martedì, giugno 29, 2010

L'ANTICO PROFUMO DEL PANE


Oristano 29 giugno 2010
Cari amici ecco per Voi un'altro dei miei ricordi giovanili.
Ho esitato molto pima di scriverlo e, sopratutto prima di divulgarlo. Credo di avere ancora dentro di me delle sensazioni forti, che continuano a farmi male e che non mi hanno mai abbandonato.

L’ANTICO PROFUMO DEL PANE

Quand’ero ragazzo, erano gli anni del primo dopoguerra, non c’erano telefonini, motorini, iPod, Play Station e diavolerie simili. I ragazzi come me dovevano ingegnarsi per trascorrere piacevolmente le ore libere. Gli incontri tra di noi avvenivano, normalmente, all’interno del “Vicinato"(1)(termine che allora indicava il gruppo delle famiglie che occupava una piccola porzione del Paese, costituita dalle strade vicine e dalla piazzetta dove queste confluivano).
Allora, negli anni tra il 1950 ed il 1960, i bambini non erano scarsi come oggi ma numerosi: la guerra aveva riportato a casa gli uomini e c’era bisogno di braccia. La piazzetta di fronte a casa mia era sufficientemente grande non solo per riunirsi ma anche per improvvisare tanti tipi di giochi. Maschi e le femmine, normalmente in gruppi separati, formavano squadre per inventare giochi, considerata la cronica carenza di giocattoli, come oggi noi li intendiamo.
Nel periodo scolastico il tempo libero era solo quello del pomeriggio, in quanto la Scuola assorbiva praticamente tutta la mattinata. Finito l’anno scolastico, invece, all’inizio dell’estate, si trascorreva tutti insieme la giornata all’aperto, con un unico pensiero: giocare.
Consumata la frugale prima colazione, si usciva di casa chiamando a gran voce i ritardatari, affacciandoci, vociando, nelle case del “vicinato”, per ritrovarsi, poi, tutti insieme e ricomporre il “gruppo”. Le prime discussioni riguardavano il tipo di gioco collettivo da svolgere e la formazione delle squadre, la cui composizione comprendeva elementi di varia età che spaziava dai 4/7 anni fino ai 13/15. La fantasia certo non mancava, erano i giocattoli quelli che mancavano. L’unica possibilità era quella di inventarne di nuovi, in continuazione, apportando varianti nuove ai giochi conosciuti.
Si giocava a nascondino, o a ”luna monta” ( il gioco di saltare al volo un compagno, chino con le mani sulle ginocchia, dandogli nel contempo una pacca sul sedere. Chi sbagliava passava “sotto”, ovvero sostituiva il compagno che non era riuscito a saltare). Oppure ci si sfidava correndo a perdifiato spingendo dei cerchi di vecchie biciclette, guidati da una stecca ( di ferro o legno ) che scorreva nell’incavo de cerchio. Le sfide erano molto partecipate. Ci si allineava all’inizio di una stradina, possibilmente in discesa, tracciando prima per terra un solco sulla polvere (l’unica strada asfaltata era allora la Strada Statale “ Carlo Felice”, che passava ai margini del paese): al via tutti giù a perdifiato, spingendo con forza il cerchio con la stecca; sulle stradine in terra battuta o sulle strette viuzze coperte di acciottolato, lo sbattere veloce del cerchio creava un forte rumore metallico, per l’impatto sui sassi levigati, che ci dava l’illusione della velocità. Chi perdeva il controllo del cerchio, che cadendo si fermava, ripartiva per ultimo. Il vincitore era salutato da una ciurma vociante e chiassosa che, spesso, causava rimproveri e malumori da parte degli anziani, disturbati nelle ore del riposo pomeridiano.
Nei giorni di caldo afoso, invece, ci si raccoglieva sotto un vecchio albero a giocare a “pirastias”(2), a “testa o croce” con le scarse monete, spesso sostituite da bottoni recuperati da vecchi cappotti militari o con le biglie di vetro che i più coraggiosi ricavavano dalle bottiglie di birra, dopo averle sottratte da uno dei pochi “zilleris”(3) esistenti. D’inverno il tempo scorreva molto più monotono, allietato da qualche partita a tombola con premio finale in natura: castagne, mandorle, oppure arance o mandarini.
Giocare con un pallone vero era un sogno. I pochissimi circolanti erano di vero cuoio, cuciti a mano, con dentro una camera d’aria che veniva gonfiata con la pompa per la bicicletta. Solo la partita domenicale era giocata con un vero pallone: quello dell’Oratorio della Parrocchia.
Le partite quotidiane erano giocate con un grosso involto di stracci legati con gli elastici ricavati dalle camere d’aria, vecchie ed ormai non più riparabili, delle non molte motociclette in circolazione. Gli elastici ricavati da queste camere d’aria erano anche un’ottima materia prima per la realizzazione di fionde (l’attrezzo da noi realizzato si chiamava più semplicemente “tiralastico” ). Tutti ne possedevano almeno uno. Costruito con un ramo a forchetta di olivastro o di lentischio, veniva, poi, lisciato e completato con i tiranti in gomma saldamente legati al legno. Le sfide consistevano nel preciso lancio di piccoli sassi tondi, verso uccellini o lucertole, ferme a prendere il sole, che spesso venivano martoriate senza pietà. La fantasia e l’ingegno di noi ragazzi erano straordinari.
Un “carruccio" (su carruzzu)(4), opera di alta maestria del mio gruppo, era diventato un giocattolo molto ambito. Spesso, dopo averlo utilizzato nel gruppo, veniva dato in prestito anche ad altri gruppi, previo esborso di beni di prima necessità: castagne, mandarini, noci o altre scarse prelibatezze di stagione. Altro interessante passatempo era la realizzazione di scherzi nei confronti degli adulti, sopratutto verso quelli che mal sopportavano la nostra esuberanza e ci richiamavano in continuazione. Le nostre “vendette” nel loro confronti erano realizzate soprattutto la Domenica, quando tutti gli “anziani” andavano a messa ben ripuliti, con la camicia bianca ben in vista. Nascosti in punti poco visibili ad un cenno partivano i lanci di bombette di fango puzzolente: destinatarie le loro candide camicie, spesso stirate e inamidate di tutto punto. Forte irritazione da una parte e grandissimo divertimento dall’altra, anche se spesso si rischiavano botte a non finire.
