Oristano 25 luglio 2025
Cari amici,
Se è pur vero che le
giornate sono fatte prevalentemente di dialogo con gli altri, “PARLARE CON
SE STESSI”, ovvero dialogare mentalmente con noi stessi, è un fenomeno più comune
di quello che pensiamo. Questo dialogo, detto modernamente "self-talk",
secondo gli psicologi, può aiutarci a gestire le emozioni, aumentare la fiducia
in noi stessi e, di conseguenza, migliorare le nostre prestazioni. Di norma, questo
dialogo interiore privo di voce viene effettuato usando la seconda persona
singolare (tu, te), come se il soggetto che lo utilizza stesse parlando con un
amico.
Questo “Dialogo
interiore” è un fenomeno che ha attratto l’attenzione di psicologi, linguisti,
filosofi e neuroscienziati, anche perché è accertato che è in stretta relazione
con gli stati d’animo e di conseguenza può coinvolgere il soggetto in disturbi
ansiosi e depressivi. Per chiarezza, le voci interiori non sono del tutto
sovrapponibili ai semplici pensieri, per la loro peculiare caratteristica di
assumere la forma di veri e propri monologhi o dialoghi, sostengono i
ricercatori.
Come sostengono Julianne
Alexander e Brielle Stark, del Department of Speech, Language and Hearing
Sciences dell’Indiana University di Bloomington, autrici di uno studio
pubblicato sull’European Journal of Neuroscience, «Attraverso le varie
discipline che se ne sono interessate, diversi nomi sono stati attribuiti a
queste voci. Sono state individuate come un parlare a sé stessi in segreto,
verbalizzazione interiore, verbalizzazione segreta, voce interna, orecchio
interno e pensiero verbale».
Amici, comunque si vogliano
chiamare, queste voci giocano un ruolo centrale in diverse funzioni
psicologiche: per l’autoconsapevolezza e per la costruzione della memoria
episodica, quella che raccoglie il filo degli eventi della nostra vita; ma
anche per la possibilità che offrono di comprendere l’ambiente circostante, di
immaginare e pianificare il futuro, di prepararsi a un incontro o a un
confronto, a fare congetture e a risolvere problemi. Sono utilizzate per l’auto-incoraggiamento,
quando si devono affrontare sfide e difficoltà, servono come forma di auto-conforto
e come voce autocritica.
«Quando siamo impegnati
nella verbalizzazione mentale contribuiamo a dare forma alla nostra esperienza
interiore e operiamo per il mantenimento di una narrativa coerente del nostro
Sé», sostiene Helene Loevenbruck del Laboratoire de Psychologie et
NeuroCognition Cnrs Di Grenoble, autrice del libro Le mystère des voix
intérieures (Denoël, 2022), che alla voce interiore, tecnicamente definita endofasia,
ha dedicato gran parte del suo impegno professionale.
Ma che differenza corre
tra i discorsi che facciamo a voce agli altri e quelli che, invece, facciamo
interiormente con la nostra mente. In un recente studio pubblicato su
Frontiers in Psychology, Loevenbruck e suoi collaboratori hanno esplorato
alcuni aspetti formali di questa “voce interiore”, confrontandoli con quelli
dei discorsi che si fanno con gli altri. Innanzitutto è più condensata,
abbreviata e frammentaria, ha una sintassi e un lessico più semplici, sebbene
in certe occasioni possa diventare almeno per qualche momento altrettanto
estesa e precisa di un discorso a voce alta. Può presentarsi sotto forma di
dialogo interiore a due, come accade quando viene usata per esplorare
possibilità alternative, ad esempio quando si è impegnati nel fare delle scelte
che prevedono possibili posizioni diverse; talora è invece un monologo, che
utilizza il nostro punto di vista o talvolta quello che apparterrebbe a
un’altra persona, della quale viene assunto il punto di vista. Ad ascoltare
ovviamente siamo sempre e soltanto noi stessi.
Cari amici, che la mente
dell’uomo sia di grande complessità è un dato di fatto inoppugnabile. Il
dialogo con noi stessi è certamente un artifizio che la nostra mente ci ha
fornito per poter meglio analizzare quello che, poi, in realtà abbiamo deciso
di fare Insomma una specie di prova d’orchestra, prima del debutto ufficiale
con gli altri!
A domani.
Mario
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