Oristano 18 Dicembre 2011
Cari amici,
oggi riprendo a raccontarvi un altro piccolo spicchio della mi infanzia. Vi racconto un fatto vero, realmente accadutomi, e che lascia ancora tracce nel mio Io, che non si è dato ancora una chiara risposta all'accaduto. Ecco come ricordo oggi quel lontano e misterioso fatto.
Se non lo avessi toccato con mano, se non avessi constatato con i miei occhi la trasformazione che improvvisamente, nel corso di una notte, subì il mio corpo senza lasciare nessuna traccia della precedente situazione, credo che, pur davanti ad un giuramento sacro ed inviolabile, sarei rimasto incredulo. Del resto, cari amici, se lo è stato Tommaso, incredulo davanti a Gesù risorto, figuriamoci se non lo sarei stato io!
La storia (vera) che sto per raccontarvi è successa molti anni fa; avevo circa quindici anni e trascorrevo le vacanze di natale e quelle estive con i miei genitori che allora abitavano a Macomer. Durante il periodo scolastico, invece, ero ospite dei nonni materni a Bauladu insieme a mio fratello. La mia famiglia, per evitare di dover interrompere gli studi che mio fratello ed io avevamo intrapreso nelle scuole superiori ad Oristano (mio fratello Nino alle Magistrali ed io in Ragioneria), aveva concordato con nonno Domenico e nonna Peppica di ospitare, previo rimborso delle spese, me e mio fratello a casa loro a Bauladu. E cosi fu. Noi rientravamo a Macomer nel periodo delle vacanze. La situazione non era certo rosea per i miei genitori che si caricavano di altre spese, ma con fatica affrontarono la situazione.
Era per me una grande gioia tornare a casa da babbo e mamma, dopo mesi di soggiorno in una casa che, pur familiare, non era la mia e dove, per quanto non estraneo, non godevo certo della libertà che avrei potuto avere con i miei.
Credo di aver detto, anche in altra parte della storia dei miei ricordi, che non sono mai stato un ragazzo “tranquillo”. La mia esuberanza sprizzava vitalità da tutti pori e tenermi a freno non è mai stata cosa facile. Questo comportava ovviamente significava “pagarne lo scotto” e caricarsi di qualche guaio in più. Le scorribande, le lotte, anche corpo a corpo, con gli altri ragazzi, lasciavano tracce evidenti sulla nostra pelle, incidenti che lasciavano piccole ferite e facevano sanguinare diverse parti del nostro corpo. Sicuramente fu in uno di questi “scontri”, con qualcuno dei ragazzi che soffriva di verruche (che noi chiamavamo semplicemente porri), che venni contagiato ed io, in poco tempo, mi ritrovai con alcune di queste escrescenze sulle gambe e sulle mani.
Chi ne ha sofferto o ne soffre sa che sono infezioni fastidiose che anche ad un minimo contatto sanguinano, sporcano, oltre che creare fastidi e dolori. L’unico rimedio in uso allora era una goccia di “brucia porri” da versare sull’escrescenza e che seccava il porro indurendolo. Non serviva a farlo scomparire ma almeno lo teneva a ‘secco’ per un po’.
Per un primo periodo i miei porri non erano numerosi: diciamo che si potevano contare sulle dita di una mano. Lentamente ma inesorabilmente, però, iniziarono a moltiplicarsi. Forse quando li facevo sanguinare e mi toccavo il virus aggrediva altre parti del mio corpo e li si formava un’altra verruca. Senza tediarvi troppo voglio dirvi che nel giro di pochi anni i miei porri erano diventati difficili da contare, tanto erano diventati numerosi. La cosa che più mi infastidiva era che correndo e giocando “pesante”, come era mio solito, riuscivo a farne sanguinare più di uno, tutti i giorni, e al rientro a casa, dopo un veloce lavaggio delle parti impolverate ero costretto a “bruciare” una lunga serie delle verruche “incidentate”.
E’ pur vero che si fa l’abitudine a tutto ma per me questo fastidio era diventato un serio problema. Nell’inverno del 1960, che ricordo particolarmente rigido e nevoso, rientrammo per le vacanze di Natale con mio fratello a Macomer per trascorrere le festività con i miei genitori. La casa dove i miei abitavano era sulla strada che da Macomer porta a Bosa; era una casa cantoniera di proprietà dell’ A.N.A.S., Ente di Stato, di cui mio padre era dipendente. La casa era costruita su un’altura da cui si dominava un bel paesaggio, ad un tiro di schioppo da un bel nuraghe e con intorno altre due case cantoniere: quella delle Ferrovie Complementari della Sardegna, sulla linea ferroviaria Macomer – Bosa e quella dell’Amministrazione Provinciale di Nuoro, sulla strada provinciale che partendo dalla S.S.129 bis raggiungeva Pozzomaggiore.