Tutto questo movimento, questa esuberanza, le corse a perdifiato, però, scatenavano un appetito, sotto certi aspetti, tanto grande ma, soprattutto, poco gradito. La gran parte delle famiglie non aveva, allora, la dispensa ben fornita. Solo alcune famiglie, soprattutto quelle con buona proprietà terriera, avevano in casa buone scorte di grano da usare nella panificazione, olio, vino formaggi ed altri generi che, invece, scarseggiavano, se non mancavano del tutto, nella gran parte delle altre, dove era quasi una scommessa, una improba fatica quotidiana, mettere insieme pranzo e cena.
Il pane, soprattutto, restava la base principale dell’alimentazione quotidiana, integrato con le poche verdure dell’orto, da qualche uovo e da scarse carni bianche. Non esistevano allora praticamente macellerie: solo in alcuni periodi qualche allevatore apriva bottega (“Sa Panga”, cosi era definita questa macelleria) e vendeva la carne di qualche vitello, pecora o agnello. Erano tempi in cui la carne veniva consumata in famiglia, con grande parsimonia, utilizzando l’allevamento familiare: il pollaio ed il maiale domestico. La gran parte delle case aveva, infatti, un piccolo cortile annesso all’abitazione, dove venivano coltivate le patate, le cipolle, l’aglio e le varie verdure ed odori, come ravanelli, basilico e prezzemolo. In un angolo del cortile il pollaio e la casetta del maiale.
Il pane, però, chi non aveva scorte di grano e quindi non poteva panificare in casa, doveva comprarlo in uno dei due negozietti del paese dove, tra l’altro, era ancora razionato.
“Sa buttega”(5)( erano queste dei piccoli bazar dove si vendeva di tutto: dal pane ai chiodi, dalle sardine, più note come “arangada”, alle caramelle, dalla conserva di pomodoro alle sigarette ed al chinino di stato), vendeva al minuto ed in assenza di denaro contante vendeva a credito ( a “liburettu”)(6). Gli acquisti si limitavano all’indispensabile: solo quello che non poteva essere prodotto in casa. Il pane, però, razionato, non bastava proprio! Una pagnotta grande, questa era la quantità contingentata destinata alla mia famiglia, una volta divisa in quattro diventava una fetta a testa per tutto il giorno. La fetta destinata a ciascuno di noi ragazzi altro non era che una goccia d’acqua per un assetato! Veniva divorata in pochi istanti e prontamente digerita. Il ritorno dello stimolo della fame era pressoché immediato.
Vi racconto, ora, un fatto vero che non ho mai dimenticato. Eccolo.
Una mattina primaverile, in una giornata libera dalla scuola, complice l’aria frizzante ed un delizioso profumo di pane appena sfornato che proveniva dalla casa dei ricchi vicini di casa, non riuscii a tenere buoni i richiami del mio stomaco e…messo un piede al mio orgoglio, aiutato da un altro compagno, tentai con lui la sorte. Facendoci coraggio a vicenda ci presentammo alla porta della ricca famiglia da dove veniva il delizioso profumo del pane. Demmo due colpi al grosso batacchio con testa di leone, collocato al centro della porta e che serviva da campanello, ed attendemmo tremanti l’apertura della porta. L’uscio tardò ad aprirsi. Sentivamo dei rumori, forse quelli della servitù che sfaccendava e certamente sistemava il pane nei contenitori dopo averlo tolto dal grande forno. Nelle case di prestigio, allora ricche di servitori, la casa era un po’ come una fattoria: il pane, il formaggio, l’olio, il vino, le conserve, i dolci, erano fatti in casa.
Dopo un po’ sentimmo scorrere la serratura e l’uscio si aprì. La padrona di casa, la vecchia “Tzia”(7), come normalmente veniva chiamata per rispetto, vestita di nero, con la camicia bianca ed il corsetto tipico del costume sardo, scrutandoci in tono interrogativo ci chiese: “ e itta kereis? “ ( ndr, cosa volete?). Io, dopo aver inspirato aria per darmi coraggio, con le gambe molli, Le risposi: “ mi mandada mamma e m’a nau a Di domandai ‘u’ coccoi’e pani”(8) ( traduz.: Mi manda mamma e mi ha detto di chiederle una forma di pane ).
Rosso in viso, considerata la bugia, aspettavo la risposta senza respirare, con il cuore che mi martellava in petto e con gli occhi bassi. La vecchia, senza scomporsi, mettendosi le mani sui fianchi e guardandoci entrambi con sufficienza disse a me: “ Naraddi a mamma tua c’a non tenidi su carrigu in domu” ( ndr. Digli a tua mamma che non ha il contenitore del pane a casa mia ).
Ci girammo di scatto e fuggimmo piangenti per il rifiuto e l’umiliazione. Per il resto della mattinata io non giocai più. Tornai a casa taciturno e mamma mi chiese il motivo della mia tristezza. Le raccontai tutto. Orgogliosamente fece finta di rimproverarmi per le bugie dette, ma notai in Lei una grande tristezza: aveva gli occhi lucidi e si allontanò da me, in fretta, per andare in cucina a preparare il pranzo.
Questo fatto mi segnò, in modo particolare. Non so se per il rifiuto o maggiormente per l’umiliazione. Sta di fatto che per me il pane, ancora oggi, ha un valore ed un fascino particolarmente forte. Il suo profumo e la sua presenza mi danno sempre sensazioni intense e rassicuranti. Ho per il pane un rispetto, quasi religioso. Molti non lo sanno ma io non mi metto a tavola se non c’è il pane. Lo uso in piccole dosi per accompagnare tutti i piatti: dall’antipasto al primo ( accompagno anche la pasta con un piccolo tocco di pane ), dal secondo al formaggio e a volte lo uso anche con la frutta ( con l’uva e con le pere il pane è buonissimo). Faccio, inoltre, ancora oggi, la colazione come da ragazzo: una scodella di latte, condita con una tazzina di caffè, dove metto, in zuppa, tanti piccoli pezzi di pane del giorno prima. E’ questa per me la più buona colazione del mondo. Altro che Corn Flakes!
Ho anche cercato di inculcare il rispetto per il pane agli altri componenti della famiglia. Debbo dire, però, con scarsi risultati!

