lunedì, dicembre 29, 2025

PER INVECCHIARE BENE BISOGNA CAMBIARE DIVERSE ABITUDINI. ECCO QUELLE CHE RENDONO LA VECCHIAIA FELICE… O INFELICE.


Oristano 29 dicembre 2025

Cari amici, Per vivere bene la vecchiaia, una delle fasi finali della vita, è fondamentale avere dei comportamenti consoni, che includono le strategie per il benessere fisico (alimentazione sana, esercizio fisico regolare e sonno adeguato), e quelle per il benessere mentale (apprendimento continuo, hobby, volontariato), oltre ad una costante relazione sociale ed emotiva (mantenere relazioni, gestire lo stress, accettare i cambiamenti e chiedere aiuto quando necessario).

L'obiettivo dell’anziano intelligente è, quindi, quello di affrontare la fase della senilità con attenzione e con dignità, vedendo l’avanzare dell’età non come un declino, ma come una ancora valida opportunità di crescita e saggezza. Insomma, per vivere una vita più serena e appagante in questa fase della vita risulta importante imboccare un sentiero nuovo, liberandosi di alcune consolidate abitudini acquisite nel tempo, in quanto limitano il possibile benessere dell’età senile.

Amici, trascorrere, dopo una vita di lavoro anche intensa, una serena e felice vecchiaia, vuol dire avere una mente aperta, una mentalità che accoglie le sfide, smette di guardare indietro, e preparandosi ad un cambio di passo del proprio cammino. Ogni giorno è possibile viverlo convinti di cimentarsi alla ricerca di un nuovo traguardo. Ogni sfida è un’opportunità concreta. Così aumentano motivazione e senso di efficacia, le relazioni diventano un vero supporto, la salute un alleato stabile. Non serve perfezione: serve iniziare, ora, con scelte coerenti e, soprattutto, sostenibili.

Nessuno deve dimenticare che l’invecchiamento è un processo del tutto naturale, caratterizzato dalla progressiva alterazione degli organi e delle loro funzioni. I tempi e i modi con cui l’invecchiamento si manifesta dipendono in gran parte dalle nostre abitudini comportamentali (come per esempio svolgere attività fisica, seguire un’alimentazione equilibrata, non fumare e molto altro), da fattori ambientali (per esempio l’inquinamento, l’esposizione ai raggi UV senza protezione, l’esposizione a sostanze irritanti), oltre che da fattori genetici. Ecco le ABITUDINI (da evitare o da evitare) per giocare al meglio questa partita.

Quanto alle ABITUDINI DA EVITARE (cattive abitudini) ecco le 8 più importanti. 1- Riposo notturno insufficiente. Un buon sonno notturno (almeno 6-7 ore per notte) non solo preserva le facoltà mentali e l’energia fisica, ma contribuisce anche ad apparire più giovani. 2- Eccesso di zuccheri. Consumare troppi amidi e zuccheri è dannoso: innalzano il picco glicemico, promuovendo fenomeni infiammatori. 3- Dieta povera di frutta, verdura e proteine. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica American Journal of Clinical Nutrition ha reso noto che il consumo quotidiano di cibi antiossidanti contenenti vitamina A, vitamina C e vitamina E, insieme al consumo di folati, riduce il processo di invecchiamento cellulare.

4- Consumo eccessivo di alcolici. L’abuso di alcol e il processo di invecchiamento in cattiva salute sono correlati. Nel corso della riunione dell’Alcohol Policy Network For Europe (Apn), i rappresentanti della Commissione europea e dell’Oms hanno chiarito che l’alcol è tra i principali fattori di rischio a livello mondiale e seconda causa di mortalità prematura, di patologie di lunga durata e disabilità in Europa. 5- Fumo. Il fumo fa invecchiare: rende più spenta la pelle del viso e fa accelerare il processo di senescenza di tutto l’organismo. Lo dice l’accorciamento dei telomeri, cioè le estremità dei cromosomi che indicano la capacità della cellula di rigenerarsi e ripararsi e, perciò, della velocità o meno dell’invecchiamento.