L’inverno in quella località era sempre molto rigido e le visite di terzi non erano molto frequenti. Ci si incontrava tra le tre famiglie che dividevano la stessa sorte, a cui si aggiungevano le rare visite dei parenti e quelle di cortesia dei diversi proprietari delle aziende che avevano terreni e bestiame nel circondario.
L’episodio che sto per raccontarvi, e che ricordo ancora con grande chiarezza e lucidità, avvenne alla fine di una mattinata di Dicembre del 1960. Lo strato di neve fuori aveva raggiunto un discreto spessore e le poche auto transitavano con grande lentezza. Chi, poi, doveva muoversi nelle campagne, per il bestiame, usava molto più saggiamente il cavallo.
Mancava poco all’ora di pranzo quando sentimmo bussare alla porta. Andai io ad aprire poi si avvicinò alla porta anche mio padre. In piedi davanti all’ingresso vi era un signore anziano infreddolito, da noi conosciuto solo di vista, in quanto passava col suo cavallo ad intervalli regolari per andare alla sua azienda zootecnica nelle campagne di Pozzomaggiore. Io lo avevo visto passare diverse volte, in sella al suo cavallo nero, sempre taciturno, intabarrato nel cappotto di orbace con cappuccio, da cui spuntava una lunga barba bianca. Prima di bussare aveva legato il suo cavallo all’albero che stava sul piazzale di fronte a casa. Con grande cortesia e scusandosi per l’ora chiese di poter entrare in casa per riscaldarsi un po’; soffriva di artrite e non riusciva più a tenere in mano le redini del cavallo. Lo tranquillizzammo e lo facemmo accomodare vicino al fuoco. Parlò a lungo con mio padre della brutta annata, del tempo inclemente e della dura vita del pastore. Io, curioso come sempre, stavo ad ascoltare, seduto su un piccolo sgabello di sughero, senza perdermi una sola parola della conversazione. Mentre attento ascoltavo la voce roca dell’uomo mi grattavo nervosamente i non pochi porri che avevo nelle mani. La cosa non sfuggì al nostro ospite che dopo un po’ mi fece a bruciapelo la domanda: “Scommetto che ne hai molti di questi porri”. Io ricordo che diventai rosso: non mi aspettavo una domanda cosi diretta. Annuii, senza rispondere a voce. La cosa sembrava fosse finita li. Lui continuò per un po’ la conversazione con mio padre e dopo essersi riscaldato e ristorato dal gelo sofferto, salutò mio padre e mia madre e si alzò per riprendere il cammino verso la campagna. Mentre slegava il cavallo con un cenno mi chiamò. Io mi avvicinai e lui, serio, mi disse: “senti ti faccio una proposta e vedrai che non te ne pentirai. Io ti posso aiutare a toglierti questo male che ti tormenta. Se seguirai bene i miei consigli guarirai”. Io guardavo quest’uomo con un misto di curiosità e paura insieme. Il suo volto segnato da anni di fatica ed incorniciato dalla barba bianca gli dava un certo alone di mistero, come di un antico profeta. Mi guardava serio, aspettando da me un cenno che gli confermasse se accettavo a meno la sua proposta. Con uno sforzo e dopo aver inspirato a lungo, quasi senza fiato, risposi: “si…e cosa dovrei fare?”.
L’uomo mi mise una mano sulla spalla e guardandomi fisso negli occhi mi disse: “ devi con grande attenzione contare tutti i porri che hai sul corpo. Ti ripeto, tutti e con attenzione! Non devi aggiungere ne togliere nulla, il numero deve essere esatto, altrimenti la medicina non funziona”. Dopo una breve pausa continuò. “ Se starai attento vedrai che ci riuscirai". Inoltre, mi disse, "non devi raccontare a nessuno questa storia: deve restare un segreto tra te e me. Per aiutarti nella conta, continuò, devi prendere un bel pezzo di spago. Man mano che individui un porro lo segni e fai un nodo allo spago e cosi via. Alla fine lo spago avrà tanti nodi quanti sono i tuoi porri". ”Hai capito bene?”, concluse, guardandomi fisso negli occhi e aspettando la mia risposta. Io assentii con la testa, senza pronunciare parola. “Per aiutarti ti do io lo spago adatto”, continuò.
Si voltò verso il cavallo e infilando le mani dentro la grossa bisaccia posata sulla groppa ne cavò un rotolo di spago. Ne misurò un pezzo di circa un metro e dopo aver soppesato la misura, togliendo dalla tasca della giacchetta una lucida “leppa”, con un colpo netto recise il pezzo di spago dal rotolo.
