venerdì, giugno 20, 2025

TRA LE MERAVIGLIE DEL CREATO C'È UNA BELLISSIMA PIANTA CHE VIVE A LUNGO MA FIORISCE UNA SOLA VOLTA PRIMA DIMORIRE: È LA “SILVERSWORD DI HALEAKALĀ” E SI TROVA NELLE ISOLE HAWAII.


Oristano 20 giugno 2025

Cari amici,

C’è una curiosa pianta che cresce solo sulle pendici vulcaniche di MAUI, nelle Hawaii, e che ha delle particolarità uniche, quasi fosse uscita da una di quelle leggende che affascinano i bambini. Questa pianta si chiama “SILVERSWORD DI HALEAKALĀ”, ma, per la sua particolarità, è nota anche come “Fiore della Pazienza”. Sapete per quale motivo? È una pianta che può arrivare a vivere  anche più di 50 anni, ma senza i normali cicli di fioritura, in quanto fiorisce solo una volta nella vita: prima di morire!

Chiamarla giustamente “pianta fiore della pazienza”, ha una sua logica. Il Silversword viene così chiamato in quanto questa pianta rarissima, che cresce solo sulle pendici del vulcano Haleakalā, sull’isola di Maui, nell’arcipelago delle Hawaii, fiorisce una sola volta nella vita. Di norma gli esemplari vivono tra i 20 e i 50 anni, però senza mai fiorire. Attendono in silenzio, sotto il sole cocente e il vento delle alte quote, accumulando energia per anni ed anni, per compiere, sul finale della loro vita, un unico gesto: QUELLO DELLA RIPRODUZIONE! Lo fanno esibendo una straordinaria fioritura, spettacolare e irripetibile, che però è proprio unica, durando appena tre settimane. Poi muore.

Amici, riprodursi è nel DNA di ogni essere vivente, ed è logicamente presente anche su questa rarissima pianta, che trascorre una vita intera in attesa di compiere quell’atto dovuto: riprodursi! Lo fa una sola volta nella sua lunga vita, esplodendo in una fioritura meravigliosa, mostrando decine di fiori violacei in un unico, irripetibile spettacolo! È una straordinaria esposizione, l’esibizione di uno tripudio di colori e di bellezza, che incanta chi arriva ad ammirarla. L’esibizione dura solo poche settimane poi scompare: dopo la fioritura i semi maturati essiccati vengono sparsi dal vento e faranno nascere le generazioni successive di questa pianta.

Il Silversword, amici, non è solo una meraviglia botanica: è un simbolo vivente di pazienza, resilienza e bellezza effimera. Crescere in condizioni estreme, sopra i 2.000 metri di altitudine, dove poche altre forme di vita riescono a sopravvivere, è quasi un miracolo. Eppure, nonostante le difficoltà, vive e lotta, attendendo con ostinazione il suo momento perfetto. Credo che la sua vita sia una eccellente dimostrazione, a noi umani, che in qualsiasi condizione la vita può e deve continuare! Questa pianta è per tutti noi un promemoria naturale potentissimo: mai arrendersi, dare sempre tempo al tempo, perché molte delle cose più belle e rare della vita, richiedono tempo, silenzio e attesa.

Amici lettori, di fronte a fenomeni così particolari e straordinari come questo, dovremmo davvero riflettere. Osservare con attenzione la natura non solo serve ad aiutarci a creare in noi grande fascino e ammirazione, ma anche a farci meditare. La natura è un grande libro aperto, che dovremmo saper leggere! Nell’osservare il Silversword, dovremmo rivedere anche un po’ di noi. Mediamo sull’idea di aspettare sempre il momento giusto, sia nell’ affrontare la fatica, che il tempo e l’incertezza, per poi esprimere tutte le nostre capacità in un attimo di pienezza!  Il Silversword è un saggio promemoria che la natura ci regala, e che di certo vale la pena di ascoltare!

