. La successiva costruzione di un muro di divisione tra Israele e la Cisgiordania aumenta ulteriormente le divisioni, non solo materiali ma anche psicologiche, delle due popolazioni. La successiva scomparsa nel 2004 del presidente palestinese Yasser Arafat riapre la strada ad una nuova trattativa di pace.


4- LA PALESTINA DEL DOPO ARAFAT

Le successive elezioni che si tengono in Palestina per la successione di Arafat portano alla carica di primo ministro Abu Mazen. I tempi, però, non sono ancora maturi per la ripresa vera del dialogo. La tensione non si allenta e la guerriglia continua. Un forte sostegno viene dai profughi palestinesi dislocati nei territori circostanti, soprattutto nel Libano. La formazione Hezbollah, con l’utilizzo della basi dislocate nel Libano, martella frequentemente Israele con ripetuti lanci di missili ed attentati a militari israeliani. In una delle più sanguinose operazioni otto militari israeliani restano uccisi e i due sopravvissuti vengono catturati. Il 12 luglio 2006 Israele lancia una potente offensiva militare ai danni del Libano con l’obiettivo esplicitamente dichiarato di distruggere Hezbollah. E’ l’inizio di un altro sanguinoso conflitto che provoca centinaia di morti e la distruzione di enormi strutture logistiche e abitative. L’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la risoluzione approvata il 10 agosto 2006, cerca di mettere fin al nuovo conflitto che nel frattempo ha causato oltre 1.100 vittime libanesi e 154 israeliane.
L’intervento dell’ONU, nello stesso mese di Agosto, mette in piedi una forza internazionale di pace che coinvolge anche l’Italia. Il 29 agosto salpano dall’Italia 2500 militari con destinazione Libano. Scopo della missione ONU è quella di disarmare gli Hezbollah operanti nel sud del Libano e agevolare il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati. Partecipano alla missione ONU anche Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Spagna, con un numero globale di 7.000 “Baschi blu”.
Ma anche questa è solo una ulteriore puntata di una guerra senza fine.