Io ero immobile davanti a lui, attento, cercando quasi di non disturbare questo rito. Mi porse il pezzo di spago, sempre osservandomi e guardandomi dritto negli occhi. Poi continuò: “quando sarai sicuro di averli contati bene ‘tutti’ dovrai custodire lo spago con grande attenzione. Per evitare di perderlo lo metterai dentro un fazzoletto che chiuderai bene, dopo aver fatto due nodi ben stretti con i quattro lembi; dovrai poi conservare bene “questo pegno” e aspettare il mio ritorno con fiducia, perché io tornerò quando sarà il tempo giusto per utilizzare questa medicina". “Ti raccomando, davvero, di non perderlo”, concluse, “perché altrimenti non sarà mai più possibile liberarti da questo male”. Detto questo, con una leggera pacca sulla spalla, mi salutò e, salito con un agile balzo sul cavallo, si allontanò.
Io misi in tasca il pezzo di spago che, forse per l’emozione, a me sembrava un oggetto misterioso: mi dava addirittura l’impressione che emanasse del calore! Lo riposi religiosamente dentro una robusta scatola che custodiva alcune mie cose personali e, senza dire niente a nessuno, ripresi, pur preoccupato, le solite attività giocose della mia giornata.
Pur impegnato nel gioco qualcosa mi tormentava. In effetti non riuscivo a togliermi dalla testa la voce roca dell’uomo ed il suo sguardo penetrante che sembrava quasi essermi entrato dentro come una lama. Chissà che poteri aveva, pensavo, e un po’ mi faceva paura. Avevo promesso, però, di fare quanto mi aveva chiesto e lo avrei fatto. Cercai prima di tutto di organizzarmi. Avevo una stanza tutta mia e, recuperato uno specchio portatile ed una boccetta di “nero di diavolo” (allora era l’unica tintura capace di ravvivare le vecchie scarpe), aspettai il momento adatto per mettere in atto l’operazione.
Qualche giorno dopo, una mattina che restai solo in casa, diedi il via all’operazione “conta dei porri”. Aiutato dallo specchio e dal pennellino bagnato nella tintura, che usavo per marcare i porri che ad uno ad uno individuavo, l’operazione in poco tempo andò a buon fine. Lo spago con il “rosario” dei porri era ormai completato in modo sicuro. A lavoro finito tolsi dalla tasca il fazzoletto (non era neanche molto pulito e forse aveva anche qualche macchia del sangue dei miei porri) e vi riposi lo spago/rosario. Rinchiuso il “cimelio” all’interno e annodato il fazzoletto come raccomandatomi, lo misi al sicuro, nascondendolo nel fondo della mia scatola personale.
Il tempo passò e lentamente quasi scordai tutto questo trambusto. Ala fine delle vacanze rientrai a Bauladu e ripresi la mia attività scolastica. Per le vacanze di Pasqua, come al solito, tornai dai miei genitori per trascorrervi il periodo pasquale.
Una mattina mentre giocavo nei dintorni della casa vidi l’uomo che rientrava dalla sua azienda, diretto a Macomer. Appena mi vide fermò il cavallo e mi chiamò. Dopo un breve saluto, restando seduto in groppa al cavallo, mi chiese se avessi dato esecuzione alla promessa fattagli. Gli dissi di si. Dopo aver consultato una piccola agendina che custodiva nel taschino del panciotto (credo di ricordare che fosse il “Chiaravalle di Casamara”, una specie di agenda dell’uomo di campagna molto in auge a quei tempi) mi disse: “Vai a prendere lo spago e portamelo qui. Non tardare, perché ho fretta”. Andai di corsa a casa e recuperai dalla scatola il fazzoletto con all’interno lo spago. Gli porsi direttamente il fazzoletto cosi com’era, senza aprirlo, e lui, dopo averlo tastato e sentito che c’era lo spago con i nodi, lo mise in tasca dicendomi: “Spero tu abbia contato per bene. E’ molto importante, lo sai. Ora devi solo aspettare con fiducia”. Detto questo fece un rapido cenno di saluto, spronò il cavallo e si avviò verso Macomer.
Le vacanze passarono in fretta e subito dopo rientrai a Bauladu e ripresi i miei studi ad Oristano. Al termine dell’anno scolastico che superai con onore (fui promosso con buoni voti) rientrai a Macomer per trascorrere le lunghe e agognate vacanze estive. Della storia dei porri debbo dirvi che quasi mi ero completamente scordato. Gli impegni di un anno scolastico e la voglia di vacanze e di riposo non lasciavano molti spazi vuoti.