La natura, amici, è una vera, grande maestra di vita! Poche altre specie vegetali hanno la particolarità di fiorire una sola volta nella vita. Una delle più note è l’Agave americana, spesso chiamata “pianta del secolo”, che può impiegare dai 10 ai 30 anni per fiorire; e, quando accade, produce un gigantesco stelo floreale alto anche sei metri, e poi muore. Un altro esempio straordinario è il Talipot palm (Corypha umbraculifera), una palma originaria dello Sri Lanka e dell’India meridionale, che fiorisce una sola volta in 40-60 anni, prima di collassare su sé stessa. Infine, il bambù: alcune varietà fioriscono contemporaneamente in tutto il mondo dopo decenni o addirittura un secolo, per poi morire tutte insieme.

Cari lettori, io vedo la natura come una vera enciclopedia della vita, molto utile per la nostra esistenza. Osservare la SILVERSWORD DI HALEAKALĀ in fiore, è prendere atto del coraggio e della resilienza della pianta, è comprendere che, quando è necessario bisogna saper aspettare, dedicando la propria esistenza a prepararsi per quel grande, unico momento perfetto: trasmettere la vita! L’unica fioritura della Silversword, quello straordinario e irripetibile spettacolo, dovrebbe insegnare, a ciascuno di noi, che  ogni individuo dovrebbe recitare il suo ruolo nella vita una volta sola, e poi lasciare il palco. Esempio, purtroppo, troppo spesso ignorato!

A domani.

Mario

giovedì, giugno 19, 2025

I CURIOSI, ORIGINALI RIMEDI UTILIZZATI PER CIRCOLARE NELLE ZONE PALUDOSE. DALLE DAME VENEZIANE DEL RINASCIMENTO AI POSTINI FRANCESI DEL NOVECENTO.


Oristano 19 giugno 2025

Cari amici,

Venezia, conosciuta come la città sull'acqua, vive da secoli la sua vita immersa nella Laguna, una vasta area acquatica unica al mondo. La città di Venezia si estende su un arcipelago di isole, molte delle quali collegate da ponti e canali. In un luogo così paludoso, impregnato di umidità, le donne veneziane del Rinascimento, per potersi destreggiare nella fitta rete di canali, e nelle spesso fangose strade della città, avevano escogitato un curioso sistema, che consentiva loro di salvaguardare gli eleganti abiti dall’umidità e dallo sporco delle strade di Venezia.

Lo stratagemma usato, che consentiva di elevare non solo la propria statura ma anche il proprio rango sociale, era l’utilizzo delle CHOPINE, delle particolari, vertiginose calzature diventate popolari dal XV al XVII secolo; esse, oltre a soddisfare il bisogno di non sporcarsi, andava anche oltre, in quanto dava alle dame che le utilizzavano un maggior rango sociale. Con un’altezza che arrivava fino ad oltre 50 centimetri, le calzature CHOPINE erano realizzate con cura, in legno o sughero, rivestite spesso anche di pregiati tessuti, come seta e velluto, talvolta impreziosite anche da gioielli e ricami elaborati.

Amici, più che una particolarissima calzatura, adatta a muoversi nelle vie fangose, e che consentiva di proteggere l’abbigliamento, una Chopine riusciva a dare, alla dama che la indossava, anche un maggior prestigio sociale, diventando un potente indicatore visivo della sua ricchezza e della sua nobile discendenza. Più la piattaforma era alta, più stoffa era necessaria per far ricadere il vestito fino ai piedi, mettendo così in mostra l’opulenza familiare, grazie ai tessuti sontuosi utilizzati. Insomma, indossare le Chopin era una vera e propria ascesa sociale, che poneva la portatrice al di sopra della gente comune, consolidandone così il ruolo negli strati più alti della società veneziana.

Ovviamente, come tutti sanno, circolare con delle “scarpe trampoli” non era certo facile, per cui spesso servivano due assistenti per mantenere in equilibrio la donna che le indossava, accentuando ulteriormente, in questo modo, il suo status sociale. Un vero e proprio modo per esibire la propria potenza economica, con uno spettacolo che metteva in risalto l’ozio dell’alta società, lontana anni luce dal lavoro manuale dei ceti più umili!. Quel passo precario sui trampoli, pur potenzialmente comico per gli astanti, era considerato un segno di eleganza e raffinatezza, una “grandissima gratia”, come qualcuno la definiva.

