UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SASSARI
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN EDITORIA, COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE E GIORNALISMO
IL SISTEMA CREDITIZIO SARDO: DAI MONTI FRUMENTARI ALLA BANCA UNIVERSALE
TESINA DI MARIO VIRDIS, matricola 30019800
Esame di: STORIA ECONOMICA DELLA SARDEGNA
DOCENTE PROF. GIUSEPPE DONEDDU
INDICE
- Indice……………………………………………………………………..pag. 2
- Premessa ………………………………………………………………… pag. 3
- Capitolo Primo Le origini dei Monti…… .. .……………………..………pag. 5
- Capitolo Secondo Dai Monti alle Casse…………………………………..pag. 8
- Capitolo Terzo Dalle Casse al Banco di Sardegna.………………………pag. 13
- CONCLUSIONI ……………………………..………………………..….pag. 16
- Allegato A………………………………………………………………….pag. 18
- Bibliografia…………………………………………… …………………..pag. 19
PREMESSA
La Sardegna ha sempre pagato a caro prezzo il suo splendido isolamento. La causa principale è la sua posizione al centro del Mediterraneo, lontana dalla terraferma e dai più importanti centri commerciali e culturali. Nel Seicento, durante la dominazione spagnola, la scarsa popolazione viveva miseramente di agricoltura e pastorizia. L’agricoltura, con produzione prevalentemente granaria, praticata negli spazi pianeggianti del Campidano e della Marmilla, veniva condotta con metodi arcaici; la pastorizia, limitata al pascolo brado di ovini e caprini, praticata nelle zone interne. La Spagna fin dalla prima metà del Seicento cercò di introdurre i primi miglioramenti produttivi. Nel 1612 l’inviato della Corona, tale Martin Carrillo, visitatore (una sorta di ispettore) del Re di Spagna Filippo III, nella sua relazione al sovrano mise in luce una realtà fatta di fame e arretratezza. I contadini sardi, costantemente taglieggiati dalla rapace burocrazia regia, diretta dal viceré, non erano mai stati incoraggiati a migliorare la qualità e la quantità dei raccolti cerealicoli. Per tentare un certo miglioramento, nel 1624, il Parlamento riunito a Cagliari votò per la nomina in ogni villaggio del “Padre Censore”, un esperto agricolo locale, capace di indirizzare e coordinare l’attività agricola. A lui doveva far capo un grande magazzino dove far convergere le riserve comunitarie del grano, necessario per far fronte non solo ai bisogni della comunità, ma anche per anticipare le sementi ai coltivatori in difficoltà. Era il primo segno, il primo passo, per la costituzione anche in Sardegna dei Monti frumentari, già sperimentati in altre parti del regno.
Il vessatorio sistema feudale allora imperante era però nella sua fase discendente e non tardò ad estinguersi, spazzato via, quasi dappertutto, dalla Rivoluzione francese. In Sardegna, invece, resistette più a lungo. L’isola, poco abitata ed economicamente isolata, nel 1720 passò ai Savoia come Regno di Sardegna. Il 9 agosto del 1720 gli Stamenti sardi (quello militare, l’ecclesiastico e il reale) del Parlamento, prestando giuramento di fedeltà al nuovo viceré, il barone di Saint Remy , gli consegnarono una Sardegna popolata da appena 300 mila abitanti. Cagliari, capitale del regno, contava appena 16 mila anime e Sassari, capitale del capo di sopra, 13 mila. L’isola, oltre che spopolata era culturalmente arretrata e con un’economia di sopravvivenza. La società sarda, prevalentemente agro-pastorale, continuava a restare oppressa dai soprusi dei feudatari e taglieggiata dai tributi e dalle decime del clero.
In totale abbandono l’Isola era priva anche delle più elementari infrastrutture, a partire dal sistema viario, con strade pessime ed insicure, che potevano garantire ben pochi commerci. Le coste, circondate in parte da stagni malsani infestati dalle zanzare (Anopheles Labranchiae), erano poco abitate a causa dei frequenti cicli di febbri malariche che colpivano la popolazione, e dalle ricorrenti carestie. Le poche ricchezze dei proprietari della terra (feudatari e clero) derivavano soprattutto dall’allevamento del bestiame, praticato all’interno dell’Isola.