6- Sedentarietà. Numerosi studi scientifici, tra cui uno studio pubblicato sulla rivista American Journal of Epidemiology, hanno rilevato che la sedentarietà contribuisce ad accelerare l'invecchiamento dell'organismo. 7- Non utilizzare protezioni solari. L’esposizione frequente ai raggi UV aumenta la presenza di radicali liberi che, come abbiamo detto poco fa, determinano l’invecchiamento precoce della pelle e il possibile sviluppo di tumori. 8- Stress e ansia. Stress e ansia possono accelerare il processo di invecchiamento. Il premio Nobel 2009 per la medicina Elizabeth Blackburn e i suoi colleghi e colleghe sono riusciti a dimostrare che lo stress accelera il processo di invecchiamento cellulare dell'organismo, predisponendolo a patologie cardiovascolari e a un abbassamento delle funzioni immunitarie.

Amici, quanto alla “BUONE ABITUDINI” da seguire, ecco le 8 positive! 1. Attività fisica regolare: dedicare regolarmente del tempo all’esercizio fisico; 2. Evitare le sostanze d’abuso: l’uso continuo o saltuario di sostanze d’abuso, come gli oppioidi, può danneggiare la salute e la longevità. 3. Smettere di fumare: chi smette di fumare prima dei 40 anni, o massimo a 60 anni, può godere di notevoli benefici per la salute e la durata della vita. 4. Gestire lo stress: imparare a gestire lo stress è fondamentale. Organizzazioni come l’OMS forniscono guide su come far fronte allo stress in modo sano.

5. Dieta a base vegetale: una dieta che includa abbondanti alimenti vegetali come frutta, verdura, cereali integrali, legumi e frutta secca a guscio è associata a una maggiore longevità. 6. Limitare il consumo di alcol: limitare il consumo di alcolici, seguendo le raccomandazioni, è cruciale per una vita più lunga. 7. Sonno di qualità: dormire bene è essenziale. Gli adulti dovrebbero mirare a dormire 7-9 ore per notte e adottare buone abitudini per migliorare la qualità del sonno. 8. Coltivare la socialità: mantenere relazioni sociali e interessi può aiutare a mantenere un cervello sano e promuovere una vita più lunga e soddisfacente.

Cari amici, credo che non ci sia nient’altro da aggiungere…

A domani.

Mario

domenica, dicembre 28, 2025

IL SIGNIFICATO DEI NOSTRI SOGNI: IL RUOLO DELL'INCONSCIO, SPIEGATO DALLA PSICOLOGIA.


Oristano 28 dicembre 2025

Cari amici,

Che andiamo a letto più o meno stanchi poco importa: di norma il nostro cervello utilizza il sonno non solo per ritemprarci dalla fatica di un giorno, ma per rielaborare informazioni, consolidare la memoria ed elaborare le nostre emozioni. Lo fa attraverso i SOGNI. Sebbene la loro funzione esatta rimanga un mistero, ci sono diverse teorie in proposito: i sogni aiutano a riorganizzare le esperienze della giornata, a rafforzare i ricordi importanti e scartare quelli irrilevanti, agendo come una sorta di "terapia notturna", necessaria per rielaborare eventi emotivamente forti.

Si, amici, la nostra mente ogni notte intraprende viaggi misteriosi e spesso inspiegabili. I sogni ci accompagnano nella tranquillità del sonno, elaborando il nostro vissuto, ricostruendo quanto da noi svolto, ma in modo particolarissimo, a volte quasi assurdo, spesso straordinariamente diverso dalla realtà vissuta. Sono scenari ed immagini con emozioni anche forti, e ricordi che sfidano la logica del giorno. Ma cosa si nasconde davvero dietro queste visioni notturne? La psicologia studia da tempo questa elaborazione fatta dal nostro cervello, cercando di arrivare a comprendere per bene le motivazioni che creano i sogni.

Una delle esperte dell’argomento è la psicologa, psicoterapeuta Cinzia Sacchelli, Consigliere dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, che, relativamente al mondo dei sogni, ha avuto modo di spiegare le diverse funzioni emotive svolte, i simboli universali utilizzati e i riflessi della nostra vita interiore. I sogni, ha precisato, oltre ad effettuare la rielaborazione delle esperienze quotidiane, riportano alla mente la presenza di persone amate o perdute, facendoci scoprire come il sogno sia molto più di un semplice episodio notturno: è uno specchio del nostro inconscio e una chiave per comprendere meglio noi stessi.