Le giornate trascorrevano lente e tranquille tra i giochi con i pochi amici e qualche giornata trascorsa al mare di Bosa, che raggiungevo con il trenino. Una mattina mentre mi alzavo dal letto con il cervello impegnato a studiare come trascorrere al meglio ed in allegria la giornata casualmente, infilandomi i pantaloni, mi accorsi che sull’indice della mano destra, dove per anni si era annidato il porro più consistente e più fastidioso che avessi mai avuto, non vi era più nessuna traccia della screpolata protuberanza che quasi tutti i giorni, sbattendo a destra e a manca, mi aveva tormentato; era misteriosamente sparito anche quello più piccolo che avevo sull’anulare della stessa mano. Mi stropicciai gli occhi incredulo e passai più volte la mano sinistra sopra queste dita che, improvvisamente, si erano misteriosamente modificate. Volevo capire se era un sogno o se, invece, era tutto vero. Mi resi conto che non vi erano dubbi: i porri erano veramente scomparsi! In quel momento mi ricordai del vecchio e della sua promessa. Affannosamente mi denudai completamente e osservai il mio corpo in tutte le sue parti: mi accorsi che non vi era più traccia dei numerosi porri che per molto tempo mi avevano tormentato. Si era avverato quanto promesso dal vecchio: la guarigione si era davvero verificata. Ero talmente sconvolto che mi misi a gridare: “Mamma, Mamma, vieni! Vieni che vedi anche tu: non ho più i porri, sono tutti scomparsi! E’ incredibile!”.
Mamma arrivò subito e guardandomi con un ironico sorriso mi disse: “ Marieddu, hai fatto per caso un brutto sogno? Cosa dici? ”. Io mi avvicinai ancora di più e le dissi “No, guarda anche tu mamma. Ricordi il porro che c’era qui?” E le mostrai la mano destra. A quel punto mi accorsi che il suo sguardo non era più ironico ma sorpreso ed incredulo. Mi controllò tutto il corpo e alla fine mi disse: “ Tu sai come è perché è successo?”. Le raccontai tutto e Lei mi rispose che era contenta per me, che queste cose accadono quando il Signore ci vuole bene, e che se questa guarigione straordinaria era avvenuta voleva dire che Dio mi voleva bene in modo particolare. Mia madre, profondamente cristiana, non voleva alimentare in me credenze di superstizione o di magia. Lei certo, che aveva una madre guaritrice e medium, credo che sapesse ben di più di quello che, in quel momento, voleva farmi credere. Per me questa guarigione restò sempre un grande mistero. Ero felice di non avere più quella terribile seccatura addosso e, a prescindere da tutto, pensai che, davvero, il Buon Dio aveva avuto nei miei confronti un “occhio di riguardo”.
Oggi, col senno della mia senilità, credo di poter sostenere che l’uomo non conosce che una piccola parte delle forze che governano il mondo e di conseguenza la nostra vita: dall’alternarsi delle stagioni, alle malattie che colpiscono tutti gli esseri viventi, dalle catastrofi alla variabilità del clima, dallo scorrere della vita nel nostro piccolo mondo terrestre all'immensità dell’universo, in perenne movimento. L’uomo è ben poca cosa, rispetto al grande costruttore del Creato, anche se a volte si atteggia e scimmiotta Dio, nostro creatore. Fermiamoci a riflettere.
Un’ultima considerazione. L’incontro prima ricordato con l’uomo dal cavallo nero, a cui consegnai lo spago con i nodi dei miei porri, fu l’ultimo. Non lo incontrai mai più, anche se ci speravo: gli avrei manifestato tutta la mia gioia e lo avrei ringraziato delle sue grandi doti magiche!
Mario
Cari amici,
oggi riprendo a raccontarvi un altro piccolo spicchio della mi infanzia. Vi racconto un fatto vero, realmente accadutomi, e che lascia ancora tracce nel mio Io, che non si è dato ancora una chiara risposta all'accaduto. Ecco come ricordo oggi quel lontano e misterioso fatto.
Se non lo avessi toccato con mano, se non avessi constatato con i miei occhi la trasformazione che improvvisamente, nel corso di una notte, subì il mio corpo senza lasciare nessuna traccia della precedente situazione, credo che, pur davanti ad un giuramento sacro ed inviolabile, sarei rimasto incredulo. Del resto, cari amici, se lo è stato Tommaso, incredulo davanti a Gesù risorto, figuriamoci se non lo sarei stato io!
La storia (vera) che sto per raccontarvi è successa molti anni fa; avevo circa quindici anni e trascorrevo le vacanze di natale e quelle estive con i miei genitori che allora abitavano a Macomer. Durante il periodo scolastico, invece, ero ospite dei nonni materni a Bauladu insieme a mio fratello. La mia famiglia, per evitare di dover interrompere gli studi che mio fratello ed io avevamo intrapreso nelle scuole superiori ad Oristano (mio fratello Nino alle Magistrali ed io in Ragioneria), aveva concordato con nonno Domenico e nonna Peppica di ospitare, previo rimborso delle spese, me e mio fratello a casa loro a Bauladu. E cosi fu. Noi rientravamo a Macomer nel periodo delle vacanze. La situazione non era certo rosea per i miei genitori che si caricavano di altre spese, ma con fatica affrontarono la situazione.
Era per me una grande gioia tornare a casa da babbo e mamma, dopo mesi di soggiorno in una casa che, pur familiare, non era la mia e dove, per quanto non estraneo, non godevo certo della libertà che avrei potuto avere con i miei.
