Oristano
15 Novembre 2014
Cari amici,
come ha detto qualcuno
di recente, certamente più sensibile di molti altri, “Spreco non fa rima con Eco”.
E’ proprio vero! Nonostante tutto, la
crisi, la disoccupazione, la tentata spending review e mille altre diavolerie,
nel mondo industrializzato si continua a sprecare il cibo alla grande. E noi in
Italia non ne siamo certo esenti.
Pur all’interno di un’economia
ferma, con gli stipendi inchiodati e le scarse aspettative di miglioramento
agonizzanti, gli sprechi alimentari, almeno stando ai numeri, continuano senza
flessioni. Nessun cambiamento rilevante appare all’orizzonte: in Italia ogni
nucleo familiare, single inclusi, butta via in media 35 chili di alimenti ogni
anno, per un valore complessivo di 8,1 miliardi di euro (dati del Rapporto 2014 Waste watcher - Knowledge for Expo). Più o
meno quanto mezza manovra finanziaria.
Utilizzando in modo
consono questo cibo potremo sfamare 3/4 del Paese, sostengono gli esperti. Se
poi si dovessero sommare le 300 mila tonnellate di cibo che partono dai campi e
dalle fabbriche e finiscono direttamente in discarica per colpa di problemi
nella distribuzione, e gli scarti quotidiani di negozi e supermercati, il
risultato arriverebbe a 10 milioni di tonnellate di alimenti inceneriti o
lasciati a marcire ogni anno, creando anche non pochi problemi di smaltimento. A
sentire la Coldiretti, in Italia si spreca abbastanza cibo per sfamare 44
milioni di persone! Sono dati impressionanti, che lasciano senza fiato.
Cari amici, si può con
certezza affermare che buona parte del Paese potrebbe mangiare gratis, soltanto
con quello che finisce nella spazzatura! Conseguentemente la domanda che in
molti si pongono è questa: perché accade tutto questo? Egoismo, menefreghismo,
mancanza di solidarietà? Forse un po’ di tutto questo. Il problema vero, però, sta
più “dentro di noi”, nel nostro cervello: è lo stesso “concetto” mentale di
“scarto-rifiuto” a prevalere! Se questi alimenti, al posto di considerarli
“scarti o rifiuti”, li valutassimo come cibo potenziale, capaci di fornirci pranzo
e cena, essi non apparirebbero come un “nutrirsi degli scarti”, come
normalmente vengono classificati, ma come preziosa risorsa.
In molti Stati, uno per
tutti la Germania, la sensibilità di gruppi attenti di cittadini ha cercato di
porre rimedio a questo immenso spreco; è stato messo in piedi un interessante progetto
chiamato “Food Sharing”, ovvero
condivisione del cibo, ottenendo positivi risultati, dove tutti guadagnano: i cittadini
del mondo, in primo luogo, e di conseguenza la salute della Terra. L’idea, il
concetto alla base del Food Sharing, altro non è che la declinazione in chiave
socio-ambientale dell’economia della collaborazione/condivisione (sharing economy), il recente fenomeno
che sta rivoluzionando sia le modalità di consumo sia quelle di produzione di
beni e servizi. Tuttavia, se la concreta applicazione della “condivisione”
risulta abbastanza facile, quando si tratta di condividere automobili o
abitazioni (dove c’è sempre un’azienda che ci guadagna), con il Food Sharing,
mancando il soggetto che ne beneficia economicamente, l’applicazione risulta
più difficile, in quanto il guadagno è generalizzato: gli unici a beneficiarne
sono i cittadini e la Terra.
Eppure il problema è molto serio, rivestendo un’importanza di livello mondiale. Per produrre questa immensità di cibo che finisce in pattumiera viene impegnata tanta superficie terriera e molta acqua. La produzione di 1,6 miliardi di tonnellate di alimenti che finiscono in discarica, infatti, impegna il 30% della superficie agricola del pianeta e 250 miliardi di litri d’acqua, pari al consumo della città di New York da qui al 2134. Non solo: il trasporto, la trasformazione e la conservazione del cibo sprecato sono la causa di 3,3 miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica ogni anno, la terza fonte di inquinamento del mondo. E’ tempo, quindi, di ripensare con saggezza al binomio rifiuti-alimentazione, trovando soluzioni adeguate, fossero esse anche rivoluzionarie. E’ tempo che anche noi occidentali, avvezzi allo spreco e occupati più a cercare cure dimagranti che a procurarci il cibo spesso consumato in eccesso, riflettiamo seriamente sui nostri errori.
E’ la nostra mentalità
che deve cambiare. Recuperare la gran parte di ciò che si butta via, non è poi
così difficile: per chiarire il concetto basta un solo esempio. Quando
si impacchettano le mele, non c’è il tempo di cercare quali sono buone e quali
marce: se in una confezione ce ne sono anche soltanto un paio bacate l’intero
lotto finisce nella spazzatura. Eppure oltre l'80% di ciò che viene gettato è
ancora buono e consumabile. Recuperare le mele buone e metterle a disposizione
della collettività è il compito che si sono auto assegnati i Foodsaver (letteralmente: salvatori di
cibo) e i Foodsharer tedeschi,
gruppi di cittadini collegati tramite una piattaforma internet costata 12 mila
euro, interamente raccolti con un’operazione di crowdfunding.