Per la Psicologa e psicoterapeuta prima menzionata, i sogni sono il prodotto di una attività mentale che avviene durante il sonno, in una condizione in cui la persona non esercita operazioni cognitive coscienti e volontarie. I sogni riflettono l’attività inconscia del nostro cervello, che liberamente assembla i contenuti del mondo interno del soggetto: sensazioni, immagini, emozioni, pensieri, paure, desideri, ricordi. Essi svolgono molteplici funzioni: regolano l’emotività durante il sonno, spesso a tutela del riposo, aiutano ad integrare esperienze vissute, specie quelle emotivamente più intense, favoriscono la memoria, l’integrazione di informazioni, l’apprendimento e infine, possono facilitare intuizioni o soluzioni originali a problemi che si stanno vivendo in quel momento.

Il nostro inconscio non conosce il tempo, né i limiti della logica, del senso e della verosimiglianza. I sogni più realistici di solito sono quelli che trattano eventi recenti o situazioni di vita più vicine alla realtà o ricordi autobiografici: hanno una funzione di rielaborazione ed integrazione delle esperienze ed informazioni, di apprendimento e di problem solving. La possibilità di ricordare il sogno dipende dal momento del risveglio, dalla vividezza ed intensità emotiva del sogno, dalla sua rilevanza nella vita della persona.

La storia personale di ciascuno di noi, le nostre esperienze recenti sul contenuto dei sogni, incidono notevolmente sul contenuto dei sogni. Il sogno è il luogo in cui si rimettono in scena, in forma anche spesso bizzarra, le cose che abbiamo vissuto e ci portiamo dentro. È più facile che compaiano nei sogni le situazioni più vive, quelle accadute nelle ultime ore o quelle che dobbiamo affrontare nei prossimi giorni e che ci stanno magari preoccupando. Ma i sogni attingono ai modelli, ai simboli e ai personaggi conosciuti ed interiorizzati nel corso della vita, anche per dar forma a situazioni che emozionalmente la persona sta vivendo nel presente.

Nel sogno la persona reale si trasforma in un personaggio simbolico, un personaggio che può svolgere un ruolo all’interno del copione onirico. Questo avviene in virtù della relazione che si vive con quella persona, per i temi irrisolti nel rapporto, per la sua rilevanza affettiva o perché quella persona può rappresentare qualcosa di significativo: per esempio può impersonare la protezione, o il timore di essere giudicati. Nel sogno ci portiamo dentro le persone che abbiamo incontrato, tanto quanto è stata significativa la nostra storia con loro. E l’inconscio, come prima accennato, ignora il tempo.

Cari amici, la nostra mente è un super-computer che nulla perde, ma rielabora – a modo suo – la nostra vita. Se ci capita di sognare una persona molto cara che abbiamo perso, significa che il legame è stato profondo. Il legame affettivo con quella persona sopravvive alla perdita: cambia forma, ma continua ad essere presente; sognarla, in alcuni casi può aiutare nella graduale accettazione della perdita e nella consapevolezza della permanenza di una relazione interna che continuerà ad accompagnare nel corso della vita. Il sogno, amici, fa parte della nostra vita, è un diario, certo molto particolare, ma che dobbiamo imparare a leggere…

A domani.

Mario

 

sabato, dicembre 27, 2025

LE GENERAZIONI DI IERI E QUELLE DI OGGI. QUELLE CRESCIUTE NEGLI ANNI 60-70 HANNO UNA INDISCUSSA, SUPERIORE, FORZA MENTALE.


Oristano 27 dicembre 2025

Cari amici,

Che di generazione in generazione ci sia sempre stata una certa evoluzione è un dato indiscusso! Ogni nuova generazione, rispetto a quella precedente, si modifica, si evolve, sia culturalmente che tecnologicamente, cambiando i precedenti modelli tradizionali. Un’evoluzione che spesso può, però, non significare un miglioramento lineare: le nuove generazioni, infatti, si trovano ad affrontare sfide diverse, con risorse mentali inadeguate, che comportano delle conseguenze, come ansia e depressione, che li rendono meno capaci di affrontare le nuove sfide che si trovano davanti.