Una prima riforma radicale della gestione della terra venne attuata dai Savoia solo nel 1820. Con l’Editto delle Chiudende, emanato il 6 ottobre 1820 venne avviato un processo di privatizzazione della terra che, nonostante le buone intenzioni, finì per favorire i ceti più abbienti e, soprattutto, più spregiudicati. L’accaparramento consentì di ampliare ulteriormente le già vaste proprietà in mano ai latifondisti e conseguentemente di aumentare le rendite derivanti dagli aumentati canoni di affitto. Sedici anni dopo, nel 1836, solo dopo lunghe trattative e non poche difficoltà si giunse alla stesura della legge per l’abolizione del feudalesimo. L’operazione, stante le pressioni dei possessori della terra, fu conclusa ad alto prezzo e con il sistema del riscatto. Questa soluzione, che comportò costi pesantissimi per il Governo Centrale, fu, però, volturata a cascata, sui Comuni, depauperando ulteriormente le già magre risorse. Altri provvedimenti, adottati nello stesso periodo, riguardarono l’agricoltura, l’allentamento delle barriere commerciali, la riforma delle leggi civili e penali e la costruzione delle prime importanti infrastrutture. Saranno le strade le prime ad essere migliorate, a partire dalla Cagliari-Sassari, che porta ancora il nome di Carlo Felice. Seguirono, poi, l’istituzione del primo riparto catastale, la redazione di complete rilevazioni geografiche e l’effettuazione del primo censimento. Tutti questi atti, che modificarono profondamente i rapporti sociali ed economici della società sarda, costituirono un primo segnale di cambiamento: fu un ufficializzare, anche in Sardegna, il passaggio al post-feudalesimo.
Nel prossimo capitolo, partendo dalle fonti storiche più note, vengono esaminate le strade che il Sistema creditizio sardo ha percorso fino ai nostri giorni.
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CA PITOLO PRIMO
LE ORIGINI DEI MONTI
L’idea di modernizzare il settore agricolo con l’istituzione del “Padre Censore”, di marca spagnola, non fu l’unica via tentata per cercare di dare ordine ad un’agricoltura primordiale. Se sugli effetti derivanti dall’azione di miglioramento intrapresa dalla Corona di Spagna non si hanno riscontri certi, ( la richiesta di istituzione del Padre Censore fu accolta dal sovrano, a titolo sperimentale, per dieci anni), meglio documentata risulta, invece, l’azione già intrapresa dalla Chiesa nella stessa direzione.
Il Pontefice Leone X fin dal 1515 con la bolla “Inter multiplices” cercò di regolamentare il funzionamento dei “Montes Pietatis”. In Sardegna assai ben documentata è l’azione intrapresa dai vescovi di Ales. All’atto della nomina, infatti, il Papa invitava i Vescovi ad attivarsi fortemente per la costituzione, anche in Sardegna, dei Monti di Pietà ( procurandi erectionem Montis Pietatis).
Nella diocesi di Ales uno dei primi che si impegnò in questo senso fu il vescovo Michele Beltran (1638-1641). Il problema più grave che dovette affrontare fu quello dell’usura. I contadini dovevano necessariamente ricorrere alle anticipazioni nel periodo della semina, quando pur di procurarsi le sementi dovevano ipotecare gran parte del futuro raccolto, rischiando quasi sempre la miseria. Fu promossa, perciò, la fondazione in ogni villaggio, da parte del parroco, di un Monte di Pietà. Il Monte prevedeva il prestito, senza interesse, delle sementi. Il patrimonio granario del Monte era alimentato da una parte col grano versato dai membri della Comunità e dall’altra con il lavoro gratuito prestato in alcune occasioni dell’anno.
L’azione benefica intrapresa dal vescovo Beltran, che non aveva potuto completare il suo lavoro a causa della prematura morte, fu proseguita dai successori, soprattutto dal vescovo Francesco Masones y Nin (1693-1704), il quale divenuto poi arcivescovo di Oristano la applicò anche nella nuova Sede. Ma la figura di vescovo di Ales più legata alla diffusione dei Monti di Pietà fu quella del sassarese Giuseppe Maria Pilo (1760-1786) che si adoperò con passione ed energia al miglioramento delle miserevoli condizioni dei contadini. Il suo episcopato fu contemporaneo alla riforma avviata dal governo sabaudo sotto la guida del Ministro Giovanni Battista Lorenzo Bogino. Pilo offrì la sua collaborazione al ministro ricevendone in cambio attestazioni di grandissima stima. Il vescovo Pilo oltre che curare, in modo particolare, l’elevazione morale e culturale del clero diocesano, si prodigò con estrema dedizione nei confronti di tutto il popolo della sua diocesi. In una Sardegna piegata dalla carestia e dalla moria di bestiame, nell’inverno del 1779, non esitò ad aprire le porte dell’episcopio per accogliere le turbe degli affamati e a vendere persino l’argenteria del palazzo, diventando povero tra i poveri.
Scrive Manlio Brigaglia nel recente libro, edito dal Banco di Sardegna, “ La terra, il lavoro, il grano”:
“ Nella lunga storia dei Monti frumentari in Sardegna c’è anche la data di nascita. E’ il 4 settembre 1767: un pregone del viceré des Haydes dà una nuova organizzazione, più razionale e più rigorosa, a una istituzione destinata a coprire l’isola con una struttura efficiente e capillare al servizio dell’agricoltura. Una istituzione come quella dei Monti, in realtà, esisteva già dal periodo spagnolo. Un documento inedito, esposto nella mostra che il Banco di Sardegna ha dedicato, nel corso del 2001 e del 2002 al tema della terra, del lavoro e del grano in Sardegna, individua in Terralba e nel 1651 il luogo e la data di nascita del primo pòsito sardo. Dai pòsitos del Seicento nascono, con un rinnovato slancio, i Monti frumentari del Settecento...”.