Il Foodsaving consiste
nell’andare a recuperare, tra gli alimenti scartati dei supermercati, tutti i
prodotti ancora buoni e consumabili; mediamente, secondo le statistiche, oltre l’80%
della merce messa via è in buone condizioni e commestibile. Nei luccicanti
supermercati, operanti nella logica del prodotto “freschissimo”, il latte, non ancora
scaduto, così come la frutta e gli ortaggi del giorno prima, i prodotti in
scatola con confezioni un po’ ammaccate e i latticini presenti da alcuni
giorni, vengono
eliminati dagli scaffali, perché il supermercato vuole dare un’idea di super freschezza!
La stessa sorte subisce il pane, vecchio magari solo di qualche ora, perché i clienti
lo devono trovare quasi ancora caldo di forno. Lo spreco non ha davvero limiti!
I Foodsaver, però, grazie a un’organizzazione ferrea, racimolano
tutto e lo mettono a disposizione della collettività. L’operazione non sembri,
ai più, un blitz messo in atto da gruppi di cittadini imbacuccati che aprono di
nascosto la spazzatura altrui: il movimento ha stretto accordi con gli addetti
dei supermercati, dopo averli sensibilizzati sullo scempio costituito dallo
spreco. Spesso anche a insaputa del management delle grandi catene alimentari, i
Foodsaver hanno la possibilità di accedere agli scarti prima che materialmente
siano buttati nei bidoni. Gli alimenti buoni recuperati vengono poi resi disponibili (food sharing) a quanti hanno bisogno, attraverso un sistema di
depositi urbani, messi a disposizione o ricavati in punti di ritrovo quali
spazi ricreativi, palestre, parchi pubblici e persino case private e
pubblicizzati attraverso la piattaforma Internet.
I dati di questi
preziosi interventi sono davvero positivi: risultano recuperate 515 tonnellate
di cibo, capaci di alleviare il disagio quotidiano di migliaia di famiglie. Alle
quali si sono aggiunti, sulla scia di un entusiasmo contagioso, anche i
contributi dei singoli Foodsharer: chiunque abbia in casa qualcosa che sta per
scadere, che non farà in tempo a mangiare o ha comprato in eccesso, al posto di
buttarlo via può offrirlo agli altri, portandolo nei depositi oppure utilizzando
il sito internet. Tutte idee praticabili ed efficaci, anche se l'Italia, su
questo versante, risulta ancora troppo indietro.
Da noi il Food Sharing
è ancora poco noto e praticato. Nelle nostre famiglie i soldi sono pochi e i
consumi si contraggono; i dati sono impietosi: la spesa alimentare è calata del
12,8 % dal 2007 al 2013, anche se l’incoerenza è una specialità nazionale,
quanto la pizza e il catenaccio. Nel recente studio sugli sprechi alimentari,
realizzato da Waste Watcher, il 26% degli italiani, che pur si dice sensibile
all’ambiente, preoccupato per la povertà, moralmente disturbato dal cestinare
cibo buono, appare ostinatamente e irrimediabilmente incapace di controllare la
data di scadenza sulle confezioni. Dunque sprecone.
In Rete da tempo esiste
un sito (www.ifoodshare.org) che, volendosi ispirarsi all’esempio tedesco, si è
lanciato nell’impresa, ma ancora non ha superato la massa critica di utenti
necessaria a far funzionare un’idea, intimamente basata sul coinvolgimento
emotivo e sull’impegno personale; come insegnano i foodsaver, creare un portale
non basta: poi bisogna che gli utenti siano altamente sensibilizzati e abbiano
voglia di sporcarsi le mani. Un aiuto alla diffusione della merce recuperata lo
può fornire la “geolocalizzazione”,
sistema che individua i depositi di cibo recuperato più vicini.
Da poco è approdato su
internet anche un altro interessante progetto denominato “S-cambia cibo” (www.scambiacibo.it), «un progetto di urbanistica»,
per usare le parole di una degli ideatori, Ilaria Venturelli. Cosa c’entra
l’urbanistica con i rifiuti alimentari? «Ridurre gli sprechi tutela l’ambiente e
propone nuovi modi di interagire con la comunità e di vivere gli spazi della
città», ha spiegato. Chi si iscrive a S-cambia cibo può inserire sul
sito gli alimenti che è pronto a condividere, salvandoli dalla spazzatura, o
visualizzare quelli messi a disposizione da altri, con una funzione di
geolocalizzazione che consente di individuare subito le cose più vicine al proprio
indirizzo di residenza. Tocca ai membri poi mettersi d’accordo sul come organizzare
gli scambi: di qui l’idea che il Food Sharing possa contribuire anche a creare
un nuovo tessuto umano e sociale.
Anche l’Università
cerca di fare la sua parte. La Bocconi, in occasione della prossima esposizione
EXPO 2015, ha lanciato un concorso
(http://www.foodsavingbec.com) per selezionare 200 studenti brillanti che
aiutino a pensare a come ridurre gli sprechi alimentari. Se trasformare le
abitudini dell’intera catena produttiva è certamente complicato, il modo più
semplice, per iniziare, è contare sull’impegno individuale. Insomma: prendete e
condividete.
Cari amici, le idee, anche
a noi italiani, certo non ci mancano: è auspicabile che presto si trasformino
in realtà pratiche, perché lo spreco, come ho detto all’inizio, fa un duplice
danno: all’uomo, sottraendogli preziose risorse alimentari ed al pianeta che,
sempre di più, viene sommerso dai rifiuti.
A domani.
Mario
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