Mario

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Note.

[1] Nei Paesi della civiltà contadina il “ vicinato” era una struttura importante. Formata da un numero variabile di famiglie, in relazione all’ampiezza della piazza dove si affacciavano le case o le viuzze vicine, costituiva una sovrastruttura di “mutuo soccorso”. Oggi potremo definirla una “ famiglia allargata”, dove questa sovrastruttura assommava i compiti di reciproca e mutua assistenza.

[2] Il gioco delle “ Pirastias”, utilizzato ancora oggi in alcuni Paesi, consisteva nel disegnare un quadrato, a sua volta diviso in altri piccoli spazi ( simili alla costruzione degli spazi del Sudoku) con dei pezzi di calce secca, o spezzoni di tegole. L’abilità del concorrente consisteva, dopo aver lanciato all’interno di uno degli spazi delimitati di una “Pirastia”( pezzo di tegola resa quadrata da una lunga levigatura ) nel saltare a piedi uniti o con un solo piede, senza toccare le linee di demarcazione. Vinceva chi superava il percorso senza penalità e nel tempo più breve, recuperando velocemente la “Pirastia”.

[3] Su “ Zilleri” era un locale con banco di mescita dove la sera gli anziani si riunivano a chiacchierare, giocare a carte, e bere vino, birra ed altri alcolici. Al tempo le bottiglie di birra ( la più nota era la “Ichnusa”) era tappate a pressione con una biglia, sempre di vetro come la bottiglia. Per aprirla e versare il contenuto era necessario, con un colpo secco assestato da una piccola stecca di legno, far scendere nel fondo la biglia. Erano proprio queste biglie che, dopo aver rotto la bottiglia, venivano utilizzate per giocare dai ragazzi.

[4] “su carruzzu” di cui si parla fu costruito con l’utilizzo di vecchie tavole a cui furono applicate delle piccole ruote inserite in spezzoni di vecchi manici tondi di strumenti di lavoro agricolo in disuso, sapientemente inchiodati alla tavola principale. Le piccole ruote (rotelle) erano quelle che venivano utilizzate dalle Ferrovie per lo scorrimento dei cavi di apertura/chiusura dei passaggi a libello che i casellanti manovravano, a mano, prima e dopo il passaggio dei treni. Noi ragazzi con pochi attrezzi riuscivamo ad asportare alcune rotelle, usate poi per la costruzione del veicolo.

[5] " Sa buttega".L’apertura di una nuova bottega era derivata dalla concessione fatta ai “reduci” della guerra, ai quali lo Stato aveva concesso la vendita dei prodotti allora di monopolio: Sali, tabacchi e chinino di stato, come evidenziava l’insegna esposta fuori dal locale.

[6] Su “liburettu” era un quaderno con copertina nera e a quadretti con il bordo rosso, come quelli che si usavano a scuola, dove il negoziante segnava quello che la famiglia aveva prelevato, di giorn in giorno, con il relativo prezzo indicato a fianco. Alla fine del mese la famiglia cercava, ove possibile di regolare il debito in tutto o in parte. Il rapporto era basato sulla fiducia ed era in un solo esemplare, custodito dal negoziante.