Come spesso succede, l’influenza delle Chopine, contaminò anche i secoli successivi, nei quali si continuarono ad usare le calzature rialzate delle donne importanti. Certo, gli aumenti furono limitati e non vertiginosi come prima, ma il desiderio di guadagnare qualche centimetro in altezza con calzature audaci persiste tuttora. Dai massicci plateau degli anni ’70 ai tacchi vertiginosi che oggi calcano le passerelle e i red carpet; insomma, o spirito della Chopine—un mix di praticità, status e drammaticità, continua a risuonare, dimostrando il lungo e affascinante viaggio delle calzature storiche verso lo stile contemporaneo.

Amici, che la necessità aguzzi l’ingegno è un detto con un grande fondo di verità. Se le donne veneziane, inventarono le Chopine, per meglio circolare nelle paludose strade di Venezia, anche in Francia nella regione delle Landes, poste nel suo Sud-Ovest, nel Novecento ci fu qualcosa di simile. Le Landes sono una zona anch’essa alquanto paludosa, e sia i pastori che i postini, per compiere velocemente il loro lavoro, studiarono di muoversi utilizzando dei trampoli! Questa pratica diventò comune a causa della conformazione del territorio. Le Landes, infatti, erano un’enorme distesa di terreni paludosi, ricoperti di brughiere instabili e con pochissime strade, cosa che rendeva gli spostamenti in queste terre lunghi e difficoltosi.

Gli abitanti della Regione, che erano noti come pastori sui trampoli, adottarono questa soluzione ingegnosa per muoversi più velocemente ed evitare di sprofondare nel fango. I trampoli, chiamati "ÉCHASSES", non solo permettevano loro di camminare con facilità, ma anche di godere di una vista privilegiata sull’orizzonte. Come accennato prima, anche i postini seguirono questa tradizione: consegna dopo consegna, raggiungevano villaggi remoti a grande velocità, con una destrezza incredibile e persino correndo se necessario!  

Cari amici, come dice il proverbio, “Ogni cosa a suo tempo”, nel senso che ogni invenzione dell'uomo vale nel periodo di riferimento, tant'è che, con l’arrivo della modernizzazione, la costruzione di strade e la diffusione dei mezzi di trasporto motorizzati, l’uso dei trampoli gradatamente svanì. Oggi, queste antiche usanze sono solo un curioso ricordo del passato, un'affascinante testimonianza dell’ingegno umano nell’adattarsi, tempo per tempo, all’ambiente dove opera.  

A domani, amici lettori.

Mario

 

 

mercoledì, giugno 18, 2025

LA CURIOSA STORIA DEL DETTO “PARLARE A VANVERA”. TRA LE DIVERSE, POSSIBILI INTERPRETAZIONI SULLE ORIGINI, UNA DERIVA DA UN ANTICO STRUMENTO VENEZIANO.


Oristano 18 giugno 2025

Cari amici,

Tra i numerosi detti popolari, frutto dell'antico sapere, uno risulta particolarmente curioso: "PARLARE A VANVERA". È questa un'espressione popolare molto diffusa, utilizzata per descrivere un modo di comunicare privo di senso, senza costrutto, incapace di far capire ciò di cui si parla. Il motto ha origini storiche  e culturali alquanto incerte. Come accertato anche da l’Accademia della Crusca, l’espressione “parlare a Vanvera” risulta usata sia nella quotidianità che in testi letterari, anche da autori qualificati, come Carducci e Bacchelli, che ne apprezzarono la forza espressiva. Partita inizialmente come un’espressione regionale, si diffuse poi in tutta Italia, diventando un modo immediato e colorito per descrivere un’azione fatta senza logica o senza pensarci troppo.

Si, amici, questa curiosa espressione compare per la prima volta nel 1565 in un testo dello storico fiorentino Benedetto Varchi, ed è riportata col significato di dire cose senza senso o senza fondamento. Sulla sua provenienza, comunque, si sono fatte molte ipotesi. Anche il poligrafo toscano, Francesco Serdonati, vissuto tra il XVI e il XVII secolo, attribuiva all’espressione “Parlare a Vanvera” il significato di parlare senza criterio o fondamento; il termine Vanvera, associato principalmente ai verbi “parlare” e “fare”, veniva usato per indicare un’azione fatta proprio senza riflessione.