La Psicologia, che studia da tempo questo fenomeno, ha accertato che chi è cresciuto negli anni ’60 e ’70, secondo i dati ufficiali, ha sviluppato diverse forze mentali oggi sempre più rare, praticamente assenti nelle generazioni successive. L’evidenza psicologica è netta: chi ha respirato l’aria degli anni ’60 e ’70 custodisce risorse mentali che l’era touch fatica a replicare. Oggi quelle abilità tornerebbero utili come coltelli affilati in cucina! Capirle in fretta significa capire perché certi boomer restano ancora un passo avanti.

L’interessante ricerca portata avanti quest’anno dal tedesco Max-Planck Institut (I Max Planck Institut sono oltre 80 centri di ricerca di eccellenza focalizzati sulla ricerca di base in scienze naturali, biologiche e umanistiche, diffusi in tutto il mondo, che hanno addirittura contribuito a produrre numerosi premi Nobel dal 1948), ha confermato che la combinazione di stimoli poveri e problemi concreti ha generato nei BOOMER prima accennati, quella resilienza pragmatica, creatività analogica e pazienza da vinile, davvero incredibile. Dentro i laboratori di neuro-imaging il lobo frontale di quella generazione ha mostrato connessioni più fitte nella gestione dell’imprevisto.  

Chi è cresciuto negli anni del dopoguerra affrontava un mondo da ricostruire, più lento, meno protetto, con poche reti di sicurezza istituzionali. Mancava l’assistenza h24, ma abbondavano le occasioni di imparare a cavarsela da soli: una vera palestra per la resilienza. Il risultato si vede oggi quando i settantenni gestiscono un imprevisto con una calma quasi disarmante. Niente smartphone (mancava anche il telefono fisso…), musica ascoltata su radio e dischi in vinile, incontri solo di persona e lettere che arrivavano giorni dopo. Questa lentezza obbligava a tollerare noia e incertezza, due ingredienti che potenziavano la regolazione emotiva. Gli studi longitudinali di Oxford 2012-2024 mostrano minore reattività ansiogena nei boomers proprio grazie a tale esercizio quotidiano!

Si cresceva, allora, educati subito alle responsabilità. A sei/sette anni molti dovevano già preparare il proprio materiale scolastico o correre al negozio per il pane. Queste micro-missioni scolpivano un poderoso locus di controllo interno, cioè la sensazione che il destino dipendeva in parte dalle proprie azioni. Chi possedeva questa convinzione sopportava lo stress con più efficacia, lo conferma la meta-analisi Lancet 2023. I ricercatori di Toronto hanno seguito 4 600 soggetti dal 1995 a oggi: dopo i 60 anni cala del 18 % l’intensità dei picchi d’ansia rispetto alla fascia 30-40. Non è magia della vecchiaia ma somma di esperienza di vita, reti sociali stratificate e routine corporee più attive. La camminata da tre chilometri al giorno, normale negli anni Settanta, capace oggi di ridurre il rischio di depressione del 22 %, secondo WHO Europe.

Amici, perché oggi la generazione dei Boomers (a cui io orgogliosamente appartengo) appare come invincibile? Perché siamo stati abituati alla responsabilità fin da bambini, perché abbiamo imparato ad aspettare, a non avere fretta, a cercare da soli la soluzione; perché abbiamo affrontato, con il nostro cervello e le nostre capacità, tutte le prove che la vita ci ha dato, senza ricorrere agli altri. Abbiamo imparato a vivere di poco, anche di solo pane (che spesso mancava…) e a costruire i giocattoli quando (quasi sempre...) non li avevamo!

Cari amici, cosa possiamo sperare per le nuove generazioni? Gli psicologi parlano di plasticità: nessuna generazione è condannata a fragilità eterna o a forza perpetua. Programmi scolastici che reintroducono la manualità, vie ciclabili urbane, detox digitale settimanale, sono già stati sperimentati a Berlino e Milano con ottimi risultati. Se tali pratiche diventeranno un’abitudine, i ventenni di oggi potrebbero stupire per un ritrovato equilibrio emotivo nel 2080! Sarà così? Forse, ma chissà!

A domani.

Mario

venerdì, dicembre 26, 2025

C'È UN'AZIENDA DI CUI POCO SI PARLA, ALQUANTO RISERVATA MA POTENTISSIMA, È LA “PALANTIR”. IL SUO COMPITO? SORVEGLIARE L’OCCIDENTE.


