Oristano 8 novembre 2019
Cari amici,
Il problema della
dipendenza da Internet l’ho già trattato diverse volte su questo blog, ma
l’uscita del libro di Paolo Del Debbio, dal titolo “COSA RISCHIANO I NOSTRI
FIGLI” e che per sottotitolo ha “L’incertezza di una generazione”,
mi da l’occasione per riparlare dell’argomento, che diventa ogni giorno più serio
e preoccupante. Si, in realtà Internet è riuscito in un’impresa che a primo
avviso sembrava titanica: inserirsi subdolamente in larghissimi strati della
popolazione, spodestando perfino la TV e prendendone il suo posto!
Dopo molti anni di
indiscusso dominio la TV, così cara agli italiani, ha dovuto abdicare
giocoforza in favore della rete, e in particola modo dei social. Ormai la
dipendenza da Internet è diventata praticamente virale, contagiando tutte le
età, in particolare i giovani e i giovanissimi, quelli nati nell’epoca della
Rete e dei social; una dipendenza che si sta diffondendo a ritmi così veloci che,
se non bloccata in tempo, può creare danni poco reversibili, ferite profonde,
sicuramente molto difficili da curare.
A mettere come si dice “il
dito sulla piaga” ci ha pensato il noto giornalista Paolo Del Debbio,
che di recente ha pubblicato il libro prima indicato, (edito da Piemme): «Cosa
rischiano i nostri figli. L’incertezza di una generazione». La dipendenza da Internet, scrive Del Debbio, è simile a molte altre “dipendenze”, ma
con una particolarissima differenza che riguarda i costi. L’alcol, per esempio costa,
magari poco ma costa, la droga costa abbastanza e il gioco d’azzardo, in
particolare per i ludopatici compulsivi, costa moltissimo, mentre Internet non
costa nulla: è gratis.
L’enorme diffusione
dei PC, a cui ha fatto seguito quella dello smartphone, ha contribuito a creare
un mondo virtuale parallelo a quello reale, che sotto certi aspetti ha
fagocitato quello vero, quello concreto, creando una “realtà virtuale” sostitutiva,
sicuramente dannosa, e che crea rischi di cui è difficile capirne la reale,
totale pericolosità. Ma questo sembra lasciare del tutto indifferenti i giovani,
e non soltanto loro: anche gli adulti, quelli che per differenziarli dai «nativi
digitali» vengono definiti «immigrati digitali».
Uno degli aspetti più
pericolosi di questa dipendenza, in particolare da quella dei social, è quella
dell’ansia morbosa che crea l’attesa delle risposte che aspettiamo dal nostro iPhone:
lo guardiamo ogni momento, ci alziamo di notte, controlliamo di continuo
messaggi, mail, WhatsApp, FB, Instagram etc. Tutto passa in secondo piano: lo studio, le relazioni
sociali reali (sostituite da quelle virtuali), lo sport, il tempo libero con
gli amici. Il rischio è che prevalga l’ignoranza, che acculturarsi diventi
un’abitudine desueta, d’altri tempi, riservata a pochi, come andare a cavallo o
giocare a canasta.
Il telefonino è ormai
considerato il proprio alter ego; non serve infatti solo per telefonare ma è la
chiave per soddisfare quell’incomprimibile desiderio di collegarsi alla rete,
ai social, dove gli agguati sono diventati sempre più pericolosi. I pericoli in
rete in realtà sono tanti: fare squadra con i bulli della rete, instaurare relazioni virtuali di ogni genere, cadere in trappole di adulti senza scrupolo. Il pericolo è ogni giorno più
forte.
I nostri figli, scrive
Del Debbio, «rischiano che, in un numero di anni che si contano sulle
dita di una mano, le loro menti, i loro cuori, i loro corpi e le loro anime si
chiudano nei confronti della vita reale e si aprano solo nei confronti della
vita virtuale. Rischiano, in altre parole, di disamorarsi della vita vera e di
innamorarsi della vita artificiale, quella dei social, fino ad ammalarsene».
Si stava meglio quando
si stava peggio, si domanda Del Debbio? Nel libro il giornalista-autore si
cimenta in un confronto, portando in paragone due storie esemplari: quella di
Ermanno, emigrato negli Stati Uniti nel secolo scorso, e quella di Vittorio
Emanuele, nativo digitale. Ermanno, prima di mettersi in viaggio per il nuovo
mondo, va in chiesa a pregare il santo patrono, San Paolo; si inginocchia
dietro la sua statua lignea, la incide con un coltellino, e ne ricavava una
piccola scheggia che custodisce in un astuccio. Forte di questo amuleto,
Ermanno arriva a piedi al porto di Genova, vede il mare per la prima volta,
sopporta 30 giorni di burrasca, affronta gli umilianti controlli di Ellis
Island e l’impatto con i nascenti grattacieli di New York. Quella scheggia,
però, gli ha sempre ricordato chi era, in cosa credeva, da dove veniva.
Vittorio Emanuele ha,
invece, una qualità della vita incomparabile con quella di Ermanno, o, meglio,
la avrebbe. Perché Vittorio Emanuele non vive, se non virtualmente. È sempre
connesso. A pranzo lascia il cellulare acceso. Il pomeriggio con il suo
videogame, è in costante contatto con dei coetanei malgasci di cui non sa
nulla, i problemi i sogni le paure; sa solo che giocano meglio di lui, e non
riesce mai a batterli. A cena il padre gli impone di lasciare il cellulare in
stanza. Per lui, una tortura: come smettere di correre, bruciare di sete e non
avere l’acqua. La notte è per gli influencer. Lui ne segue, anzi idolatra uno
in particolare: Heaven Now; il paradiso, ora. Motto: «Si può essere
felici anche da soli, nella propria cameretta. Basta far sapere agli altri che
ci siamo e sapere della vita degli altri. Stay linked!».
Ma si può crescere
così? Pensando i pensieri di un altro? Senza sapere chi si è, da dove si viene,
cosa si vuole? Rischiando ansia, manie, depressione, vere e proprie malattie? C’è
un solo rimedio a tutto questo, scrive Del Debbio nell’ultimo capitolo: L’educazione, il dialogo. È fondamentale che le generazioni si parlino. Che i padri e
i nonni affrontino i figli con la pazienza della goccia che scava la roccia.
Anche a costo di rinunciare loro per primi a dipendere dalla rete e dai
cellulari. I ragazzi vanno accompagnati nel percorso di vita: lo studio, il
volontariato, la ricerca di un lavoro, che spesso li spaventa, rappresenta il
loro timore non detto, quasi un mostro che li induce a chiudersi in stanza con
lo smartphone e l’influencer. Non è facile, anzi è difficilissimo; ma non c’è
altra soluzione.
Amici, c’è davvero da
riflettere e Del Debbio ci da davvero dei preziosi consigli!
A domani.
Mario
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