[7] "Thia". Nella cultura patriarcale della Sardegna agli anziani era sempre riservato l’appellativo di “Thia” ed il Voi, di rispetto, in sardo “Fostei” .

[8] “ Su coccoi” era la forma più usata per preparare il pane da cuocere. Era una forma tonda che veniva leggermente schiacciata all’atto dell’introduzione nel forno. Ancora oggi in uso.











martedì, giugno 22, 2010

CRISI FINANZIARIE E TUTELA: LA FUNZIONE IN ITALIA DEL FONDO DI TUTELA DEI DEPOSITI.

ORISTANO 22 GIUGNO 2010

Cari amici,

oggi voglio riportarVi un mio recente lavoro fatto per completare l'esame di "Economia pubblica".
Credo possa essere interessante per tutti.
Grazie dell'attenzione.

Mario


















































domenica, giugno 06, 2010

L'UNIONE EUROPEA A 60 ANNI DALLA DICHIARAZIONE SCHUMAN: UN PROCESSO TUTTORA INCOMPIUTO.















ORISTANO MAGGIO 2010


L’ Unione Europea ha appena compiuto 60 anni. Il 9 maggio 1950, mentre nella gran parte degli Stati ci si rimboccava le maniche per rimettere in moto un’economia distrutta, il ministro degli Esteri francese Robert Schuman rendeva pubblico un progetto, ancora in embrione, che prevedeva la costituzione di un’unica “ Comunità “ Europea del Carbone e dell’Acciaio, la CECA, a cui avrebbero aderito inizialmente Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo.
La cosi detta Dichiarazione Schuman apriva il nuovo corso della storia europea sotto il segno dell’integrazione politico – economica.
Il seme gettato da Schuman (com’è noto, il vero ispiratore del progetto fu Jean Monnet, considerato oggi uno dei padri fondatori dell’Europa), non era importante solo per i favorevoli risvolti di natura economica che un siffatto progetto poteva costituire per tutti gli Stati partecipanti, ma creava soprattutto le condizioni per evitare che guerre, come quella appena terminata, non potessero più verificarsi, stante la “ messa in comune” da parte delle principali potenze europee delle risorse produttive fondamentali con cui si poteva armare un esercito moderno: carbone e acciaio. Questa comunità di intenti, questa creazione di un’unica gestione delle risorse comuni più importanti, sotto un’unica autorità sovranazionale europea, dava come prima risultante la fine della storica faida tra Francia e Germania, creando i presupposti di una pace duratura. Confermata, successivamente, dai fatti.
Sono trascorsi 60 anni da quello storico giorno: la CECA è diventata con gli anni la Comunità Economica Europea (CEE), poi la Comunità Europea tout court (CE) ed, infine, l’Unione Europea, con gli storici accordi di Maastricht e il varo dell’euro e, successivamente, gli ulteriori passi avanti, ultimo il trattato di Lisbona.
Ma il cammino fin’ora fatto, se riflettiamo, può essere considerato concluso?
Che cos’è oggi l’Unione Europea, e che cosa significa per i Cittadini dei suoi Stati membri? Può sembrare incredibile ma, oggi, a distanza di tanti anni molti cittadini europei avrebbero una certa difficoltà a rispondere al quesito. Si può scommettere che molti non saprebbero neppure spiegare bene che cosa sia l’Unione Europea. In realtà questi concetti poco chiari, questi dubbi, sono facilmente comprensibili e più che legittimi. Dire che cosa sia l’Unione è davvero difficile perché l’Unione non è un organismo politico compiuto! E’ ancora un processo “ in itinere “, quindi incompiuto.
La dimostrazione di questa realtà “ incompiuta “ la possiamo ricavare dalla stessa Dichiarazione Schuman, che nel suo testo sintetico ma chiaro ed efficace prevedeva già, oltre l’ipotizzato accordo di natura economica, i successivi passi che già allora si auspicava dover fare. La Dichiarazione, dopo aver affrontato nei primi paragrafi i problemi di natura economica, infatti, dava nel sesto paragrafo gli indirizzi successivi al primo passo previsto nel trattato. Ecco, per chiarezza e dimostrazione di quanto affermo, il contenuto in parola:
“Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i Paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea, indispensabile al mantenimento della pace”.
Appare fin troppo chiaro che nel pensiero lungimirante di Schuman vi fosse già allora una matura visione di una “ Federazione europea di Stati “; vi era già la certezza e la consapevolezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, di quale sarebbe stato il risultato finale di quel processo che Lui intendeva avviare 60 anni fa, con l’iniziale scopo economico di mettere insieme le risorse, ma destinato successivamente a realizzare una vera “ globale “ integrazione del continente europeo. Era, per quanto non palesemente evidenziato, un vero e proprio “ atto “, preparatorio ed anticipatore della futura costituzione di una vera Federazione europea non solo economica ma anche socio-politica.
Anche l’Italia ha lavorato non poco, in passato, per realizzare questo scopo. Nel suo discorso al Parlamento europeo a Strasburgo il 4 Ottobre del 2000, l’allora nostro Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel Suo discorso disse tra l‘altro:
“…Stiamo nuovamente decidendo le sorti del nostro continente, così come ebbero a decidere i grandi statisti degli anni '50. Mezzo secolo di pace, di convivenza operosa fra popoli ripetutamente dilaniati dalla guerra attestano il senso e l'utilità della unificazione europea. Ma sappiamo che il processo è incompiuto e che l'incompiutezza minaccia la sua vitalità…[…] …L'euro è soltanto una tappa nella realizzazione dell'Europa economica, sociale, politica e culturale. La rende inesorabilmente necessaria. Quando fu decisa l'Unione Monetaria si era consapevoli che si formava un'asimmetria, ma si era fiduciosi che questa sarebbe stata eliminata progredendo verso un governo comune dell'economia…”.