La felice alleanza tra il vescovo Pilo e il ministro Bogino riuscì, in una regione ad economia quasi esclusivamente agricola, ad avviare quel processo di sviluppo e modernizzazione ormai indifferibile. La garanzia di buon funzionamento la garantì la Chiesa: il Monte era amministrato da una Giunta diocesana presieduta dal Vescovo; a sua volta il Monte faceva capo a una Giunta generale con a capo un Censore generale. Uno dei più famosi Censori generali fu Giuseppe Cossu, sassarese, che intelligentemente scrisse una serie di piccoli “catechismi agrari” in sardo, proprio per aiutare i contadini dei villaggi ad essere cittadini attivi della Comunità, sposando il grande progetto del Bogino.
In pochi anni i Monti si moltiplicarono. Accanto a loro nacquero, nell’agosto del 1780, i Monti nummari (dal latino nummus, moneta), il cui compito principale era quello di prestare non sementi ma denaro, necessario per l’acquisto del bestiame da lavoro e dei mezzi agricoli. La preziosissima funzione dei Monti si svolse in crescendo fino agli inizi dell’Ottocento. Fra il 1800 e il 1812, invece, i fondi dei Monti vennero, in gran parte, rastrellati dal governo per pagare i prestiti accesi dallo Stato. Nonostante le difficoltà create da questi espropri, che sottrassero la necessaria liquidità, che andavano di pari passo con amministrazioni poco trasparenti, la funzione dei Monti proseguì, tra alti e bassi, fino al 1845. L’agricoltura non poteva farne a meno essendo questi gli unici istituti che praticavano in Sardegna il credito agrario.
Gli anni successivi al 1845, complice la legge del 1851 emanata per riorganizzare l’intero sistema dei Monti, segnarono la fine di questo importante strumento. La legge in parola, nata per riorganizzare l’intero sistema dei Monti, abolì il Censorato generale e le Giunte, smontando il complesso sistema che per un secolo aveva svolto un ruolo centrale nelle comunità rurali sarde. Altre strutture creditizie si apprestavano ad entrare in lizza. Le prime ad entrare in funzione in Sardegna furono le Casse di risparmio di Cagliari e di Alghero, che accelerarono il processo di disfacimento delle vecchie strutture.
Il sistema creditizio sardo stava cambiando pelle e si accingeva a percorrere vie nuove.
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CA PITOLO SECONDO
DAI MONTI ALLE CASSE
In relazione alla discussa ristrutturazione dei Monti, scrive G.Toniolo ne “La storia del Banco di Sardegna”:
“..Il nuovo ordinamento sopprimeva la struttura piramidale congiunta di laici ed ecclesiastici (Amministrazione locale-Giunta diocesana-Censorato generale) e la sostituiva unicamente con Commissioni locali, presiedute da Sindaco e nominate dal Prefetto, , in base a una lista, comprendente il triplo dei nominativi, formata dal Consiglio comunale….”.
Il contributo portato dalle modifiche non apportò miglioramenti sostanziali. L’ammontare della produzione cerealicola dell’Isola, che già alla fine del Settecento era attestata in circa un milione di quintali, fu di fatto superata solo negli anni Settanta del nuovo secolo, principalmente grazie all’uso dei concimi chimici, come sostiene lo stesso Toniolo che, nel libro citato, cosi continua:
“.. Il processo di annullamento della funzione economica svolta dai Monti venne accelerato nel corso della seconda metà del XIX secolo dalla sovrapposizione di fenomeni diversi: la volontà politica di favorire una riallocazione del patrimonio immobiliare su cui i Comuni esercitavano diritto di usi civici (ci si riferisce ai progetti di abolizione degli ademprivii discussi nel 1857-59 e nel 1863-65), l’affermarsi, nel corso dei primi anni Settanta, di nuovi intermediari creditizi, che esercitavano credito agrario e fondiario, il riordino giuridico degli istituti di assistenza, cui i Monti vennero spesso assimilati, sebbene in modo non giuridicamente fondato...”.
La chiusura ufficiale dei Monti fu stabilita con la Legge sulle Opere Pie del 1862. Questa norma, che riordinava il comparto degli Istituti di assistenza, autorizzava le amministrazioni comunali a dichiarare lo scioglimento dei Monti, destinandone i patrimoni ad opere di pubblica utilità. La mano pubblica calò, come una mannaia, sui Monti. La verifica, effettuata nel 1861 prima e nel 1875 poi, accertò che solo nella provincia di Sassari furono chiusi 78 Monti nel 1861 e 84 nel 1875. Nel sud dell’Isola, invece, complice la convinzione che essi potessero svolgere ancora una funzione di migliore tutela della popolazione rurale, tardarono ad estinguersi. Nel 1897 erano attivi in provincia di Cagliari 167 Monti contro uno solo in provincia di Sassari. La capacità dei Monti di assicurare un intervento di credito in natura, stante i nuovi tempi, si era ormai esaurita.