Oristano 26 dicembre 2025

Cari amici,

In un mondo sempre più conflittuale, dove si tenta di far prevalere la legge del più forte, per garantire la necessaria tranquillità sono sempre più necessari controlli stringenti per bloccare gli operatori del terrore. Una delle strutture operative su questo fronte è la “PALANTIR”, una realtà di cui non si parla molto, in quanto la sua attività è molto riservata. Nata dopo l'11 settembre per aiutare la CIA a dare la caccia ai terroristi autori dell’assalto alle Torri Gemelle, questa società (privata) oggi collabora, con l’aiuto dell’Intelligenza Artificiale (l'AI), alla preparazione di guerre di difesa, oltre ad operare sulla gestione di sanità e logistica dei Paesi occidentali. Un compito mica di poco conto, per cui la riservatezza risulta chiaramente d’obbligo, Tra sussurri e grida, tra accordi più o meno segreti e accuse di sorveglianza di massa, cerchiamo di capire insieme chi è davvero la Palantir.

La società è stata fondata da Peter Thiel e Alex Karp, due figure chiave della Silicon Valley. Il primo, che è anche cofondatore di PayPal, è un imprenditore miliardario, vicino alla nuova destra americana, il secondo, attuale CEO di Palantir, ha fondato in età giovanile la Caedmon Group, una società di gestione di investimenti, successivamente chiamato da Thiel a fondare con lui proprio la Palantir. Questa startup, nata nel 2003 come società di data mining per combattere la “guerra al terrore”, dopo l'attacco alle Torri Gemelle, è diventata oggi un'infrastruttura software che si insinua nei punti nevralgici di Stati, eserciti e grandi aziende per la raccolta dei famigerati Big Data.

Il curioso nome dato dai fondatori alla società  deriva dal termine PALANTIRI, un termine usato per le pietre veggenti che troviamo nel mondo immaginario dei libri di J.R.R Tolkien, il noto scrittore (tra gli altri...) del libro "Il Signore degli Anelli". Nell'immaginario mondo di Tolkien, chi possedeva questa pietra nera di cristallo poteva osservare la realtà da lontano. Sauron, l'Oscuro Signore di Mordor, il malvagio e potentissimo antagonista della saga, utilizzava il Palantiri per controllare e manipolare i suoi servi. Oggi questa azienda rappresenta il crocevia più emblematico tra A.I, difesa e governance dei dati dell'Occidente, molto più influente di quanto suggerisce la sua scarsa esposizione. Diventata in pochi anni uno dei nomi più discussi della nuova corsa all’Intelligenza Artificiale, nonostante sia rimasta a lungo nell’ombra rispetto a colossi come Nvidia, Meta o Amazon. È proprio nel nome Palantiri - Coloro che sorvegliano da lontano – che è racchiusa (forse) la sua vera natura.

Ma in cosa opera nel dettaglio la società Palantir? Al netto delle slide marketing, Palantir vende piattaforme software – Gotham, Foundry, Apollo e AIP – che servono a prendere dati frammentati, spesso incompatibili tra loro, e trasformarli in scenari operativi e flussi d'azione per chi deve decidere. Gotham è il cuore del Palantir 'da guerra': viene usato in teatri come Iraq, Afghanistan e, più recentemente, nei contesti mediorientali e ucraini per integrare intelligenza sul campo, immagini satellitari, log di droni e archivi militari. La stessa logica vale per operazioni antiterrorismo, programmi di contro-insurrezione e supporto ai comandi con strumenti di simulazione e targeting.

Foundry, invece, parla il linguaggio delle fabbriche, delle banche e degli ospedali: qui l'idea è creare un “gemello digitale” dell'organizzazione, con linee produttive, fornitori, pazienti o asset finanziari rappresentati come oggetti collegati tra loro da relazioni e flussi. Su questo gemello digitale si costruiscono applicazioni per previsione della domanda, manutenzione predittiva, ottimizzazione logistica o analisi cliniche, spesso con integrazione diretta di modelli di AI e motori di ottimizzazione.

Apollo è il layer che tiene tutto in piedi dal punto di vista DevOps: un sistema di delivery continuo che consente di distribuire e aggiornare Gotham e Foundry in ambienti ibridi – cloud pubblici, infrastrutture on premise ultra sicure, Edge in teatri bellici – gestendo policy e vincoli di connettività. AIP (Artificial Intelligence Platform) è il “collante AI”: collega LLM e altri modelli al dato reale dell'organizzazione, permettendo di costruire agenti, automazioni e applicazioni generative mantenendo il controllo su permessi, audit, mascheramento e tracciabilità delle decisioni.