I recenti dolorosi fatti di natura economica che coinvolgono uno Stato membro dell’Unione e che impensieriscono tutti i 27 Stati membri, oltre che l’Unione nel suo complesso, non fanno che confermare, dare ulteriore validità ai concetti prima espressi. Non vi può essere, nel lungo periodo, una politica monetaria unica, nata con l’Euro e governata a livello centrale, ma in assenza di una comune ed unica politica fiscale ed economica europea. L’assenza di questo strumento, che viene, invece, gestito e governato, singolarmente da ogni Stato membro, è sicuramente la principale causa delle incertezze e delle debolezze della nostra moneta unica, non accompagnata da un univoco indirizzo economico-fiscale. E’ questo scollamento, questa mancanza di un’unica guida, che sta creando quelle instabilità che oggi stiamo crudelmente toccando con mano.
Instabilità davvero pericolosa e difficile da combattere e che, se cavalcata dai forti “ movimenti incontrollabili “ delle masse monetarie presenti e fluttuanti nel Mercato finanziario globale, possono mettere in serio pericolo non solo la sopravvivenza dell’Euro ma anche, direi soprattutto, quella dell’ Unione Europea.
L’Europa Unita, concepita ormai oltre 60 anni fa, sarà davvero un “processo compiuto” solamente quando sarà stata realizzata un’Europa federale, un’unica vera ed autentica realtà politica, con un potere democratico federale, con un governo sovranazionale espresso da un parlamento composto dai membri dei Paesi federati. In breve, per fare un paragone, un’Europa concepita politicamente come gli Stati Uniti d’America.
La strada è ancora lunga: l’Unione Europea del 2010, 60 anni dopo la Dichiarazione Schuman, non è ancora, purtroppo, una federazione di Stati, come sarebbe dovuta diventare, e tuttavia non è neppure un’associazione fra stati sovrani. Essa pur possedendo alcune strutture federali come il Parlamento, la Corte di Giustizia, la Banca Centrale, l’euro, etc., manca di quel sistema decisionale “ unico “ , tipico dello Stato federale. Questo potere, oggi, è puramente intergovernativo, legato quindi alla singola visione e valutazione degli SM, che continuano ad esercitare, in maniera decisiva e senza deleghe, la propria sovranità. Ecco, se dovessimo dare un nome all’attuale struttura dell’ U. E., anche dopo il trattato di Lisbona, la definizione più appropriata è questa: una FEDERAZIONE INCOMPIUTA.

IL CONCETTO DI FEDERALISMO:
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L’EUROPA TRA EGOISMI E APERTURE DEGLI STATI MEMBRI.
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Ho partecipato al seminario " Conoscere l'Unione Europea per costruire il nostro futuro ", organizzato dal movimento federalista europeo presente presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università di Sassari, dove, rinnovato studente, frequento per la terza volta un corso di laurea ( ora quello di laurea magistrale in Politiche Pubblichbe e Governance ).