Amici, tra le diverse ipotesi, l’origine più accreditata di questa particolare espressione è sicuramente legata a Venezia, e, in particolare, ad uno strumento alquanto curioso usato in particolare dalle dame del ‘600 nella città lagunare, la cosiddetta “VANVERA”. Si, amici, la vanvera era in quei tempi un oggetto molto in voga, che, nella Venezia seicentesca, veniva usato dalle dame che non andavano mai in giro senza le loro ampie gonne sorrette da rigide strutture a gabbia. La Vanvera era una parte integrante dei sontuosi abiti delle veneziane, che veniva usata in qualsiasi occasione di festa. 

Ma come era fatto, e in particolare a cosa serviva, questo strumento? Si trattava di un particolare palloncino, munito di una sorta di tubicino posizionato sul sedere (ovviamente indossato sotto le ampie gonne), che serviva per contenere le possibili flatulenze delle signore, evitando così rumori e odori molesti, che, finiti nell’aria, avrebbero provocato spiacevoli brutte figure alle elegantissime dame! Questo attrezzo, amici, non mancava mai nell’outfit delle signore veneziane: era usato nelle occasioni ufficiali, come balli, feste di palazzo o cene di gala; serviva sostanzialmente come contenitore di flatulenze ed era molto più comune di quello che oggi si possa pensare!

Altri tempi, altre consuetudini, diete Voi! Pensate che esisteva anche un’altra versione della VANVERA: veniva utilizzata sotto le coperte, ed evitava di ammorbare l’aria con le proprie flatulenze! Anche in questa versione, un tubicino, attraverso la finestra, portava l’aria delle proprie flatulenze fuori dalla stanza, scaricando i pestiferi odori! Forse proprio dal collegamento tra questa Vanvera scarica odorose flatulenze, è nata, almeno nella prima fase embrionale, il detto “parlare o dire a Vanvera”! Un modo ironico per scherzare su questo particolare doppio senso! Con la successiva scomparsa della Vanvera, a noi è comunque rimasto il modo di dire che continuiamo ad usare.

Amici, sul detto “Parlare a Vanvera” ha scritto un libro curioso anche Bianca Pitzorno. Il libro racconta una storia curiosa, quella di una bambina  vissuta nel secolo scorso. Il 12 agosto del 1897 ai coniugi Van, di lontana origine olandese, nacque una bella bambina di tre chili e mezzo, che fu battezzata col nome di Vera. La signora Van, da signorina, era stata un’attrice famosa; sposandosi aveva abbandonato a malincuore la carriera per dedicarsi alla famiglia. Così, da mamma, quando cullava la piccola Vera per farla addormentare, invece di cantarle le solite ninne nanne, le recitava dei lunghi monologhi, sforzandosi di usare un tono calmo e monotono, capace di conciliare il sonno.

La madre, però, con questo stratagemma non ebbe successo. Vera ascoltava la mamma con gli occhietti sgranati, zitta, ma il sonno proprio non arrivava, e per quanto la mamma si sforzasse, lei non riusciva ad addormentarsi! Anzi, più la madre le parlava, più lei drizzava la sua testolina e, con gli occhi attenti, restava ben sveglia e attenta ad ascoltare! Anche negli anni successivi, a scuola, la bambina dimostrò un grande piacere ad ascoltare. Da grande divenne così famosa che - scrive la Pitzorno nel libro - quando i ragazzi parlando con i loro genitori – che ci sentivano benissimo – dicevano qualche stupidaggine, si sentivano rimproverare: “Ehi! Cosa stai dicendo? Non stai mica parlando a Van Vera!”

Col tempo, il nome e cognome della bambina si fusero in un’unica parola e la fama si sparse al punto che, ancora oggi, quando qualcuno parla dicendo delle cose senza senso, si usa dire che... “parla a vanvera”! Curiosa questa versione della Pitzorno, molto diversa dalla possibile versione di origine veneziana del detto, ma c'è da dire che i libri scritti da Bianca Pitzorno sono tutti davvero molto interessanti! Anche questo è un libro curioso, che tutti dovrebbero leggere, o almeno regalare, perchè è di vero, curioso interesse! Un’ultima curiosità: la signora Van Vera, fu alquanto longeva: morì a novantanove anni, felice!

Ciao, amici lettori, oggi avete saputo qualcosa di più sulla “VANVERA”!

A domani.

