Oristano 14 novembre 2019
Cari amici,
Purtroppo è una realtà: i cellulari di nuova
generazione finiscono sempre più nelle mani di giovani e giovanissimi. Si sta
arrivando ad un’età sempre più bassa nell’utilizzo di un cellulare, esponendo i
fruitori ad un pericolo sempre più carico di incognite. Gli smartphone di oggi non
sono solo telefoni che consentono di comunicare come una volta, ma dei veri computer, che aprono al giovane inesperto un
mondo ampio e variegato, pieno di pericoli di vario genere. Lo dimostrano le
ripercussioni psicologiche derivanti dal cyberbullismo, espresso in una miriade
di forme più o meno violente e che si rivelano abbastanza preoccupanti,
condizionando la crescita dei ragazzi esposti a queste pericolose, possibili devianze.
La verità è che i nostri
ragazzi con uno smartphone in tasca possiedono un’arma pericolosa, capace di
proiettarli in un mondo a loro ancora sconosciuto, e, come in una vera foresta, rimanere vittime di “bestie feroci”, senza scrupoli, ovvero adulti predatori in
un mondo sempre più violento. Questo significa che, considerata la loro
fragilità, se non monitorati con attenzione, in particolare dalle famiglie, essi
rischiano di trovarsi coinvolti in situazioni di grande pericolosità (fisica e
psicologica) che possono condizionare la loro indispensabile serenità di crescita,
portandoli a conseguenze a volte molto pesanti.
Il cyberbullismo, per
esempio, risulta in continua crescita, tanto che tra “i grandi gestori dei
social” si cerca di correre in qualche modo ai ripari. In un Web oramai
diventato una enorme e poco controllabile “piazza virtuale”, Instagram
è stata la prima piattaforma ad aver dichiarato guerra al cyberbullismo. A
ruota altre piattaforme si stanno attrezzando sulla stessa lunghezza d’onda,
per cercare di tamponare il triste fenomeno. Il Web, luogo privilegiato delle
nostre speranze e gioie, è purtroppo diventato anche quello delle nostre
frustrazioni e paure, un mondo che risulta difficile da combattere, senza avere
le armi giuste per farlo.
Se per noi adulti la
navigazione nel Web risulta relativamente meno pericolosa, per i nostri figli,
frequentatori ben più assidui del Web, il pericolo esiste, in quanto essi possono
cadere vittime di aggressioni informatiche di ogni tipo. Una di queste è l’hate
speech, che nel linguaggio digitale indica il modo violento con cui
si esprime una persona che commenta i post che compaiono sui social, utilizzando
un linguaggio aggressivo e profondamente offensivo nei confronti di un’altra
persona. Il livello di violenza raggiunto è tale che molte delle singole
piattaforme, come detto, stanno prendendo le misure per cercare di ridurre il
fenomeno e proteggere chi ne è vittima, soprattutto i nostri ragazzi.
Instagram, partita per
prima, ha annunciato di avere preso già due provvedimenti, di cui uno in
particolare: un’intelligenza artificiale che analizza un commento prima che
venga pubblicato, confrontandolo con gli altri commenti segnalati sulla
piattaforma; se l’A.I. (Artificial Intelligence) trova delle affinità tali,
per cui ritiene che il commento in quesitone possa contenere un messaggio
dannoso, segnala questa possibilità al commentatore, dandogli l’opzione di
ripensarci e modificare quanto scritto, oppure di non pubblicare il commento.
Dopo i primi esperimenti Instagram
(nel comunicato dell’8 luglio 2019) ha dichiarato che questo metodo innovativo
ha già contribuito in modo considerevole a ridurre i commenti negativi. Con
buona probabilità l’analisi fatta prima della pubblicazione riesce a fermare
l’impulsività di chi commenta a caldo, smussandola col passare dei minuti, e riportandola
ad un giudizio più sereno. È chiaro tuttavia che combattere un fenomeno così
deleterio non deve restare un compito delle sole piattaforme digitali.
In questa prospettiva, in
appoggio alle diverse iniziative (community ad hoc, feature per silenziare
utenti molesti, modifiche all’algoritmo, ecc.) intraprese in questi anni dai
giganti del web, deve intervenire il soggetto pubblico, contribuendo a combattere
il discorso dell’odio fuori e dentro la Rete. Diversi Paesi si sono già posti
su questa lunghezza d’onda, mentre per molti altri Stati l’hate speech non è
ancora considerato un fenomeno dai tratti legali chiari, tale da prevederne una
regolamentazione legislativa.
Ci sono Paesi come
l’Irlanda del Nord e il Canada, per esempio, che hanno stabilito norme ad hoc per
regolamentare il fenomeno, norme che, di volta in volta, chiamano in causa il
profilo della responsabilità civile, quello della responsabilità penale o
entrambi; in altri Paesi, invece, nonostante le proposte presentate e il forte
dibattito pubblico in materia, non sono state ancora emanate leggi specifiche.
È
tempo che una chiara regolamentazione del fenomeno metta un freno a questo
triste comportamento, che sembra riportare in auge antichi odi razziali, di
classe, di genere e di appartenenza sociale e religiosa, turbando l’ordine pubblico, sconvolgendo
il comune senso del pudore, e ledendo i diritti fondamentali dell’individuo.
Amici, proteggere i
nostri figli dai pericoli della rete è un compito a cui nessuno di noi può
rinunciare, costi quello che costi! Anche usando metodi che possono additarci
come soggetti poco moderni e antiquati, perché l’educazione, anche nel terzo
millennio comincia sempre in casa!
A domani.
Mario
Nessun commento:
Posta un commento