Le quattro giornate dedicate allo studio ed al dibattito sull’Unione Europea hanno avuto il merito di mettere a fuoco, di rendere noto, ai tanti che ancora si ostinano ad ignorare che il futuro dei popoli europei è strettamente legato alla costruzione di un’unica entità politica, quanto in 60 anni si è realizzato e, soprattutto quanto resta ancora da fare per completare il cammino intrapreso.
Una delle lezioni che maggiormente mi ha interessato è stata quella del Prof. Lucio Levi, docente di Scienza Politica dell'Università di Torino e Presidente del Movimento Federalista Europeo, tenuta nella 3^ giornata dei lavori, e che aveva per argomento “ Quale ruolo per l’Europa nel nuovo ordine mondiale “.
Nell’interessante intervento sono tate messe in luce le non poche “carenze” che, a distanza di molti anni ormai, continuano a permanere nell’incompleto cammino verso l’Unione Europea. Ecco le principali:
- Se è pur vero che l’Europa non ha mai avuto, in passato, un periodo di stabilità e di pace cosi grande, come in questi ultimi 60 anni, è anche altrettanto vero che la mancanza di un’unica direzione strategica rende precaria ed incerta la visione futura.
- L’Europa, dopo avere istituito la moneta unica, ha bisogno di un governo federale per gestire la politica estera e di sicurezza. Ciò le consentirebbe di avere pari dignità nei rapporti con Stati Uniti, Russia e le nuove potenze asiatiche e di poter prendere iniziative efficaci in aree cruciali quali l’Africa, il Medio-Oriente, l’Europa orientale, il Caucaso e la Federazione russa.
- La nascita di un “governo europeo” segnerebbe la fine del mondo unipolare e l’avvio di un mondo multipolare, condizione necessaria per mettere in moto un processo di democratizzazione e di costituzionalizzazione delle relazioni internazionali, basato sulla riforma dell’ONU e sul disarmo nucleare.
Uno dei problemi cruciali affrontati dal Prof. Levi è quello della pace. Pace che per secoli è stata vista non come prezioso periodo aureo, ma pace, invece, come periodo “calmo”, senza guerre, periodo “ negativo”, quindi. La vera pace, invece, è quella che, attraverso gli strumenti e le garanzie messe in atto dalle Istituzioni Internazionali può e deve diventare quella vera, quella “ perpetua “, a cui tutto il mondo dovrebbe tendere e riferirsi.
In un’intervista rilasciata a Marco Riciputti, reperita su Internet, il Prof. Levi in occasione della presentazione di un Suo libro ( trattasi del libro “ Crisi dello Stato e governo del mondo” ) ha cosi dichiarato: “…L’Ue sta vivendo la più grave crisi della sua storia. Ma il nazionalismo è un vicolo cieco...”.
La preoccupazione più grande del Prof. Levi è la disaffezione della gente verso l’Ue: «ma è proprio da qui che bisogna ripartire e trovare uno spazio per rilanciare il processo costituente. A dicembre si terrà a Genova la Convenzione dei cittadini europei : un evento unico nel suo genere, mai avvenuto prima». Coinvolgere di più le associazioni, i sindacati, le autonomie locali e la società civile nel suo complesso è la prossima sfida con cui bisogna misurarsi, ripete ancora nell’intervista il Prof. Levi, che la guerra la conosce bene, come riferisce in altra parte dell’intervista dove afferma: «Non sono più giovanissimo ed ho vissuto l’esperienza della seconda guerra mondiale ed in più sono ebreo; nove dei miei parenti sono stati deportati e morti nei campi di concentramento. L’aspirazione alla pace e il rifiuto della violenza mi hanno accompagnato fin da giovanissimo».
E’ proprio il grande bisogno di sicurezza la sfida più importante del terzo millennio, dove la globalizzazione ha abbattuto antiche barriere: da quelle economiche a quelle culturali e morali. Bisogno di sicurezza riferito sia agli individui, che si sentono sempre più soli ed in pericolo, che alle Nazioni, ai Popoli. Ecco perché è assolutamente necessario superare le remore e gli egoismi dei singoli Stati ed arrivare ad un a comune gestione della politica estera e della sicurezza. Sostiene il Prof. Levi nella Sua relazione:
“…La formazione di un governo europeo responsabile della politica estera e di sicurezza dimostrerà che è possibile fare vivere un’unione di Stati al di là di nazioni storicamente consolidate. L’UE tenderà ad assumere il ruolo di cerniera tra Est e Ovest e tra Nord e Sud, perché ha un interesse vitale, a differenza degli Stati Uniti, a sviluppare relazioni positive di cooperazione con le aree contigue del mondo ex-comunista, del Mediterraneo e dell’Africa. Il primo compito è quello di completare l’unificazione dell’Europa verso Est e verso Sud. Ma nello stesso tempo si impone l’esigenza di rafforzare le istituzioni internazionali (l’OSCE, la Convenzione di Cotonou e il Partenariato Euro-Mediterraneo), che legano l’Europa ai continenti vicini. Se l’UE diventerà indipendente sul piano della sicurezza, l’Alleanza atlantica si trasformerà in un’alleanza tra eguali. Così l’Europa potrà sollevare gli Stati Uniti dalle loro schiaccianti responsabilità mondiali e promuovere la ricostruzione della solidarietà tra le due sponde dell’Atlantico…”.
La chiara visione del Prof. Levi è quella di un’Europa indipendente, che avrà l’autorità per spingere gli Stati Uniti a ricercare nell’ambito multilaterale delle Nazioni Unite la soluzione alle grandi controversie internazionali, ed il potere di convinzione, nei loro confronti, a mettere le loro truppe al servizio dell’ONU per operazioni di polizia internazionale atte a mantenere la pace nel mondo.
Solo se gli Stati che oggi formano l’UE, spogliandosi del loro egoismo nazionalista, saranno lungimiranti e metteranno insieme le loro forze completando quel percorso, oggi ancora “ a metà “, potremo finalmente conoscere quell’Europa a lungo sognata, quell’Europa finalmente Stato Federale Europeo, che rivestita di quello Status giuridico oggi mancante, potrà recitare il suo ruolo di primo che le spetta. Se gli Stati membri prendessero coscienza della grande potenza e capacità che l’Europa federale potrebbe assumere ( l’Unione europea ha una superficie pari a circa la metà di quella degli Stati Uniti, ma con un numero di abitanti superiore di oltre il 50%. Infatti, la popolazione dell’UE è la terza al mondo, dopo la Cina e l’India e conta oltre 495 milioni di abitanti), e del ruolo che potrebbe recitare nel dialogare alla pari con le altre potenze mondiali senza inutili e dispersivi campanilismi, il processo di unione ne verrebbe certamente accelerato.
Siamo in tanti, cittadini europei, a chiederci: sapranno i 27 Stati che oggi compongono l’Unione superare le non poche resistenze nazionaliste che ancora prevalgono e, in un impeto di lungimiranza, abbandonare gli l’egoismi locali per aprirsi ad una vera politica globale comune?