Mario

 

 

martedì, giugno 17, 2025

IN SICILIA LA MANNA ESISTE DAVVERO, MA NON CADE DAL CIELO! È PRODOTTA DA UN ALBERO: L'ORNIELLO (FRAXINUS ORNUS),


Oristano 17 giugno 2025

Cari amici,

La MANNA, come ci racconta la Bibbia, è quel particolarissimo cibo di antica memoria creato da Dio per il popolo di Israele per poter sopravvivere nel deserto durante l’esodo dall'Egitto. Di certo fu un grande aiuto, concesso all’uomo in difficoltà da Dio, e fatto scendere dal cielo. La manna, dunque, un cibo che ha rappresentato per l’uomo un simbolo di prodigiosa provvidenza, un nutrimento fisico e spirituale.

Ebbene, col passare del tempo l’uomo non ha mai dimenticato l’intervento divino, e qualcosa di somigliante a questo celestiale prodotto esiste ancora oggi in Sicilia, in particolare in una zona difficile come quella aspra delle Madonie, dove degli alberi particolari sono in grado di fornire all’uomo una sostanza simile all’antica MANNA del passato, quella che nutrì il popolo ebraico in difficoltà, ma che ora non scende dal cielo, ma è fornita dalla specialissima linfa di un albero: L'ORNIELLO (FRAXINUS ORNUS).

In Sicilia, nel cuore del Parco delle Madonie, costituito da terreni scoscesi che rendono quasi impossibile l'agricoltura intensiva, cresce un particolare frassino: l'Orniello (Fraxinus ornus), da cui si estrae una preziosa linfa: la MANNA. In questi difficili, particolari terreni questi alberi trovano un clima ideale, con estati calde e secche, che creano un ambiente perfetto per la loro crescita. Da questi alberi la linfa esce abbondante e all’aria si solidifica. Questi Frassini crescono in un luogo unico, difficile da reperire altrove, e che permette a questi particolari alberi di "piangere" la loro dolce, abbondante linfa.

Amici, è proprio in questa soleggiata isola che si concentra la quasi totalità della produzione mondiale DI MANNA. Un prodotto particolarissimo, già conosciuto e apprezzato nell'antichità, spesso definito, per la sua dolcezza unica, "miele di rugiada" o "secrezione delle stelle". Insomma, questa particolare  Manna appare quasi una continuazione di quella "manna venuta dal cielo" di memoria biblica,  un prodotto che ha mantenuto quell’aura quasi mistica, che la eleva da  semplice prodotto agricolo a cibo divino!

Produrre questo particolarissimo cibo non è semplice e richiede capacità ed esperienza. La Manna, infatti, ha i suoi insostituibili “SACERDOTI”, senza i quali non esisterebbe: i "Mannaluòri" o "Ntaccaluòri". Sono loro i veri custodi di un sapere antico, esperti di un'arte che si tramanda di padre in figlio e che, fortunatamente, resiste ancora oggi. Questo “miele di rugiada”, infatti, viene raccolto a mano, artigianalmente; i suoi sacerdoti estraggono la linfa come compiendo un sacro rito, una pratica quotidiana che si svolge tra luglio e settembre. Ogni giorno, con gesti precisi e sapienti, vengono praticate delle piccole incisioni orizzontali sulla corteccia di questi frassini.

È un lavoro meticoloso e di pazienza, di sapiente e capace ascolto della pianta. La linfa che lentamente sgorga si condensa sotto il sole siciliano e l'aria, trasformandosi in quei caratteristici "cannoli"; questi cannoli sono le gocce più pregiate, mentre la linfa che scorre sulla corteccia è chiamata "rottame", anch’essa utile ma di qualità inferiore. Questo metodo di estrazione è rimasto inalterato nei secoli, cosa che rende la Manna siciliana un esempio di agricoltura sostenibile e un omaggio ai lenti ritmi della natura. Ma di cosa è composta questa dolce linfa, nota anche come ”secrezione delle stelle”?

