sabato, settembre 27, 2014

METÀ DEL T.F.R. IN BUSTA PAGA? IL GOVERNO STUDIA COME INCENTIVARE I CONSUMI.



Oristano 27 Settembre 2014
Cari amici,
che le famiglie, in particolare quelle dei lavoratori dipendenti e pensionati, abbiano diminuito i consumi è ormai cosa accertata. Le pressioni sul Governo per diminuire il carico fiscale sono tante, ma le possibilità poche, visto che anche gli 80,00 euro aggiunti in busta paga non hanno sortito il risultato atteso se non in minima parte. Che fare allora? Pensa e ripensa, ecco saltare fuori dal cilindro del grande prestigiatore un’idea che, poi, così banale non è: mettere – almeno in parte - in busta paga l’accantonamento del T.F.R. spettante ad ogni lavoratore. Mah! Intanto vediamo ‘meglio’ che cos’è il T.F.R., questo “tesoretto” custodito dalle aziende ma di proprietà di ogni lavoratore.
Il Trattamento di Fine Rapporto (da incassare, quindi, alla fine dell'attività lavorativa) spetta a tutti i lavoratori subordinati, ed e' pari alla retribuzione annuale divisa per 13,5. In pratica ogni anno viene accantonato (e trattenuto) dall'azienda circa un mese di retribuzione. Le norme attuali prevedono però che dopo 8 anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro il dipendente possa chiedere all’Azienda un'anticipazione fino al 70% del TFR maturato alla data della richiesta, ma solo per determinati scopi: spese sanitarie straordinarie, per la formazione o per l'acquisto della prima casa per sé o per i figli. L'anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro.
Questo “accantonamento” di proprietà del lavoratore, da qualche anno può essere utilizzato per alimentare la propria Previdenza Integrativa, versandolo a un apposito fondo. 
Dal 2007 è anche cambiata la normativa sulla previdenza, con l'introduzione del silenzio assenso. Chi non dice esplicitamente come vuole utilizzarlo avrà il proprio TFR versato al fondo previdenziale di categoria. Si può anche, con una comunicazione all'azienda, lasciare il proprio TFR nella disponibilità dell’Azienda stessa. Per quelle con oltre 50 dipendenti il Trattamento di fine rapporto maturando viene obbligatoriamente versato in un fondo presso l'INPS, gestito dal Ministero dell'Economia (attualmente vengono versati circa sei miliardi l'anno). Al momento in cui si riceve il TFR l'importo viene decurtato della relativa tassazione: viene applicata l'aliquota relativa alla media del proprio stipendio degli ultimi cinque anni. Viene inoltre tassato il rendimento del TFR (che viene remunerato all'1,5% annuo, più il 75% dell'inflazione) all'11%.
Fatta questa doverosa premessa, ci domandiamo: come si potrebbe conciliare l’idea di mettere a disposizione in busta paga al lavoratore parte del TFR maturato? Se l’idea può apparire buona, metterla in atto però, non è ne semplice ne facile. Sia il rappresentante di Confindustria Squinzi (che dice: “È un caso complesso”) che i rappresentanti sindacali, ammettono le difficoltà operative (Proietti, Segr. Conf. della Uil afferma: "Si può fare, ma non è un regalo e dev'essere il lavoratore a scegliere"). In effetti, se mettere dentro la busta paga dei lavoratori il 50% del Tfr maturato annualmente potrebbe essere una buona mossa per alimentare i consumi e dare fiato alle economie asfittiche di tante famiglie, dall’altra sottrarre quelle somme destinate alla previdenza degli anni a venire, utilizzandole per i consumi degli anni del lavoro, significherebbe mangiarsi l’uovo oggi anziché la gallina domani.
Allora resta il dubbio: l’ipotesi sul tappeto, di utilizzare il trattamento di fine rapporto per aumentare i consumi, appare una proposta sensata o sarebbe meglio non modificare lo stato attuale? Come dice Squinzi, la concretizzazione dell’idea è di grande complessità. A parte che il privarsi di una risorsa futura (le ipotesi di utilizzo anticipato del TFR ci sono già) priverebbe il lavoratore di un “salvadanaio” importante, bisogna pensare anche che l’erogazione in busta paga metterebbe in crisi anche la liquidità delle piccole aziende sotto i 50 dipendenti, per le quali il TFR accantonato per i dipendenti costituisce un “tesoretto” liquido a cui attingere per autofinanziarsi senza ricorrere al credito bancario. Proprio per questa ragione, se andasse avanti l’ipotesi ventilata, le piccole aziende hanno subito chiesto al Governo delle contropartite per tamponare la mancata liquidità derivante dalla devoluzione immediata dei TFR accantonati.
Ma a piangere non sarebbero solo le aziende sotto i 50 dipendenti. In caso di applicazione del nuovo sistema non solo nel settore privato ma anche in quello pubblico (altrimenti rappresenterebbe una discriminazione) le casse dello Stato subirebbero un'emorragia di non poco conto! Senza contare che per le aziende sopra i 50 dipendenti, il TFR maturando viene versato, come detto prima, in un fondo presso l’INPS gestito dal Ministero dell’Economia. Poiché stiamo parlando di circa 6 miliardi l’anno, mancando alle casse pubbliche la disponibilità di tale somma, si creerebbe certamente qualche problema di bilancio.

Cari amici, ipotizzare di rendere immediatamente liquido il TFR in effetti non è proprio una ‘pensata’ nuova di zecca. L'idea di trasferire parte del TFR in busta paga, fu ventilata durante il governo Berlusconi da Giulio Tremonti. Successivamente nel 2011 fu  la Lega Nord a provarci, mentre nel Marzo dello scorso anno la proposta fu avanzata, direttamente a Renzi, dal sindacalista della FIOM Maurizio Landini. Come detto prima il problema è di grande complessità. Se è pur vero che monetizzare con lo stipendio parte del TFR si configurerebbe come una sorta di "nuova quattordicesima", non dimentichiamo che la coperta non è sufficientemente grande e se si copre la testa si scoprono i piedi. L'obiettivo di far aumentare consumi e potere d'acquisto delle famiglie è sicuramente nobile e conseguibile, ma senza dimenticarsi che continuiamo a parlare degli stessi soldi: non li abbiamo mica moltiplicati: ne avremo solo anticipato la spendita!
Amici, l’Italia deve trovare soluzioni reali e non fittizie per migliorare il potere d'acquisto delle famiglie, creando le condizioni per aumentare le possibilità di lavoro, non cercare di moltiplicare il “paniere attuale”, come fece Gesù nella parabola della moltiplicazione dei pani  e dei pesci. Il nostro Paese ha necessità di una politica di vera crescita e di occupazione, di riduzione delle tasse e di nuovi investimenti, sia da parte degli investitori italiani che di quelli stranieri. Due giorni fa ho fatto con Voi una riflessione sul piano della riforma del lavoro, il “Jobs Act”, messo in atto da Renzi, e delle non poche difficoltà per realizzarlo. Uno dei punti critici è proprio la possibile abolizione dell’articolo 18 dello Statuto del lavoratori. Non voglio tornare sull’argomento. Domando solo a quelli che per mantenere lo “Status Quo” si chiudono a riccio a qualsiasi innovazione: è meglio morire di fame, preservando orgogliosamente le ferree norme, oppure mangiare, con maggiore precarietà, correndo il rischio di saltare qualche pasto?
La risposta, cari amici…datevela da soli.
Ciao
Mario

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