Solo il tempo potrà darci una risposta certa.
Mario Virdis, studente di PPG - Facoltà di Scienze Politiche - Università di Sassari.





martedì, aprile 27, 2010

BONARCADO, CENTRO IMPORTANTE NELLA STORIA DEL GIUDICATO D'ARBOREA.
















Oristano 26 Aprile 2010

Chi oggi si reca a Bonarcado lo fa, prevalentemente, per rendere omaggio a N.S. di Bonacatu, venerata nello splendido Santuario che si erge maestoso al centro dell'abitato.
Non molti sardi sanno che in passato Bonarcado è stato al centro delle vicende del Giudicato d'Arborea, con un'importanza politica e sociale di rilievo.

Il Santuario, fondato ai primi del Millecento dai monaci camaldolesi, è oggi una delle più belle terstimonianze in Sardegna di quel periodo storico, molto amato dai sardi che a migliaia si recano a porgere omaggio alla Madonna nella ricorrenza della Sua festa, a Settembre.
La Luogotenenza per l'Italia - Sardegna dell' Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Ordine a cui appartengo quale cavaliere, Delegato per la Provincia di Oristano, ha effettuato un Pellegrinaggio al Santuario il 18 Aprile scorso.

Provenienti da tutta l'Isola hanno raggiunto Bonarcado ed il Santuario di Bonacatu decine e decine di Cavalieri e Dame, accomunati dalla fede e dal desiderio di rendere omaggio alla loro Patrona, la Madonna, Maria Regina della Palestina, qui celebrata come Madonna di Bonacatu.
E' stato un grande momento di aqggregazione, di amicizia, e di fede.

Per gli amici che leggono il mio blog ecco alcune splendide immagini della giornata e una sintesi della storia di questi luoghi, abitati dall'uomo fin dalle sue origini.
Grazie dell'attenzione.

LA STORIA DEL SANTUARIO DI N.S. DI BONACATU.

A Bonarcado, un bel borgo rurale disposto nella piana del Milis, oggi possiamo ancora ammirare uno dei più interessanti complessi religiosi della Sardegna formato, oltre che dalla duecentesca Chiesa di Santa Maria, dai ruderi di un antico monastero camaldolese, e dal famoso ed antichissimo Monastero di Bonacatu, dedicato alla Vergine.
Il nome Bonacatu ha origine antiche, come vedremo, affondando nel passato tra realtà e leggenda. Luoghi, questi, che l’uomo abitò fin dalle origini.
La piccola chiesetta originaria, attorno alla quale si costituì il primo nucleo del villaggio e della comunità bonarcadese, presenta chiari segni di un’antichità più remota, ravvisabili dai resti, dalle tecniche e dai materiali costruttivi, emersi durante i recenti lavori di recupero. Il ritrovamento di una vasca rivestita con motivi geometrici, ha fatto supporre la presenza in questi luoghi, di un'antica stazione di posta romana edificata, verosimilmente, su un precedente luogo di culto nuragico. Una tale supposizione è certamente avvalorata dalle numerose testimonianze, che, unanimemente, portano, ad una precedente antropizzazione preistorica che ci ha tramandato pregevoli e monumentali megaliti, nuraghi, domus de janas e tombe di giganti e che si presentano secondo una straordinaria varietà di impianto. La basilica romanica che oggi possiamo ammirare porta ancora, sulla sinistra, i resti visibili del monastero camaldolese, ordine monastico al quale si deve la fondazione della chiesa, nel 1147, e che tanta parte ha avuto nella storia di Bonarcado.

La ricostruzione delle vicende dei Camaldolesi, quell'imponente Ente monastico, fiorente fin dalla metà del XII secolo, è possibile grazie ad una fonte importantissima, quale è il " Condaghe di Santa Maria di Bonarcado" , ossia un registro pergamenaceo nel quale venivano trascritti gli atti di donazione e la relativa amministrazione da parte del monastero.
Fondatore dell'abbazia fu, intorno al 1110, il Giudice Costantino di Lacon, sovrano dell'Arborea. Essa fu consacrata solennemente nel 1147 in occasione di un importante avvenimento storico: la Pace, detta di Bonarcado, tra i quattro Regoli sardi, celebrata sotto gli auspici del Metropolita di Pisa, alla presenza dei Giudici Sardi e di numerosi alti Prelati.
Con il Passare del tempo, il prestigio del Monastero crebbe così come il suo consistente patrimonio, a cui nel 1230, si aggiunsero il salto di Kerketu, nonché sette anni più tardi, la libertà di pesca con due barche nello stagno di Mare Pontis, con esenzione di ogni dazio verso il Fisco Regio.
Il 1237 fu ancora una volta una data importantissima nella storia di Bonarcado e dell'intera Arborea. Il papa Gregorio IX, per ristabilire pace e ordine, inviava sull' Isola il Legato Pontificio Alessandro, per assegnare, in nome dell' indiscutibile potere della sua sovranità politica e spirituale, il regno di Arborea. Durante una solenne cerimonia, celebrata nella Basilica bonarcadese, il primo maggio del 1237, il Legato Pontificio, conferiva a Pietro II, l'investitura del giudicato di Arborea, suggellata dalla consegna del Vessillo Papale e da un giuramento di fedeltà. Tra i fasti dell'Abbazia bonarcadese si annovera la visita pastorale che, nel 1263 fece Federico Visconti, primate di Sardegna e Legato Pontificio, con l'intento di riaffermare, mediante l'accordo del clero e delle autorità civili, la supremazia di Pisa sull'isola.
Durante il Quattrocento l'unico avvenimento di rilievo in cui compaia il nome di Bonarcado è relativo alla presenza del Priore Elia de Palmas poi Arcivescovo di Oristano, alla stipula del trattato che, dopo la morte di Eleonora, ridusse nel 1410 il Giudicato a marchesato.
L'ultimo priore camaldolese di cui si abbia notizia è un certo Francesco che fu priore di Bonarcado nel 1445, successivamente, nella prima metà del XV sec. verosimilmente per mancanza di rifornimenti dalla casa madre, i frati Camaldolesi abbandonarono il paese e l'Abbazia.