Credo di aver detto, anche in altra parte della storia dei miei ricordi, che non sono mai stato un ragazzo “tranquillo”. La mia esuberanza sprizzava vitalità da tutti pori e tenermi a freno non è mai stata cosa facile. Questo comportava ovviamente significava “pagarne lo scotto” e caricarsi di qualche guaio in più. Le scorribande, le lotte, anche corpo a corpo, con gli altri ragazzi, lasciavano tracce evidenti sulla nostra pelle, incidenti che lasciavano piccole ferite e facevano sanguinare diverse parti del nostro corpo. Sicuramente fu in uno di questi “scontri”, con qualcuno dei ragazzi che soffriva di verruche (che noi chiamavamo semplicemente porri), che venni contagiato ed io, in poco tempo, mi ritrovai con alcune di queste escrescenze sulle gambe e sulle mani.
Chi ne ha sofferto o ne soffre sa che sono infezioni fastidiose che anche ad un minimo contatto sanguinano, sporcano, oltre che creare fastidi e dolori. L’unico rimedio in uso allora era una goccia di “brucia porri” da versare sull’escrescenza e che seccava il porro indurendolo. Non serviva a farlo scomparire ma almeno lo teneva a ‘secco’ per un po’.
Per un primo periodo i miei porri non erano numerosi: diciamo che si potevano contare sulle dita di una mano. Lentamente ma inesorabilmente, però, iniziarono a moltiplicarsi. Forse quando li facevo sanguinare e mi toccavo il virus aggrediva altre parti del mio corpo e li si formava un’altra verruca. Senza tediarvi troppo voglio dirvi che nel giro di pochi anni i miei porri erano diventati difficili da contare, tanto erano diventati numerosi. La cosa che più mi infastidiva era che correndo e giocando “pesante”, come era mio solito, riuscivo a farne sanguinare più di uno, tutti i giorni, e al rientro a casa, dopo un veloce lavaggio delle parti impolverate ero costretto a “bruciare” una lunga serie delle verruche “incidentate”.
E’ pur vero che si fa l’abitudine a tutto ma per me questo fastidio era diventato un serio problema. Nell’inverno del 1960, che ricordo particolarmente rigido e nevoso, rientrammo per le vacanze di Natale con mio fratello a Macomer per trascorrere le festività con i miei genitori. La casa dove i miei abitavano era sulla strada che da Macomer porta a Bosa; era una casa cantoniera di proprietà dell’ A.N.A.S., Ente di Stato, di cui mio padre era dipendente. La casa era costruita su un’altura da cui si dominava un bel paesaggio, ad un tiro di schioppo da un bel nuraghe e con intorno altre due case cantoniere: quella delle Ferrovie Complementari della Sardegna, sulla linea ferroviaria Macomer – Bosa e quella dell’Amministrazione Provinciale di Nuoro, sulla strada provinciale che partendo dalla S.S.129 bis raggiungeva Pozzomaggiore.
L’inverno in quella località era sempre molto rigido e le visite di terzi non erano molto frequenti. Ci si incontrava tra le tre famiglie che dividevano la stessa sorte, a cui si aggiungevano le rare visite dei parenti e quelle di cortesia dei diversi proprietari delle aziende che avevano terreni e bestiame nel circondario.
L’episodio che sto per raccontarvi, e che ricordo ancora con grande chiarezza e lucidità, avvenne alla fine di una mattinata di Dicembre del 1960. Lo strato di neve fuori aveva raggiunto un discreto spessore e le poche auto transitavano con grande lentezza. Chi, poi, doveva muoversi nelle campagne, per il bestiame, usava molto più saggiamente il cavallo.
Mancava poco all’ora di pranzo quando sentimmo bussare alla porta. Andai io ad aprire poi si avvicinò alla porta anche mio padre. In piedi davanti all’ingresso vi era un signore anziano infreddolito, da noi conosciuto solo di vista, in quanto passava col suo cavallo ad intervalli regolari per andare alla sua azienda zootecnica nelle campagne di Pozzomaggiore. Io lo avevo visto passare diverse volte, in sella al suo cavallo nero, sempre taciturno, intabarrato nel cappotto di orbace con cappuccio, da cui spuntava una lunga barba bianca. Prima di bussare aveva legato il suo cavallo all’albero che stava sul piazzale di fronte a casa. Con grande cortesia e scusandosi per l’ora chiese di poter entrare in casa per riscaldarsi un po’; soffriva di artrite e non riusciva più a tenere in mano le redini del cavallo. Lo tranquillizzammo e lo facemmo accomodare vicino al fuoco. Parlò a lungo con mio padre della brutta annata, del tempo inclemente e della dura vita del pastore. Io, curioso come sempre, stavo ad ascoltare, seduto su un piccolo sgabello di sughero, senza perdermi una sola parola della conversazione. Mentre attento ascoltavo la voce roca dell’uomo mi grattavo nervosamente i non pochi porri che avevo nelle mani. La cosa non sfuggì al nostro ospite che dopo un po’ mi fece a bruciapelo la domanda: “Scommetto che ne hai molti di questi porri”. Io ricordo che diventai rosso: non mi aspettavo una domanda cosi diretta. Annuii, senza rispondere a voce. La cosa sembrava fosse finita li. Lui continuò per un po’ la conversazione con mio padre e dopo essersi riscaldato e ristorato dal gelo sofferto, salutò mio padre e mia madre e si alzò per riprendere il cammino verso la campagna. Mentre slegava il cavallo con un cenno mi chiamò. Io mi avvicinai e lui, serio, mi disse: “senti ti faccio una proposta e vedrai che non te ne pentirai. Io ti posso aiutare a toglierti questo male che ti tormenta. Se seguirai bene i miei consigli guarirai”. Io guardavo quest’uomo con un misto di curiosità e paura insieme. Il suo volto segnato da anni di fatica ed incorniciato dalla barba bianca gli dava un certo alone di mistero, come di un antico profeta. Mi guardava serio, aspettando da me un cenno che gli confermasse se accettavo a meno la sua proposta. Con uno sforzo e dopo aver inspirato a lungo, quasi senza fiato, risposi: “si…e cosa dovrei fare?”.