Gli ultimi anni del secolo furono caratterizzati, in Sardegna, dalla radicale trasformazione del sistema economico fino ad allora ancora allo stato primordiale e basato sull’uso collettivo della terra. La società isolana abbandonava una delle sue più antiche consuetudini, il possesso comune del territorio, per uniformarsi ai nuovi canoni giuridici e produttivi propri della società civile contemporanea, fondata sulla tutela e valorizzazione della proprietà individuale.
Nell’isola questo processo di trasformazione (già avviato nella penisola fin dal 1819) fu avviato lentamente e conobbe una certa accelerazione solo dopo l’unificazione. La rottura dei vecchi meccanismi del passato non fu ne facile ne indolore. Il risultato fu l’alienazione dei beni ademprivili, la costruzione delle reti di comunicazione e le fondamentali opere di bonifica. Questi importanti miglioramenti necessitavano, però, di strumenti finanziari e creditizi diversi dai Monti, stante anche il miglioramento degli scambi commerciali non solo con la penisola ma anche con l’estero.
Il ventennio che va dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta risultò caratterizzato dalla crescita della produzione agraria e del miglioramento delle esportazioni di bestiame bovino e di alimenti e manufatti pre-industriali (farina, berretti di lana, pellame), principalmente verso i mercati francesi. Nel successivo quindicennio , dalla metà degli anni Ottanta alla fine del secolo, si ebbe, invece, un crollo delle tradizionali attività produttive e un aumento, invece, della pastorizia: la consistenza del bestiame ovino passò da 800 mila a 2 milioni di capi.
Per venire incontro alle nuove necessità creditizie e grazie alla legge nazionale che autorizzava la formazione di società ed istituti di credito agrario (in Sardegna la legge era diventata operativa solo nel 1869), la Cassa di Risparmio di Cagliari costituì l’apposita sezione di credito agrario. Era solo il primo passo. La febbre del cambiamento fece nascere, anche nell’Isola, una miriade di istituti bancari, che troppo numerosi per le esigenze della fragile economia del territorio ebbero vita breve.
Nacquero il Banco di Cagliari, il Banco di Sassari, la Banca Agricola Sarda, la Banca Agricola Industriale Arborense, il Credito Agricolo Industriale Sardo, la Banca Agricola di Gallura. In pochi anni (il massimo sviluppo fu nel 1883), la gran parte delle nuove strutture creditizie, fragili e poco capaci, vennero travolte da una crisi bancaria che iniziò nel 1887.
E’ utile segnalare che il credito all’agricoltura non fu, in Sardegna, appannaggio solo delle banche sarde ma anche di diversi Istituti a caratura nazionale. Tra i più attivi la Cassa di Risparmio del Banco di Napoli ( autorizzata all’esercizio del credito agrario dalla legge n. 334 del 7.7.1901). Questo istituto esercitò il credito agrario in Sardegna tramite le Casse Rurali. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni venti del Novecento l’Isola acquisì un sistema sufficientemente organico e stabile di istituzioni mirate a concedere credito all’agricoltura. Vennero istituite, in primo luogo, le due Casse Ademprivili di Cagliari e Sassari, attraverso la trasformazione delle due sezioni della Cassa Ademprivile della Sardegna. Questa Cassa non era nata come struttura creditizia. Il suo compito istituzionale era quello di gestire ed amministrare i terreni di origine feudale degli “Ademprivi”, ovvero di proprietà pubblica. Compito originario della Cassa era quello dell’appoderamento delle terre e della successiva concessione in enfiteusi. I terreni non adatti alla coltivazione venivano rimboschiti tramite l’amministrazione forestale. La trasformazione in Enti finanziari diede nuova veste e soprattutto nuove funzioni alla vecchia struttura. Il nuovo compito creditizio si esplicò attraverso intermediari ben noti: i Monti di Soccorso. Era questa la riscoperta di una struttura consolidata che riprendeva vigore attraverso la nuova linfa dei finanziamenti accordati alle Casse Ademprivili di Cagliari e Sassari. Il 1924 fu il momento più importante del nuovo corso. Fu questo, infatti, l’anno che vide la trasformazione dei Monti di Soccorso in Casse Comunali di Credito Agrario. Le strutture, cosi rinnovate, avranno vita lunga: resteranno vitali ed operative fino agli anni Novanta del secolo appena trascorso, fuse per incorporazione nel Banco di Sardegna, del quale diventarono sportelli diretti (Agenzie).