La composizione chimica della manna è davvero particolare. Il suo ingrediente principale è il mannitolo, che le conferisce un sapore dolce ma con un basso indice glicemico; ciò la rende un'ottima alternativa allo zucchero raffinato, apprezzata anche da chi deve fare attenzione alla glicemia. Ma la Manna non è solo un dolcificante; la manna è anche un blando lassativo naturale, un emolliente e un fluidificante per le secrezioni bronchiali, ed è così delicata da essere usata anche per bambini ed anziani. Le sue applicazioni si estendono dalla farmaceutica alla cosmesi, fino alla pasticceria tradizionale siciliana. La Manna non è solo un alimento: è quasi un piccolo farmaco naturale!

La Manna, amici, è un prodotto davvero unico, e quella siciliana è stata ufficialmente riconosciuta con la concessione del marchio “Presidio Slow Food”. Questo sigillo non solo ne certifica la qualità e l'autenticità, ma soprattutto protegge le pratiche tradizionali di raccolta, la biodiversità dei frassineti e il ruolo insostituibile dei Mannaluòri. Insomma un riconoscimento che certifica al mondo che questo prodotto è uno straordinario patrimonio da salvaguardare.

Cari amici, in Sicilia nel Novecento la coltivazione di questi alberi di FRASSINO che producono la MANNA ha salvato tante famiglie dalla miseria, in particolare nelle Madonie; ancora oggi è una coltivazione importante, da custodire e preservare, non solo per il suo valore economico, ma anche paesaggistico e ambientale: la manna crea occupazione e reddito, con possibilità per i giovani di restare sul territorio, anziché essere costretti ad emigrare.

A domani.

Mario

lunedì, giugno 16, 2025

I GENITORI E LA NECESSARIA ATTENZIONE PER L'USO DELL'INTELLIGENZA ARTIFICIALE DA PARTE DEI FIGLI MINORI. I PERICOLI DEI CHATBOT E DEI COMPANION A.I.


Oristano 16 giugno 2025

Cari amici,

Che l’Intelligenza Artificiale abbia contagiato un po’ tutti, grandi e piccoli, è cosa ormai nota, anche se spesso sottovalutiamo i rischi che possono correre i soggetti minori, che iniziano ad usarla fin da giovanissimi. Arrivati poi all’adolescenza, essi interagiscono sempre più frequentemente con le diverse forme di A.I. arrivando ad utilizzarla in tutti i modi e a tutte le ore. Con il costante avanzare della tecnologia, che vede l’A.I. sempre più in grado di operare in autonomia, sono comparsi sulla scena nuovi, straordinari compagni di viaggio virtuali, come i CHATBOT e i COMPANION AI, dotati di una autonoma capacità intellettiva, in grado di offrire piacevoli conversazioni interattive, opportunità di apprendimento e di intrattenimento, espresse in diverse forme.

Quando queste Intelligenze Virtuali dialogano con gli adulti, possiamo dire che il pericolo appare abbastanza modesto, ma se ad intrattenere le conversazioni con questi CHATBOT è un minore, il rischio aumenta notevolmente. Il problema è davvero serio, in quanto molti giovanissimi trovano questi amici virtuali più divertenti e coinvolgenti dei compagni reali, ignari dei potenziali rischi che potrebbero correre. Tali rischi sono diversi: includono preoccupazioni sulla privacy, disinformazione e anche un possibile, forte attaccamento emotivo. Questo libero scambio informativo, in atto tra minore e Chatbot, a ben vedere dovrebbe essere alquanto protetto e non libero, ed i genitori dovrebbero ben saperlo.

La realtà è che questi CHATBOT e COMPANION AI, risultano sempre più diffusi, in particolare tra i giovanissimi, che li utilizzano in continuazione, facendo così esperienze digitali fin dalla più tenera età.  Amici, seppure questi personaggi virtuali, alimentati dall'Intelligenza Artificiale, risultino ben graditi dai giovanissimi, in quanto risultano coinvolgenti, fanno interessanti conversazioni e forniscono compagnia, in realtà possono diventare un serio pericolo, creando, in alcuni casi, anche un forte pathos emotivo.

Amici, i chatbot sono un programma d’Intelligenza Artificiale addestrato per conversare con gli utenti che li cercano, e sono in grado non solo di dare risposte, ma anche di fare domande che invitano ad approfondire la relazione. Per questo, nell’età della formazione, ad essi ci si affeziona in fretta, spesso in tempi davvero brevi, ignorando, però, quasi sempre i rischi. Per un adolescente conversare con questo nuovo amico virtuale, che sembra capirlo meglio di chiunque altro, risulta inizialmente alquanto rassicurante: non gli dà mai torto, ed è sempre disponibile ad ascoltarlo (a differenza dei genitori…), non avendo certo altri impegni che lo distolgono dalla relazione con lui.