L’uomo mi mise una mano sulla spalla e guardandomi fisso negli occhi mi disse: “ devi con grande attenzione contare tutti i porri che hai sul corpo. Ti ripeto, tutti e con attenzione! Non devi aggiungere ne togliere nulla, il numero deve essere esatto, altrimenti la medicina non funziona”. Dopo una breve pausa continuò. “ Se starai attento vedrai che ci riuscirai". Inoltre, mi disse, "non devi raccontare a nessuno questa storia: deve restare un segreto tra te e me. Per aiutarti nella conta, continuò, devi prendere un bel pezzo di spago. Man mano che individui un porro lo segni e fai un nodo allo spago e cosi via. Alla fine lo spago avrà tanti nodi quanti sono i tuoi porri". ”Hai capito bene?”, concluse, guardandomi fisso negli occhi e aspettando la mia risposta. Io assentii con la testa, senza pronunciare parola. “Per aiutarti ti do io lo spago adatto”, continuò.
Si voltò verso il cavallo e infilando le mani dentro la grossa bisaccia posata sulla groppa ne cavò un rotolo di spago. Ne misurò un pezzo di circa un metro e dopo aver soppesato la misura, togliendo dalla tasca della giacchetta una lucida “leppa”, con un colpo netto recise il pezzo di spago dal rotolo.
Io ero immobile davanti a lui, attento, cercando quasi di non disturbare questo rito. Mi porse il pezzo di spago, sempre osservandomi e guardandomi dritto negli occhi. Poi continuò: “quando sarai sicuro di averli contati bene ‘tutti’ dovrai custodire lo spago con grande attenzione. Per evitare di perderlo lo metterai dentro un fazzoletto che chiuderai bene, dopo aver fatto due nodi ben stretti con i quattro lembi; dovrai poi conservare bene “questo pegno” e aspettare il mio ritorno con fiducia, perché io tornerò quando sarà il tempo giusto per utilizzare questa medicina". “Ti raccomando, davvero, di non perderlo”, concluse, “perché altrimenti non sarà mai più possibile liberarti da questo male”. Detto questo, con una leggera pacca sulla spalla, mi salutò e, salito con un agile balzo sul cavallo, si allontanò.
Io misi in tasca il pezzo di spago che, forse per l’emozione, a me sembrava un oggetto misterioso: mi dava addirittura l’impressione che emanasse del calore! Lo riposi religiosamente dentro una robusta scatola che custodiva alcune mie cose personali e, senza dire niente a nessuno, ripresi, pur preoccupato, le solite attività giocose della mia giornata.
Pur impegnato nel gioco qualcosa mi tormentava. In effetti non riuscivo a togliermi dalla testa la voce roca dell’uomo ed il suo sguardo penetrante che sembrava quasi essermi entrato dentro come una lama. Chissà che poteri aveva, pensavo, e un po’ mi faceva paura. Avevo promesso, però, di fare quanto mi aveva chiesto e lo avrei fatto. Cercai prima di tutto di organizzarmi. Avevo una stanza tutta mia e, recuperato uno specchio portatile ed una boccetta di “nero di diavolo” (allora era l’unica tintura capace di ravvivare le vecchie scarpe), aspettai il momento adatto per mettere in atto l’operazione.
Qualche giorno dopo, una mattina che restai solo in casa, diedi il via all’operazione “conta dei porri”. Aiutato dallo specchio e dal pennellino bagnato nella tintura, che usavo per marcare i porri che ad uno ad uno individuavo, l’operazione in poco tempo andò a buon fine. Lo spago con il “rosario” dei porri era ormai completato in modo sicuro. A lavoro finito tolsi dalla tasca il fazzoletto (non era neanche molto pulito e forse aveva anche qualche macchia del sangue dei miei porri) e vi riposi lo spago/rosario. Rinchiuso il “cimelio” all’interno e annodato il fazzoletto come raccomandatomi, lo misi al sicuro, nascondendolo nel fondo della mia scatola personale.