Pochi anni dopo, nel 1927, una legge nazionale sul credito agrario istituì una nuova struttura unificata per il credito agrario nell’Isola. Nacque, con questa legge, l’Istituto di Credito Agrario per la Sardegna, ICAS, frutto della fusione delle due Casse provinciali di Cagliari e Sassari. Compito del nuovo Ente, che nacque con un capitale di 22 milioni di lire, era quello di: “..coordinare, indirizzare ed integrare l’azione creditizia degli enti ed istituti locali a favore dell’agricoltura...”.
L’ ICAS, come comunemente venne chiamato, iniziò ad operare nel 1928, quando si riunì per la prima volta il collegio commissariale appena nominato dal ministro dell’Economia nazionale. Il 6 novembre il Consiglio di Amministrazione deliberò la pianta organica, strutturata in più livelli alla cui base erano, oltre le sedi di Cagliari e Sassari, le sette filiali di Oristano, Sanluri, Ozieri, Thiesi, Bosa, Isili e Lanusei, che governavano territorialmente le Casse Comunali di Credito Agrario. Il contributo dell’ICAS alla maturazione del sistema creditizio sardo fu determinante. Il compito principale fu quello di organizzare tecnicamente la rete capillare della Casse Agrarie. Fra i compiti più importanti la preparazione del personale, una gestione meno approssimativa del credito, e la creazione di una mentalità “bancaria”, prima inesistente. La crescita dell’ICAS non tardò a venire. Nel 1945 il personale era costituito da 185 unità che diventarono 260 nel 1952. Nell’allegato, riprodotto da un “Regolamento” dell’epoca, viene evidenziata la situazione e la distribuzione del personale negli anni 1945 e 1952.
Negli anni Venti la popolazione della Sardegna era cresciuta di soli 6.ooo abitanti, rispetto agli 853.ooo censiti nel 1911. Questo fatto non era solo da addebitarsi al diminuito tasso di natalità, ma anche ai grandi vuoti creati prima dalla Grande guerra e dopo dalla epidemia di “spagnola”. Inoltre, in quegli anni, la mortalità per malaria raggiunse una media del 97,5 per mille, contro una media nazionale del 12 per mille. L’agricoltura, che aveva conosciuto un periodo di artificiale floridezza durante la guerra, pagava il prezzo della limitatezza delle zone coltivate, aggravata da una frammentazione della proprietà fondiaria. Le leggi Serpieri del 1924 e la successiva del 1933 sulla bonifica integrale sembravano il mezzo più adatto a risolvere, in parte, una deficienza strutturale. Vennero avviati, con questa legge, interventi di bonifica importanti. La Società Bonifiche Sarde a Terralba bonificò a prezzo di grandi sacrifici una superficie di oltre 18.ooo ettari; l’Ente Colonizzazione Ferrarese nella Nurra algherese bonificò nel 1934 circa 12.ooo ettari; infine una superficie più modesta fu bonificata a Sanluri dall’Opera Nazionale Combattenti. Di queste opere, realizzate dal regime fascista nel periodo di massima autarchia per trovare soluzione alle sanzioni che continuavano ad affamare la popolazione, quella che raggiunse appieno lo scopo e anzi superò le previsioni iniziali fu la bonifica del terralbese. La nuova città di Arborea (battezzata originariamente “Villaggio Mussolinia”) che sorse a fianco dell’antica Terralba, sulla grande pianura fertile appena bonificata, popolata dalle laboriose popolazioni venete immigrate, raggiunse in breve tempo livelli di eccellenza. Anche oggi il suo territorio con colture, allevamenti e industrie di trasformazione di prim’ordine, è uno dei pochi esempi in Sardegna di agricoltura/allevamento di livello europeo.
Nel 1944 con l’istituzione dell’Alto Commissariato per la Sardegna, iniziò un percorso che porterà l’Isola sulla strada per l’attuazione dell’autonomia. Il successivo provvedimento legislativo stanziò a favore dell’economia sarda 150 milioni di lire per la creazione di un Banco di Sardegna (non quello attuale che nascerà, invece, dieci anni dopo). Negli anni dal 1947 al 1950 l’Ente regionale per la lotta antianofelica (ERLAS), utilizzando un consistente contributo finanziario e scientifico della Rockfeller Foundation, con l’impiego di oltre 35.ooo operai portò a compimento un’opera straordinaria: quella di debellare la malaria da tutto il territorio dell’Isola. La vittoria sulla malaria, che aveva afflitto l’isola per millenni, fu certamente uno degli eventi più importanti del secolo scorso. I futuri investimenti sia agricoli che imprenditoriali successivi, furono possibili solo in una Sardegna liberata da simile flagello.