Durante la pandemia, Palantir è uscita dai circuiti militari per entrare a pieno titolo nella gestione delle emergenze sanitarie: negli Stati Uniti; i suoi sistemi sono stati usati per tracciare contagi, disponibilità di letti e logistica dei vaccini, consolidando relazioni con agenzie federali della salute. Nel Regno Unito, la società si è aggiudicata il maxi-contratto per la Federated Data Platform del NHS England, uno strato di integrazione che deve unificare dati clinici e gestionali per agire su liste d'attesa e pianificazione delle risorse.

In Europa il nome Palantir emerge ad intermittenza nel dibattito su difesa, intelligence e gestione dei dati sanitari e fiscali, spesso oscillando tra la fascinazione per l'efficienza promessa e l'allarme per il potenziale invasivo di queste tecnologie. L'insieme di contratti con la NATO, progetti con governi europei e ambizioni nel mondo industriale alimenta il dibattito sulla sovranità dei dati, soprattutto in un'unione che a parole punta sull'autonomia strategica ma fatica a produrre alternative domestiche competitive. Per l'Italia, il coinvolgimento diretto a livello governativo è ancora relativamente limitato, ma alcuni grandi gruppi hanno iniziato a sperimentare Foundry per progetti di trasformazione digitale e gestione di supply chain complesse.

Cari amici, i sistemi di protezione adottati da PALANTIR, in particolare quelli più avanzati come questo, hanno, comunque, un prezzo da pagare: in primis uno spostamento progressivo del baricentro delle democrazie verso una governance guidata da sistemi opachi, difficile da valutare e spesso impermeabili al controllo parlamentare o della magistratura. La vera partita, soprattutto per Paesi come l'Italia, non è solo se abbracciare o meno Palantir, ma con quali vincoli normativi, quali obblighi di trasparenza, quali alternative tecnologiche – magari europee – e quanta capacità di dire “no” ad una simile infrastruttura che rischia di diventare, per inerzia, il nuovo standard di fatto del potere pubblico e privato. A volte il prezzo da pagare risulta davvero alto!

A domani.

Mario

giovedì, dicembre 25, 2025

PSICOLOGIA DEL DONO: COSA SPINGE LA SPECIE UMANA A FARE E SCAMBIARSI REGALI, QUALI LE MOTIVAZIONI?


Oristano 25 dicembre 2025

Cari amici,

Oggi è NATALE! In primis faccio tanti auguri a Voi, amici che mi leggete, sia per le feste di fine anno che per il NUOVO ANNO in arrivo. È questo un periodo particolare, dove tutti sentono il bisogno di donare, una tradizione che si perde nella notte dei tempi. Non si ha una data precisa, ma certamente era già presente nelle società primitive, dove il dono era un meccanismo fondamentale per creare e consolidare legami, scambiare beni e stabilire relazioni sociali. Sulle origini del dono Marcel Mauss, antropologo, sociologo e storico delle religioni, massimo esponente francese della scuola di Émile Durkheim, ha concentrato i suoi studi, arrivando a creare la “Teoria del dono”, evidenziandone la magia, che si manifesta in quei gesti volontari e altruistici che creano positive relazioni sociali.

Oggi, nella cultura contemporanea, il dono è diventato un rituale onnipresente: compleanni, feste, ricorrenze, celebrazioni, e tante altre occasioni create ad hoc. Si, amici, dietro ogni regalo – dato o ricevuto – si muovono dinamiche psicologiche profonde, spesso inconsapevoli, che rivelano bisogni emotivi, desideri e insicurezze. Capire queste dinamiche permette di avvicinarsi al gesto del donare con maggiore consapevolezza, autenticità e libertà.

In realtà il gesto del donare è molto di più di un semplice scambio di oggetti: è il frutto di un linguaggio emotivo, contenente un codice relazionale che parla di appartenenza, riconoscimento e legame. Il bisogno di donare scaturisce dal desiderio di consolidare la continuità relazionale. Regalare qualcosa a qualcuno potrebbe voler comunicare: “Ti vedo, ti penso, fai parte della mia vita”. Il dono stabilizza il legame, crea un ponte emotivo, conferma uno stare insieme reciproco nel mondo dell’uno nell’altro. È un modo per tenere viva la relazione, per ricordarla e confermarla.