Architettura

IL SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DI BONACATU


Il Santuario di Santa Maria di Bonacatu prese nome, quindi, dalla parola “Bonacatu”, che significa in praticamente “ ritrovamento”.
Si racconta infatti che un cacciatore abbia trovato nel bosco, presso un piccolo torrente, una effige rappresentante la Madonna. Da questa vicenda il nome di Bonacatu o “Buon ritrovamento”.
Delle sorti di questa immagine oggi non si sa nulla ma il culto della Vergine si è perpetuato nei secoli successivi con l’omaggio, alla Vergine ed alla Sua Chiesa, di una bellissima terracotta policroma che rappresenta la Madonna con il bambino. Questa elegante terracotta che noi oggi possiamo ammirare è di autore incerto: da alcuni viene attribuita a scultore fiorentino della scuola di Donatello e da altri, invece, a scultore della scuola dei Della Robbia, date le caratteristiche stilistiche utilizzate nella raffigurazione della Vergine con il Bambino.
Questo luogo di preghiera e di raccoglimento, in territorio di Bonarcado, rappresenta quindi in Sardegna uno dei più antichi e rinomati luoghi di culto dell’intera Isola. Il luogo, come prima detto, ben prima del successivo ed imponente impianto basilicale, che per tale ragione, viene definito nei documenti del “ Condaghe di Santa Maria “ come “Clesia Nuova”, è stato luogo di culto, “ luogo sacro ”, fin dalle epoche più remote: dal periodo nuragico a quello romano ed al successivo periodo medioevale, fino ad arrivare ai giorni nostri.

L’ edificio religioso, come possiamo vedere, si presenta in pianta cruciforme con bracci voltati a botte, al cui incrocio, entro un tiburio quadrangolare, si eleva una cupola di età e fattura medio - bizantina, periodo al quale si ricollega la quasi totalità dell’impianto del Santuario.La facciata del braccio occidentale, di chiara impronta romanica, è frutto di un successivo intervento che, per l’evidenza degli elementi costruttivi e decorativi, si fa risalire al 1242, ossia al momento in cui si metteva mano ai lavori di ampliamento dell’abbazia camaldolese.Il fronte romanico della facciata del Santuario è in scuri conci basaltici intercalati dal rosso cupo del tufo con larghe paraste d’ angolo coronate da un armonico gioco di piccoli archi arabeggianti, sormontati da inserti ceramici sorretti da pregevoli e decorati peducci.
All’interno della Chiesa è conservata la preziosa icona in terracotta policroma, prima menzionata, della Madonna di Bonacatu.
La fabbrica, frutto di diversi interventi costruttivi, è, come già detto, in stile romanico nella facciata del braccio occidentale, dove i conci di scuro basalto intercalati di conci tufacei rossastri, sono utilizzati, in particolar modo, quale coronamento del portale principale, nella facciata tripartita con alte arcate cieche, che guarda ad ovest, realizzata secondo i modi consueti al tipico romanico toscano.
L’assetto attuale dell’edificio si deve ad un successivo ampliamento: due iscrizioni, una delle quali visibile sul lato sinistro della navata centrale, ci consentono di datarlo con precisione. All’impianto originario del 1147, a navata unica, si innestò, nel 1242, un nuovo corpo trinavato, a cui si sommarono, nel corso dei tempi, altri innumerevoli rimaneggiamenti.
I diversi interventi sulla fabbrica mal si celano ad un occhio attento: numerosi particolari costruttivi raccontano delle correnti architettoniche dominanti nei momenti in cui si è intervenuti.Ai tipici temi dell’architettura religiosa isolana, di chiara marca toscana, ravvisabili sulla facciata, sul fianco destro fino al primo ordine del campanile, si giustappongono motivi stilistici di segno islamico verosimilmente importati da maestranze iberiche.Al primo ordine della torre campanaria, dai paramenti lisci e con monofora di taglio rettangolare, si accosta un secondo ordine con lunghe paraste d’angolo e luci campanarie ogivali, mentre un gioco di archi lobati e di lesene a soffietto intervengono a decorare il prolungamento del fianco a doppia testata e l’abside.
All’interno l’edificio si presenta tripartito, in navate divise da arcate impostate su pilastri,ed illuminato dalla soffusa luce proveniente dalle monofore a doppio strombo situate sull’abside e sul frontone.
Sul lato sinistro della basilica romanica sono ancora visibili i resti del monastero camaldolese, ordine monastico al quale si deve la fondazione della chiesa nel 1147 e che tanta parte hanno avuto nella storia di Bonarcado.
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