Nel 1946 il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica portò alla Sardegna non solo la nuova Costituzione repubblicana, che entrò in vigore il primo gennaio del 1948, ma anche, all’interno dell’organizzazione dello Stato, un nuovo status giuridico: quello di Regione autonoma. La nostra autonomia, sancita dall’art.116 della Costituzione e dalla legge costituzionale del 26 febbraio del 1948 che approvò lo Statuto speciale, nacque in maniera abbastanza travagliata. A differenza degli Statuti delle altre Regioni autonome quello sardo risentì, però, della nostra immaturità politica. Mentre quello siciliano fu concepito, strutturato e studiato dai siciliani per i siciliani, quello sardo, complice la nostra proverbiale litigiosità e diffidenza, venne preparato “per i sardi” dal Parlamento nazionale.
Nell’autonomia delegata dallo Statuto diverse furono le competenze legislative riservate alla Regione, tra cui quella sul Credito Agrario. La “delega” sul credito agrario pur semplice nell’apparenza si rivelò di difficile applicazione e armonizzazione con le leggi nazionali. Fiumi di inchiostro sono stati già versati sulla diversa interpretazione delle competenze delegate. Fra i tanti che scrissero ( e ancora scrivono..) mi limito a ricordare le dotte disquisizioni di Francesco Cossiga, che negli anni Cinquanta (era allora assistente di Diritto Costituzionale nell’Università di Sassari) scrisse numerose “Osservazioni”, e le altrettanto puntigliose precisazioni di Giuseppe Guarino, che sull’argomento, spesso, arrivava a conclusioni molto diverse da quelle del nostro Presidente emerito.
In questi primi anni di vita repubblicana le forze politiche sarde, con l’intento di mettere al passo la Sardegna con il resto dell’Italia, iniziarono a rivendicare un “Piano di Rinascita “ economica e sociale, previsto, tra l’altro, dall’art.13 dello Statuto.
Nel 1962, con la legge n.588 dell’11 giugno, denominata “ Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna”, venivano stanziati 400 miliardi da spendersi in 10 anni. Qualche anno prima, nel 1953, con la legge n. 298 dell’11 aprile, era stato istituito il Credito Industriale Sardo, CIS, e riformati e riordinati l’Isveimer e l’Irfis; la stessa legge stabiliva la costituzione del Banco di Sardegna, Istituto di Credito di Diritto Pubblico, attraverso la fusione per incorporazione dell’Istituto di Credito Agrario per la Sardegna, ICAS ( di cui ereditava il patrimonio e l’organizzazione) e dell’omonimo Banco di Sardegna di Cagliari, prima menzionato, istituito nel 1944 e mai diventato operativo per mancanza di dotazione di capitale.
Con il nuovo Banco di Sardegna iniziò per il sistema creditizio sardo una trasformazione epocale.
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CA PITOLO TERZO
DALLE CASSE AL BANCO DI SARDEGNA
Nel 1955, con decreto del ministro del Tesoro, veniva approvato lo Statuto del nuovo Banco. La continuità da ICAS a Banco di Sardegna fu totale. Della dotazione patrimoniale iniziale di 710 milioni ben 560 milioni furono conferiti dall’ICAS. Il personale confluì tutto nel Banco, a partire dal mitico direttore generale Oreste Pieroni, figura di spicco e pubblico amministratore della Sassari dell’epoca. Sotto la sua guida iniziò la modernizzazione della struttura ereditata. Alle due sedi ed alle sette filiali ereditate dall’ICAS altre se ne aggiunsero in poco tempo (nel 1956 erano già operative le nuove filiali di Ales, Iglesias, Senorbì, Nuoro, Cuglieri, Macomer, Siniscola, Alghero, Nulvi, Olbia, Pattada e Tempio. Fu, inoltre, riorganizzata la rete territoriale delle Casse Comunali di Credito Agrario e si aprirono filiali nella penisola: a Roma, Genova e Milano. Altro importante legame con la struttura politica dell’Isola fu l’acquisizione del servizio della tesoreria regionale. Gli anni Sessanta furono, per la precaria economia dell’Isola, gli “ anni della rinascita”. La Sardegna avviò un processo di industrializzazione massiccio. Pur apparendo, sulla carta, un piano capace di avviare l’Isola ad una parificazione con le altre regioni, si rivelò, invece, incapace di integrarsi nel nostro sistema economico e quindi controproducente. I massicci investimenti destinati alle nuove imprese chimiche, minerarie, metallurgiche e delle costruzioni furono sostenuti, soprattutto, dal Credito Industriale Sardo, da diverse banche nazionali ed anche dal nuovo Banco di Sardegna. La chimica e la petrolchimica, tuttavia, non furono i settori privilegiati dal Banco. Il credito all’agricoltura continuò a rimanere il suo punto di forza, retaggio ereditato dall’ICAS, ma soprattutto erogato dalla miriade di microsportelli delle Casse Comunali di Credito Agrario. La neonata Sezione Speciale di Credito Agrario, si impegnò in un grande disegno di riordino fondiario, finalizzato ad incrementare dimensioni e redditività delle aziende agricole.