Amici, però, non sempre il dono è un gesto spontaneo. A volte diventa uno strumento per mantenere un certo ruolo importante. Alcune persone regalano per far aumentare la considerazione nei loro confronti, per essere considerate premurose, indispensabili e generose; il regalo allora diventa il veicolo attraverso cui si esprime – o si protegge – o addirittura si cerca di migliorare la propria immagine. Donare, in questi casi, non è solo un gesto affettivo, ma un modo per garantirsi una certa posizione privilegiata all’interno della relazione. Può anche accadere che il dono venga utilizzato dal donante per “compensare” ciò che non è riuscito a comunicare verbalmente. Il regalo allora può diventare una scorciatoia emotiva: “ti faccio un regalo perché non riesco a dirti quello che provo”, oppure “ti compro qualcosa per non affrontare un conflitto”. In questi casi, però, il gesto perde autenticità e si trasforma in una strategia per evitare la vulnerabilità o l’esposizione emotiva.

Un’altra ipotesi di donazione è quella derivante dalla paura di non essere dimenticati: il dono, allora, serve a farsi ricordare, a dire all’altro che ci siamo, che esistiamo, e così evitiamo di essere trascurati, non considerati abbastanza. Offrire qualcosa in dono diventa allora un tentativo di assicurarsi l’affetto dell’altro oppure a mitigare l’ansia di non valere. Il dono assume in questi casi una funzione rassicurante: un modo per “tenere vicino” chi si teme possa allontanarsi.

Amici, anche il bisogno di ricevere un regalo ha una dimensione psicologica profonda. Ricevere conferma la nostra identità: “valgo abbastanza da essere pensato, considerato”, “merito attenzione”. Il dono rafforza l’immagine di sé e contribuisce alla costruzione di un senso di sicurezza affettiva. Il valore percepito del regalo attiva dinamiche legate alla validazione: più il dono viene ritenuto significativo o pensato appositamente per noi, più ci sentiamo importanti.

Cari amici, come accennato in premessa oggi è Natale ed è in arrivo Capodanno, per cui un po’ tutti siamo trafelati per scambiarci gli ultimi regali che ancora non siamo riusciti a fare. Ed è proprio sotto queste feste che la pressione sociale del regalare, aumenta vertiginosamente. In questi periodi, spesso, il reale significato del dono va in soffitta. Per molti, infatti, i regali vengono portati solo per non arrivare a mani vuote, ed è proprio allora che perdono la reale natura affettiva per cui sono nati, diventando un semplice dovere sociale. Sono questi i travisamenti dello scopo originario: quello del dono, nato come simbolo di relazione, che si trasforma in un semplice omaggio, spesso fonte di stress, che impoverisce sia chi lo dona che chi lo riceve.

A domani.

Mario

mercoledì, dicembre 24, 2025

IL NOSTRO CERVELLO? NON FINISCE MAI DI ACQUISIRE NUOVE ABILITÀ, PERCHÉ CONTINUA AD AGGIORNARSI PER TUTTA LA VITA. ALLENIAMO, DUNQUE, OGNI GIORNO IL NOSTRO CERVELLO.


Oristano 24 dicembre 2025

Cari amici,

Il nostro CERVELLO non è un organo statico, che, dopo aver acquisito inizialmente quanto necessario, ovvero aver raggiunto una certa maturità, sta fermo ad osservare il procedere della nostra vita. È proprio tutto il contrario! Questo nostro organo è straordinariamente curioso e creativo, e, come un alunno diligente, è pronto ad imparare sempre nuove abilità. Insomma, il nostro cervello non ha mai pensato di mettersi in pensione, perché continua ad aggiornare, giorno dopo giorno, le sue capacità per tutta la vita.

Sta dunque a noi, amici lettori, utilizzare al meglio le capacità del nostro cervello, sfruttando le sue potenti funzioni cognitive. Si, il nostro compito è quello di «allenare la nostra mente» in vario modo, perchè le sue prestazioni possono essere da noi migliorate durante tutta l’esistenza e, di rimando, noi possiamo usufruire di questa sua capacità di aggiornarsi godendone anche in età avanzata, supportandoci e dandoci anche risultati alquanto gradevoli.