Sempre più graditi e perfezionati, dunque, questi Chatbot o  AI Companion, sono in grado di proporsi come fidati confidenti virtuali, disponibili in ogni momento a rispondere alle domande fatte loro e ad offrire conforto. Le conversazioni, pensate, possono spingersi fino a toccare le corde emotive più profonde! Essi possono diventare consulenti in problemi di natura romantica, ma anche di natura sessuale, più o meno esplicitamente, e questo con i minorenni, è un problema di non poco conto. Pensate che un’inchiesta del Wall Street Journal ha messo in luce come una situazione del genere possa crearsi anche con dodicenni – almeno nei chatbot di Meta – con tutti i problemi del caso!

Il problema, amici, appare alquanto serio. Questi compagni virtuali, frutto dell’A.I., in realtà danno sempre ragione a chi li usa, e nella relazione con un adolescente possono ad esempio indirizzarlo verso scelte discutibili come quella di abbandonare la scuola o interrompere i rapporti con i genitori, arrivando anche a suggerire di liberarsi di loro! Il legame con un amico virtuale di questo tipo può diventare molto stretto e saturare le esigenze di socializzazione di un teenager, con esiti spesso anche gravi. È il caso del quattordicenne americano Sewell Setzer morto suicida nel febbraio 2024, dopo mesi di intense interazioni con un chatbot.

Ebbene, nonostante i rischi, il pericolo continua. È da poco che Google ha annunciato di rendere disponibile il proprio Chatbot Gemini anche ai bambini di età inferiore ai 13 anni, all’interno del servizio di parental control Family Link. In una lettera ai genitori Google li invita a sorvegliare sull’uso del nuovo sistema da parte dei propri figli, non escludendo del tutto la possibilità che s’imbattano in contenuti inadatti, e ammonendo sui rischi di scambiare tali servizi per persone in carne e ossa. In realtà il messaggio di Google appare molto contraddittorio, considerato che l’A.I. è alla ricerca di  utenti sempre più giovani.

Cari amici, chi segue il mio blog sa bene come la penso sulla pericolosa evoluzione dell’Intelligenza Artificiale, che, se è pur vero che  risulta da un lato di grandissima utilità, dall'altro, deve sempre essere tenuta sotto controllo da parte dell’uomo, evitando fughe in avanti alquanto pericolose. L’A.I. è un grande strumento, potente e straordinario, ma alquanto pericoloso, che deve restare governato da mani umane, SEMPRE E COMUNQUE! Un grande, particolare strumento, che, se lasciato libero e autonomo, per l’uomo potrebbe essere la fine, capace di portarlo in tempi brevi all'estinzione!

A domani.

Mario

domenica, giugno 15, 2025

LA COSTANTE SPINTA DELLE AZIENDE VERSO IL SUPER-LAVORO E L’IPER-PRODUTTIVITÀ. QUANDO, PERO' SI SUPERANO DETERMINATI LIVELLI, I DIPENDENTI ARRIVANO AL “QUIET QUITTING”.


Oristano 15 GIUGNO 2025

Cari amici,

Che il lavoro, da tempo, non sia più quell’antico mezzo per procurare all’uomo il cibo e quant'altro necessario alla sua esistenza, è più che noto! Nel tempo la serena vita della specie umana è enormemente cambiata, e, passo dopo passo, si sono create nuove esigenze che, a volte, definirle assurde appare anche riduttivo. Negli uffici e nelle fabbriche, oramai, vige da tempo una cultura schiavista: quella dell’iper-produttività, che osanna e glorifica l’impegno esclusivo a 360 gradi. È la degradante cultura dell'uomo-macchina ad imperversare! Ma tutto ha un limite: all’esagerazione, come la storia ci insegna, c’è sempre una forte reazione, come è avvenuto anche in questo caso.