Il tempo passò e lentamente quasi scordai tutto questo trambusto. Ala fine delle vacanze rientrai a Bauladu e ripresi la mia attività scolastica. Per le vacanze di Pasqua, come al solito, tornai dai miei genitori per trascorrervi il periodo pasquale.
Una mattina mentre giocavo nei dintorni della casa vidi l’uomo che rientrava dalla sua azienda, diretto a Macomer. Appena mi vide fermò il cavallo e mi chiamò. Dopo un breve saluto, restando seduto in groppa al cavallo, mi chiese se avessi dato esecuzione alla promessa fattagli. Gli dissi di si. Dopo aver consultato una piccola agendina che custodiva nel taschino del panciotto (credo di ricordare che fosse il “Chiaravalle di Casamara”, una specie di agenda dell’uomo di campagna molto in auge a quei tempi) mi disse: “Vai a prendere lo spago e portamelo qui. Non tardare, perché ho fretta”. Andai di corsa a casa e recuperai dalla scatola il fazzoletto con all’interno lo spago. Gli porsi direttamente il fazzoletto cosi com’era, senza aprirlo, e lui, dopo averlo tastato e sentito che c’era lo spago con i nodi, lo mise in tasca dicendomi: “Spero tu abbia contato per bene. E’ molto importante, lo sai. Ora devi solo aspettare con fiducia”. Detto questo fece un rapido cenno di saluto, spronò il cavallo e si avviò verso Macomer.
Le vacanze passarono in fretta e subito dopo rientrai a Bauladu e ripresi i miei studi ad Oristano. Al termine dell’anno scolastico che superai con onore (fui promosso con buoni voti) rientrai a Macomer per trascorrere le lunghe e agognate vacanze estive. Della storia dei porri debbo dirvi che quasi mi ero completamente scordato. Gli impegni di un anno scolastico e la voglia di vacanze e di riposo non lasciavano molti spazi vuoti.
Le giornate trascorrevano lente e tranquille tra i giochi con i pochi amici e qualche giornata trascorsa al mare di Bosa, che raggiungevo con il trenino. Una mattina mentre mi alzavo dal letto con il cervello impegnato a studiare come trascorrere al meglio ed in allegria la giornata casualmente, infilandomi i pantaloni, mi accorsi che sull’indice della mano destra, dove per anni si era annidato il porro più consistente e più fastidioso che avessi mai avuto, non vi era più nessuna traccia della screpolata protuberanza che quasi tutti i giorni, sbattendo a destra e a manca, mi aveva tormentato; era misteriosamente sparito anche quello più piccolo che avevo sull’anulare della stessa mano. Mi stropicciai gli occhi incredulo e passai più volte la mano sinistra sopra queste dita che, improvvisamente, si erano misteriosamente modificate. Volevo capire se era un sogno o se, invece, era tutto vero. Mi resi conto che non vi erano dubbi: i porri erano veramente scomparsi! In quel momento mi ricordai del vecchio e della sua promessa. Affannosamente mi denudai completamente e osservai il mio corpo in tutte le sue parti: mi accorsi che non vi era più traccia dei numerosi porri che per molto tempo mi avevano tormentato. Si era avverato quanto promesso dal vecchio: la guarigione si era davvero verificata. Ero talmente sconvolto che mi misi a gridare: “Mamma, Mamma, vieni! Vieni che vedi anche tu: non ho più i porri, sono tutti scomparsi! E’ incredibile!”.
Mamma arrivò subito e guardandomi con un ironico sorriso mi disse: “ Marieddu, hai fatto per caso un brutto sogno? Cosa dici? ”. Io mi avvicinai ancora di più e le dissi “No, guarda anche tu mamma. Ricordi il porro che c’era qui?” E le mostrai la mano destra. A quel punto mi accorsi che il suo sguardo non era più ironico ma sorpreso ed incredulo. Mi controllò tutto il corpo e alla fine mi disse: “ Tu sai come è perché è successo?”. Le raccontai tutto e Lei mi rispose che era contenta per me, che queste cose accadono quando il Signore ci vuole bene, e che se questa guarigione straordinaria era avvenuta voleva dire che Dio mi voleva bene in modo particolare. Mia madre, profondamente cristiana, non voleva alimentare in me credenze di superstizione o di magia. Lei certo, che aveva una madre guaritrice e medium, credo che sapesse ben di più di quello che, in quel momento, voleva farmi credere. Per me questa guarigione restò sempre un grande mistero. Ero felice di non avere più quella terribile seccatura addosso e, a prescindere da tutto, pensai che, davvero, il Buon Dio aveva avuto nei miei confronti un “occhio di riguardo”.