La realtà, amici, è che dovremmo costantemente adottare questo «esercizio cerebrale» allo stesso modo come facciamo con il nostro quotidiano esercizio fisico, che ci consente di tenere in forma il nostro corpo. Il meglio sarebbe abbinare, accoppiare l’esercizio fisico a quello mentale, il cosiddetto «brain endurance training», un allenamento mentale e di resistenza sperimentato di recente da ricercatori dell’Università di Birmingham, nel Regno Unito, con buoni risultati sulle performance cognitive e fisiche anche in chi non è più giovanissimo. I ricercatori hanno utilizzato dei volontari, un gruppo di donne sedentarie di oltre 65 anni; per 8 settimane queste persone si sono allenate con 20 minuti di esercizi cognitivi di vario tipo, seguite da 20 minuti di allenamento di resistenza con pesi e 25 minuti di allenamento aerobico; il miglioramento delle prestazioni cerebrali è stato di circa l’8%, quello delle performance fisiche di circa il 30%, in entrambi i casi superiore a quello che si è ottenuto in chi ha allenato solo il corpo.

Insomma, l’allenamento misto di corpo e mente è risultato alquanto positivo, in quanto anche il cervello si allena proprio come un muscolo, usandolo attraverso lo studio e l’attività cognitiva assidua: grazie agli stimoli a cui è esposto (lettura, conversazioni, danza o altro: tutto è utile); il cervello, dunque, aggiorna di continuo le conoscenze precedenti, formando nuove connessioni e vie di comunicazione fra i neuroni. Quanto più è plastico e veloce nel farlo, in risposta ai nuovi bisogni, tanto più lavora meglio. Come la ginnastica fortifica i muscoli, così una buona e costante attività mentale mantiene in salute il cervello.

Come spiega Alessandro Padovani, Presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN), «L’inattività, invece, lo indebolisce. Il cervello è come un atleta: si può nascere con muscoli forti, ma non si diventa campioni senza un allenamento che migliori tutte le caratteristiche indispensabili ad arrivare al traguardo. A un centometrista, per esempio, occorrono muscoli forti ma anche veloci ed elastici, sostenuti da legamenti efficienti e una postura perfetta. Lo stesso vale per il cervello: l’intelligenza intesa come quoziente intellettivo non basta, tutte le componenti si possono e devono allenare con attività intellettive di ogni genere».

Tutto questo, però, entro certi limiti. Gli allenamenti, sia del corpo che della mente, vanno fatti senza esagerare, perché, come per l’allenamento muscolare, il superlavoro cerebrale può avere effetti deleteri: lo stress per richieste eccessive, attraverso ormoni come il cortisolo, impedisce per esempio la sedimentazione della memoria e compromette l’apprendimento. «Guai anche a “intasare” il cervello con troppe informazioni pensando di stimolarlo: se sono continuamente “sovrapposte”, finiamo per creare confusione», dice l’esperto.

Allora ci chiediamo: Quali sono gli esercizi giusti per tenere in forma il nostro cervello? «Così come muscoli diversi devono essere potenziati tramite allenamenti differenti, allo stesso modo il cervello ha varie capacità da esercitare: memoria, attenzione, concentrazione, linguaggio, logica, creatività, ragionamento e così via», afferma Alessandro Padovani. Stimoliamo, dunque ogni giorno il nostro cervello: ad esempio con le parole crociate, leggendo un buon libro, imparando a suonare uno strumento, oppure studiando una nuova lingua; sempre, comunque, senza mai trascurare la relazione sociale.

Cari amici, dobbiamo tenere sempre «impegnato» il nostro cervello ad ogni età, riducendo i comportamenti abitudinari e dedicandoci a nuove esperienze, rafforzando in questo modo la rete delle connessioni fra i neuroni e creando una riserva cognitiva consistente, alquanto utile con l’andare degli anni. È grazie a questa riserva di «contatti» fra cellule, infatti, che è possibile garantire il funzionamento delle connessioni e rimpiazzare (almeno in parte) funzioni venute meno per l’invecchiamento delle cellule nervose. Continuare ad allenare il nostro cervello ci consentirà una vecchiaia attiva, più lunga e sana.

A domani.

Mario