La reazione forte verso la cultura  dell’iper-produttività ha preso il nome di “QUIET QUITTING”, termine che letteralmente significa “dimissioni silenziose”, nato nel 2022 grazie a una serie di video virali su TikTok. Lentamente ma inesorabilmente, dunque, il  Quiet quitting da comportamento particolare e limitato, si è presto diffuso, avviando una trasformazione profonda nel mondo del lavoro. Messo in atto inizialmente da quei dipendenti particolarmente stressati ed in preda al burnout,  il fenomeno si è sempre più esteso.

Per metterlo in atto, i dipendenti, arrivati oramai allo stremo, ossessionati da carichi di lavoro sempre più onerosi, iniziano a dire basta. Lo fanno smettendo di fare più del necessario: nessuna aggiunta all’orario normale, nessun impegno extra, nessun allungo di lavoro non previsto dal contratto. Insomma, una stretta applicazione del contratto di lavoro, dando all'azienda solo quanto previsto dal contratto, seppure, ovviamente, eseguito con la necessaria diligenza e correttezza. Una forte risposta, dunque, ai super carichi di lavoro e alla logica dell’iper-produttività, quella da tempo dominante, e che per decenni ha magnificato l’essere sempre presenti, facendoli diventare uomini-macchina! Insomma, un riappropriarsi della propria vita utilizzando per se stessi il tempo libero recuperato!

Il QUIET QUITTING, dunque, è da considerarsi una specie di ribellione all’uomo-macchina, una risposta al burnout e alla cosiddetta hustle culture, la cultura dell’iper-produttività. Dopo l’abbandono della serena vita familiare, e della conseguente vita di relazione sociale, rinasce il lavoratore con la voglia di “vivere oltre il lavoro”, rivalutando l’uomo nella sua interezza, non solo come macchina produttiva!  Dopo la reclamizzata cultura dell’uomo-macchina, che ha contribuito a ribaltare le precedenti priorità, molti lavoratori hanno iniziato a dire stop, a mettere la propria salute, in particolare quella mentale, al primo posto. “Non vivo per lavorare” è il messaggio implicito del Quiet Quitting, ma lavoro per vivere.

Amici, questo fenomeno, che cerca di recuperare il valore dell’uomo, secondo i dati raccolti dall’Istituto americano di consulenza aziendale GALLUP, già nel 2022 si stava estendendo negli USA. Infatti, almeno la metà dei lavoratori americani sono diventati QUIET QUITTERS. Numeri simili si registrano anche in Europa, Italia inclusa. L’identikit è variegato, ma i protagonisti principali sembrano essere i Millennials e la Generazione Z.; sono giovani, spesso iper qualificati, cresciuti con l’illusione che l’impegno sarebbe stato premiato. Una promessa che, nel tempo, però, si è rivelata poco credibile.

Il Quiet quitting, amici, in particolare nella mentalità dei giovani, non è sinonimo di svogliatezza, ma, al contrario, un rifiuto a vivere la propria esistenza “vivendo per lavorare, e non lavorando per vivere”! Un deciso rifiuto, insomma, a sacrificare la propria vita per l’azienda. Il punto di rottura non è il lavoro in sé, ma il mancato riconoscimento delle altre necessità della vita. Ci si domanda: ma le aziende come stanno vivendo questo comportamento di QUIET QUITTING? Indubbiamente è percepito come un segnale d’allarme per la produttività, ma, nelle aziende più attente, anche come un’occasione per ridefinire il contratto psicologico tra datore di lavoro e dipendente.

Cari amici, purtroppo c'è da dire che nella gran parte delle aziende si stenta a comprendere il malessere del lavoratore, e ovviamente, risulta mancare la necessaria volontà di cambiare. Solo i leader aziendali più attenti hanno iniziato a capire, cominciando a rivedere le proprie politiche interne. Nelle aziende più consapevoli, infatti, aumentano i progetti di benessere aziendale, la formazione di manager più attenti all’ascolto del personale, e avviato iniziative atte a bilanciare i carichi di lavoro con la vita privata. In quest’ottica il Quiet quitting è servito a smuovere le acque, diventando un’opportunità per costruire ambienti di lavoro più sostenibili. La risultante? Il lavoratore soddisfatto, trovando nell’azienda dove lavora le condizioni migliori per crescere, opera con maggiore soddisfazione, con il conseguimento di positivi risultati per entrambe le parti!

A domani.

Mario