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CONCLUSIONI

Guerra infinita dunque? Forse sì, anche se spesso l’apparenza inganna. A volte vedendo le identiche scene di guerra, ripetute ormai per anni, mi viene il sospetto che quelle figure che calcano le scene siano solo marionette. Marionette sapientemente guidate da capaci registi con interessi e fini abilmente nascosti. Il mondo che stiamo vivendo è pieno di Richelieu, praticamente in tutte le attività: politiche, economiche, sociali, nazionali ed internazionali. Le comparse, (marionette) in campo, i registi (Richelieu) in camera di regia.
Credo che anche la “Telenovela” La Palestina , con il tema conduttore il conflitto tra Islam e Occidente sia diretta da abili registi e preveda ancora un considerevole numero di puntate.
Quali i rimedi perché la Palestina, la contesa terra promessa, possa finalmente trovare quella pace da troppo tempo attesa? La risposta non è certamente facile.
A questo proposito più che la mia opinione può essere utile rileggere le considerazioni di studiosi ben più preparati. Scrivono Daniela Pioppi e Rodolfo Ragionieri in “ Culture e conflitti nel Mediterraneo”, nel capitolo 8 dal titolo ‘ Il vicino Oriente, la stabilità senza soluzione dei conflitti ‘ (pag. 244) : “…I problemi sui quali si è avuto un disaccordo non componibile nel decennio di trattative sono costituiti da un intreccio di problemi “materiali”, come la configurazione territoriale dello Stato palestinese e le risorse idriche, ed elementi percepiti da ambedue le parti come costitutivi di identità nazionale, e quindi sostanzialmente non negoziabili in via di principio. ”.
Sono questi i valori che difficilmente possono trovare una quadratura o una negoziazione. Se consideriamo valida l’ipotesi iniziale di uno scontro di culture profondamente diverse, con componenti “intellettuali, spirituali, morali e giuridici di esclusione reciproca”, la soluzione apparentemente non esiste.
Scrivono ancora Pioppi e Ragionieri nell’opera prima citata: “…Quali possono essere i possibili scenari futuri della conflittualità intra-statuale in Vicino Oriente? Senza dubbio le sfide sul piano economico sono al primo posto. Il deterioramento delle condizioni di vita (World Development Report, 2000-2001), non più arginato dalle politiche di redistribuzione e dalle varie reti sociali previste dal modello statalista, potrà fornire un terreno fertile per futuri conflitti sociali, specialmente se al vertice verranno a mancare le risorse necessarie per la catena clientelare su cui poggiano i regimi attuali…”.
Questo a mio avviso significa che se l’antica catena di privilegi, concessioni e scambi di favori, attualmente ancora in uso, (la politica dello scambio, del “do ut des”), che da millenni i regnanti di quest’area applicano, dovesse interrompersi, nuovi potenti gruppi potrebbero sfidare e deporre gli attuali governi. Il rischio ha due facce, due variabili: una è l’alleanza tra vecchia e nuova borghesia, ed è l’ipotesi più probabile, l’altra, è che l’esplosione del malcontento popolare diventi una “rivoluzione” e riesca a sconvolgere i consolidati assetti millenari. Riuscire a contenere il malessere sociale sarà il segreto della sopravvivenza degli attuali regimi. Sono infatti le popolazioni delle diverse parti in lotta quelle che continuano a pagare il prezzo più alto. E’ la gente comune che vive in mezzo alle bombe, agli agguati, alle sparatorie; gente che sostanzialmente vorrebbe vivere in pace, risolvere i tanti problemi quotidiani, prima che pensare a come dividersi uno stretto lembo di terra.
Alla fine, giorno dopo giorno, la vita continua anche nello stillicidio quotidiano di vittime, perché la realtà dei bisogni e delle speranze è più forte anche della guerra e delle ideologie. Una realtà quotidiana complicata anche senza gli scontri armati, anche senza l’incertezza di un futuro che pare serbare ancora molto sangue e molte lacrime. Ad entrambe le parti in lotta.
Da una parte il popolo d’Israele che ha una società formata da immigrati della più diversa provenienza, costituita in tempi molto diversi da ebrei giunti da un centinaio di paesi, fin’ora guidati e sostenuti dall’ideologia sionista o dalle persecuzioni antisemite. Questo mosaico variegato di culture e costumi, unificato dal sottile filo di una comune identità storica e da un comune progetto di costruzione di uno Stato democratico non è coeso, ma ha al suo interno anime diversissime. Un progetto di Stato, quindi, non scevro di tensioni al suo interno ove esiste, oltretutto, una forte minoranza non ebraica costituita dagli abitanti arabi rimasti nel 1948 e divenuti cittadini dello stato con uguali diritti ma con profonda diversità culturale.
Dall’altra il popolo Palestinese, costituito da una società estremamente povera, economicamente dipendente da Israele. Ogni giorno una grossa moltitudine di palestinesi varca le linee di confine per recarsi a lavorare in Israele o negli insediamenti israeliani nei Territori occupati. Anche ora, con il riaccendersi del conflitto, per molti nulla è cambiato: non si conta il numero dei palestinesi che ogni giorno fa il muratore, raccoglie la frutta, pulisce le strade, o a fianco di personale medico israeliano lotta per salvare vite umane nello stesso ospedale. Dove si soffre è più facile trovare esempi di convivenza. Ma non è solo il dolore quello che unisce. Nella squadra di pallacanestro di Gerusalemme si allenano e giocano insieme arabi ed ebrei. Diversi arabi giocano nelle squadre di calcio israeliane ed i migliori entrano a far parte anche della Nazionale.
Gli uomini comuni che popolano la Palestina, quelli che ogni giorno devono fare i conti con i bassi salari, arabi ed ebrei nella stessa misura, vivono giornalmente la continua tensione fra speranza e paura: la speranza di poter vivere come uomini che si aiutano l’un l’altro e la paura di doversi combattere come membri di popoli e cittadini di stati diversi e nemici. La stagione della guerra avrà, purtroppo, il suo luttuoso corso per molto tempo ancora, prima che prevalga il sano istinto della vita.
Vorrei chiudere questa mia relazione con le considerazioni espresse da Etienne Balibar, filosofo, e Jean Marc Lèvy-Leblond, fisico, e riportate da “Le Monde” del 19 agosto 2006. L’articolo, dal titolo “Scontro di civiltà, Guerra in Medioriente o Pace Mediterranea?”, in chiusura cosi riporta: “ Disinnescare il problema Israelo-Palestinese è urgente. Perché possano sopravvivere Israele, la Palestina e il Libano sarà necessario un grande sforzo di immaginazione. Ma la domanda è: lo si vuole davvero? Intanto affinché la politica internazionale torni sul terreno del diritto l’Europa dovrebbe reclamare l’applicazione di tutte le risoluzioni ONU”.
Credo anch’io che l’Europa debba recitare nello scacchiere internazionale un ruolo più incisivo per aiutare a costruire, nell’antica culla della civiltà, al di fuori degli interventi d’oltreoceano, una pacifica convivenza.
Sarebbe un vero peccato, davvero una “promessa mancata”, se la Palestina, terra promessa da Dio per le tre religioni monoteiste più importanti del Pianeta, non riuscisse a trovare il suo equilibrio di pace. Da terra santa diventerebbe terra maledetta e da culla della antica civiltà si trasformerebbe nella tomba di quella dei nostri giorni.


Mario Virdis








BIBLIOGRAFIA


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- Etienne Balibar e J.M.Lèvy-Leblond, Scontro di civiltà, guerra in Medioriente o pace mediterranea? - articolo su Le Monde del 19.8.2006
- Paola Caridi, Israele, ma è vittoria o debacle? – articolo apparso su “Il riformista” – tratto dal sito internet
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- Mohammed Arkoun, Come conciliare Islam e modernità – dal sito web
- Franco Cardini, Europa,”Occidente”,Islam: profilo storico e prospettive – http://www.identitàeuropea.org/
- Paolo Barnard, Due pesi e due misure:riconoscere il terrorismo dello Stato d’Israele - http://www.peacelink.it/