Oggi, col senno della mia senilità, credo di poter sostenere che l’uomo non conosce che una piccola parte delle forze che governano il mondo e di conseguenza la nostra vita: dall’alternarsi delle stagioni, alle malattie che colpiscono tutti gli esseri viventi, dalle catastrofi alla variabilità del clima, dallo scorrere della vita nel nostro piccolo mondo terrestre all'immensità dell’universo, in perenne movimento. L’uomo è ben poca cosa, rispetto al grande costruttore del Creato, anche se a volte si atteggia e scimmiotta Dio, nostro creatore. Fermiamoci a riflettere.
Un’ultima considerazione. L’incontro prima ricordato con l’uomo dal cavallo nero, a cui consegnai lo spago con i nodi dei miei porri, fu l’ultimo. Non lo incontrai mai più, anche se ci speravo: gli avrei manifestato tutta la mia gioia e lo avrei ringraziato delle sue grandi doti magiche!
Mario
9 commenti:
Veramente un bell'articolo Mario. Grazie per la tua testimonianza! Manca però il rito finale che l'uomo dalla barba biancaha compiuto. A quanto so in genere il rito continua in questo modo. Si prendeva un pezzo di carne. Intorno a questo pezzo di carne con il filo con i nodi. Tutto accompagnato da una serie di croci fatte sopra la carne con il filo. Infine la carne con il filo veniva sotterrata in un posto che non sapeva nessuno e soprattuto in un posto dove la persona con i porri non sarebbe mai passata. A mano a mano che la carne andava in putrefazione guarivano i porri.
Ciao
Signor Virdis, la ringrazio per questo articolo che, oltre ad attestare della grandezza della cultura della nostra isola e del profondo sapere di cui ognuno, in una tradizione legata al mondo naturale, può farsi attivo portatore, è scritto in una prosa piana, e di grande bellezza e suggestione.
Un cordiale saluto
Salve a me successe che andai da una signora che mi passò la carne sulle mani e dopo 15 giorni circa sparirono.
Che bella storia, interessante e commovente. Certo che le nostre tradizioni hanno molte sfaccettature misteriose e affascinanti allo stesso tempo. Io ho ereditato la "medicina dei porri" dalla buonanima di mio Padre che la regalava con tanto buon cuore a chi la chiedeva. E' un pochino diversa da quella raccontata, ma ho scoperto che esistono svariati modi per liberarsi dei porri senza "bruciarli" con farmaci o altro. Ricordo sempre che, alla domanda di cosa costasse ricevere quella medicina per far sparire tutti i porri, mio Padre rispondeva sempre che era un dono e non voleva paga. Se proprio si voleva fare qualcosa in segno di riconoscenza, raccomandava di fare una ulteriore opera di bene verso un bisognoso senza pretendere nulla in cambio. Lui ne faceva diverse, oltre a quella dei porri, quella per proteggere i campi di grano e di orzo dagli uccelli che li devastavano quando i chicchi erano freschi e loro ne andavano ghiotti. Altra medicina de "su pizziri" che non ho mai ben capito ma se non sbaglio riguardava una malattia che viene ai cavalli. Insomma, la nostra Sardegna è proprio ricca di queste medicine, riti o come si vogliono chiamare. Ma tutti hanno un filo conduttore unico: fare del bene senza chiedere nulla in cambio. Questo è meravigliosamente bello e profondo.
Caro amico grazie dei tuoi scritti, sono stato colpito fuoco di Sant'Antonio potresti per cortesia indicarmi il nominativo e il luogo dove potermi rivolgere ad un segnatore, sto' soffrendo molto le cure della medicina moderna hanno fatto poco o niente Io abito in Sardegna vorrei sapere questo indirizzo ti ringrazio se mi vuoi dedicare del tempo cordialmente Atos
Mia nonna materna (1876) utilizzava un rito analogo, la cosa comune era lo spago. Utilizzava una nenia o formula durante il conteggio dei porri congiuntamente alla realizzazione dei nodi, infine lo spago doveva essere posto in una località dove l'interessato non sarebbe mai passato. La cosa veniva fatta aanche da mia zia (sua figlia) con risultati accertati, ne avevo avuto anchio ed erano scomparsi. La cosa mi ha posto sempre degli interrogativi, senza risposta.
Per cortesia io abito ad Alghero e sto molto soffrendo x il fuoco di S. Antonio. Mi potreste dire dove andare da uno di questi guaritori? Grazie
Ciao nel mio paese a pula ci son 2 persone che fanno la medicina per il fuoco di sant Antonio..io stessa lo avuto circa 4 anni fa, ero un mese che giravo tra ospedali e dottori e nessuno me lha riconosciuto, be mi portarono da questo signore ed io in una settimana sono guarita e senza nemmeno cicatrici
A pula in provincia di cagliari ci sono 2 persone che lo guariscono
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