Per agevolare questo tentativo di riordino fondiario il Banco venne autorizzato anche ad assumere partecipazioni dirette in società agricole, industriali e commerciali. Per il sostegno al settore edile e del mercato immobiliare il Banco istituì anche una Sezione Speciale per il Credito Fondiario ed una Sezione per il Credito alle Opere Pubbliche.
La Sardegna, ora, iniziava a crescere. Se negli anni Cinquanta i redditi sardi avevano subito una regressione relativa, rispetto agli andamenti nazionali, tra il 1963 e il 1970 il reddito lordo pro capite regionale crebbe ad un tasso del 5,7 per cento, contro il 5,2 del Mezzogiorno e il 4,3 dell’intero paese. Anche la crescita del Banco fu notevole: il valore dei depositi e dei conti correnti passò da 39 miliardi di lire nel 1960 ai 145,7 miliardi nel 1967. La crescita risultava superiore a quella delle altre banche attive nella regione. Gli investimenti in credito agrario alla fine degli anni Sessanta erano complessivamente di 76,346 miliardi di lire (49,745 MD di crediti di esercizio e 26,601 MD di crediti di miglioramento). I crediti ordinari ( si definiscono crediti ordinari quelli destinati a tutte le attività commerciali e industriali non collegati al credito agrario) quantitativamente, tra il 1960 ed il 1969, crebbero in misura costante: in un decennio passarono dai 16 miliardi di lire del 1961 ai 144 miliardi del 1969.
Gli anni Settanta, complice anche lo shock petrolifero mondiale che si ripercosse sulle industrie chimiche e petrolchimiche presenti nell’isola, evidenziarono le prime difficoltà. Agli affanni delle industrie si aggiunse la netta diminuzione dei contributi statali a cui l’isola si era abituata col piano di rinascita. Il Banco, ormai diventato l’istituto di credito più importante dell’isola, applicò, prudentemente, la strategia del rafforzamento patrimoniale e della razionalizzazione distributiva. In sei anni raddoppiò i fondi patrimoniali di garanzia e razionalizzò la rete degli sportelli anche con l’apertura di nuove dipendenze nella penisola. Agli inizi degli anni Novanta, completata la trasformazione delle Casse Comunali di Credito Agrario in dipendenze dirette del Banco, diede attuazione all’importante legge “ Amato-Carli” ( legge n. 218 del luglio del 1990), che imponeva agli Istituti di credito di diritto pubblico ed alle Casse di risparmio di trasformarsi in Società per Azioni.
Modificato e adeguato lo Statuto alla nuova situazione, nel luglio del 1992, il Banco di Sardegna abbandonò la qualifica di “Istituto di credito di Diritto Pubblico” per assumere quella di “Società per Azioni”. Il patrimonio (le azioni) furono conferite alla Fondazione Banco di Sardegna, ente di nuova costituzione. Le finalità del nuovo Ente (la Fondazione), secondo lo Statuto, sono quelle di interesse pubblico e di utilità sociale. Tra le sovvenzioni annuali correnti quelle a favore delle Università di Cagliari e di Sassari.
La legge Amato-Carli, prevedeva anche che le Fondazioni cedessero, gradualmente, il capitale di controllo delle rispettive imprese bancarie, per non vincolarne la libertà di mercato. La Fondazione del Banco scelse sul mercato il “Gruppo” della Banca Popolare dell’Emilia Romagna (BPER). In due tranches il 51% del capitale sociale (azioni ordinarie) fu ceduto, con conseguente ingresso del Banco di Sardegna s.p.a. nel Gruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna.
All’interno del “gruppo BPER”, che è costituito dalla capogruppo e da 13 altre banche, il Banco ha mantenuto le caratteristiche della sub-holding, ovvero una autonomia patrimoniale e gestionale separata, rispetto alla capogruppo, considerato il modello federale in atto. Questo modello consente al Banco di svolgere, come prima, un ruolo di presidio e di valorizzazione del territorio operativo che era e rimane prevalentemente sardo.
L’attività del Banco, infatti, continua a svolgersi in larga misura nell’Isola dove, pur in condizioni di sempre maggiore concorrenza, ha ulteriormente accresciuto le sue già elevate quote di mercato: la sua struttura nell’Isola rappresenta il 58% degli sportelli bancari con una rete che, a fine del 2002, era di 375 sportelli, a cui si debbono aggiungere i 16 operativi nella penisola, distribuiti tra Lazio, Lombardia, Toscana, Liguria ed Emilia Romagna. L’integrazione con il resto del “Gruppo BPER” è in costante crescita, soprattutto attraverso l’utilizzo dei nuovi strumenti telematici che consentono transazioni in tempo reale in tutto il mondo.
Il lungo cammino delle Istituzioni creditizie sarde ha fatto già un buon tratto di strada: dai Monti frumentari alla Banca Universale (oggi comunemente definita “Banca on line”).
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CONCLUSIONI
Il sistema creditizio sardo ha faticato più di altri a raggiungere gli attuali livelli. Alla base, forse, ci sono gli stessi motivi che hanno fatto uscire in ritardo l’Isola dal feudalesimo: la mancanza di fiducia. La diffidenza dei sardi, frutto dei lunghi periodi di dominazione straniera, unita all’isolamento geografico, non ha mai agevolato e incentivato gli scambi commerciali e culturali con gli altri popoli. La cultura imposta dai dominatori ha creato sudditanza e quindi diffidenza. Millenni di dominazione hanno rafforzato l’individualismo a scapito dell’associazionismo. Tutto questo ha nel tempo frenato sia la crescita interna che l’interscambio con l’esterno. Ma questo modo di essere, oggi, ha ancora senso o valore? Le nostre diffidenze prima o poi dovranno prima allentarsi e poi cadere. L’individualismo dovrà lasciare spazio alla condivisione, il gioco individuale al gioco di squadra. Oggi la fiducia, come sostengono i nuovo manuali di sociologia ( Giddens, Luhmann), non può più essere limitata dalla conoscenza “personale”, accordata solo dopo aver vinto la diffidenza, ma estesa, aperta, rivolta a tutta un serie di strutture invisibili ma sperimentate e capaci. E’ la fiducia nei sistemi esperti. E’ il mondo della globalizzazione che lo richiede, quello in cui viviamo, e che detta le nuove regole a cui nessuno può sottrarsi.
Qualcuno ha ricordato la preoccupazione dei sardi quando nel lontano 1844-45 si passò dai vecchi sistemi di misurazione in uso nella regione al sistema metrico decimale. La stessa preoccupazione si è ripetuta nel 2002, anno di introduzione dell’Euro. E’ la “paura del nuovo”, la paura dell’ignoto, che ieri ci ha impedito di partecipare a pieno titolo ai progressi dell’economia ed anche oggi può limitarci. La Sardegna non può continuare ad arroccarsi nel suo lungo isolamento. Il sistema produttivo sardo deve uscire dal guscio, confrontarsi e competere con quello del resto del mondo. Tramontata la grande industria, sogno di riscatto degli anni Sessanta, cadute le forti agevolazioni pubbliche, il cui spreco fa ancora gridare allo scandalo, gli imprenditori sardi devono lottare con le proprie forze per proiettarsi all’esterno per far crescere le loro aziende. Solo la consapevolezza che il ricco mercato dell’Unione Europea è non solo vicino ma anche a portata di mano può stimolare la competizione. Il futuro per le aziende sarde è fatto di non solo di produzioni di qualità a costi competitivi, ma anche (direi soprattutto) di analisi di mercato, promozione e marketing. Altra risorsa di cui l’Isola può avvantaggiarsi è la valorizzazione del suo territorio, sfruttandone turisticamente le risorse naturali sotto alcuni aspetti uniche. La sua posizione al centro del Mediterraneo, il clima particolarmente adatto all’industria delle vacanze, la bassa densità abitativa, unita alla bellezza delle coste ed alle caratteristiche uniche possedute ( archeologia, bio-diversità, natura incontaminata etc.), possono trasformare in risorsa quello che in passato era un grosso handicap. Per fare questo è importante che i sardi, i giovani soprattutto, raggiungano gli stessi livelli sociali e culturali del resto dell’Europa. Solo a parità di condizioni, conoscenze e cultura il confronto sarà ad armi pari. La nostra sfida potrà essere vincente solo se saremo capaci di fare quel salto di qualità che i nuovi mercati impongono. Fare mercato oggi in Sardegna significa valorizzare le risorse locali, produrre in modo non frammentario i prodotti che il vasto mercato richiede; tradotto in pratica significa immettere sul mercato vino, latte, formaggi e tante altre nostre produzioni con le caratteristiche di “alta qualità” (incrementare l’industria agro-alimentare, soprattutto sul biologico, è ancora un sogno). Competere nel mercato globale non significa lavorare solo prodotti “standardizzati”, ma anche valorizzare le produzioni di nicchia, ricche di saperi (e sapori) locali, la cui identità e unicità possono avere notevoli potenzialità. Per fare tutto questo anche la mano pubblica ha il suo compito. A differenza del passato non più contributi concessi a pioggia, che si disperdono in mille rivoli, ma progetti mirati sulle infrastrutture e sui servizi ed agevolazioni che richiamino nell’Isola investimenti importanti che affianchino l’imprenditoria locale. Sarà in grado la Sardegna di vincere la sfida? Credo che sia il sogno di tutti.
Se cosi fosse i sardi potrebbero sorridere al ricordo dell’antico detto li definiva: pocos, locos y mal unidos.
Mario Virdis
BIBLIOGRAFIA
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