sabato, novembre 22, 2025

I MAYA E IL GRANDE MISTERO DELLA LORO SCOMPARSA. RECENTI RICERCHE SOSTENGONO CHE LA COLPA È DA ATTRIBUIRE AI CAMBIAMENTI CLIMATICI.


Oristano 22 novembre 2025

Cari amici,

La terra su cui viviamo, vecchia di milioni di anni, nel corso della sua esistenza ha avuto non pochi cambiamenti climatici. Anche nel lontano passato, si sono alternati cicli naturali di riscaldamento e raffreddamento, con notevoli variazioni di clima. Ciò dimostra che i “CAMBIAMENTI CLIMATICI” si ripetono nel tempo. Si, anche quelli di oggi, che sono fonte di grande preoccupazione, stanno modificando in modo pericoloso l’equilibrio prima esistente. Il cambiamento in corso, però, a detta degli esperti, si sta verificando ad una velocità senza precedenti, con l'aumento delle temperature globali e la concentrazione di gas serra ai massimi livelli degli ultimi due milioni di anni, principalmente a causa delle attività umane.

In passato, così affermano gli studiosi, intere civiltà scomparvero dalla faccia della terra proprio a causa delle forti variazioni climatiche, incompatibili per il proseguimento della vita nei luoghi fortemente colpiti dai cambiamenti, con allagamenti, desertificazioni e altri cambiamenti insopportabili. Una delle grandi civiltà che nel passato scomparve, per esempio, fu quella del popolo dei “MAYA”, e le cause della loro scomparsa non sono mai state chiarite con certezza, anche se, quasi sempre, le cause possono essere attribuite ai cambiamenti climatici.

Focalizzando l’attenzione sui “MAYA”, un nuovo studio, pubblicato su Science Advances da un gruppo di ricercatori statunitensi, messicani e britannici, guidati dall’University of Cambridge, relativamente alla loro scomparsa, rilancia con forza un’ipotesi già discussa negli anni ’90, ovvero che la causa principale che li fece scomparire sia proprio da attribuire ai cambiamenti climatici avvenuti in quel periodo. Quali le prove rinvenute dai ricercatori? Quelle trovate nascoste nelle stalagmiti presenti sul fondo di un’antica grotta messicana.

Amici, capire le motivazioni della fine della civiltà Maya, una delle più raffinate e potenti del mondo antico, avvenuta fra l’871 e il 1021 d.C., è uno dei quesiti che per lungo tempo hanno tormentato gli studiosi. Essi si sono a lungo domandati: perché gli abitanti smisero improvvisamente di costruire i loro magnifici monumenti? E perché le grandi città-stato disseminate nello Yucatán e nel Guatemala furono progressivamente abbandonate, portando a un drastico calo della popolazione?

Lo studio prima menzionato, pubblicato il 13 agosto su Science Advances, rilancia con forza proprio l’ipotesi prima citata: che fu un importante “shock climatico" a portare al collasso di quella grande civiltà. Oggi, infatti, si dà per certo, in base ai ritrovamenti prima evidenziati, che a distruggere la civiltà dei Maya furono proprio i terribili cambiamenti climatici, con l’arrivo di siccità prolungate, ripetute e devastanti, che prima misero in difficoltà la popolazione, fino ad infliggere il colpo di grazia che li fece quasi scomparire.

Il gruppo di ricerca e studio, coordinato dal paleoclimatologo Daniel H. James del Godwin Laboratory di Cambridge, per arrivare a questa certezza, ha esplorato meticolosamente le GRUTAS TZABNAH, le antichissime grotte nella penisola messicana dello Yucatán, poco distanti da importanti siti Maya come Chichén Itzá. Qui, nascosto nelle viscere della roccia, hanno trovato uno straordinario archivio naturale del clima passato: una stalagmite che ha conservato, strato dopo strato, le tracce chimiche delle precipitazioni di secoli fa.

È noto che una stalagmite si forma quando l’acqua che gocciola dal soffitto di una grotta deposita sul pavimento i minerali in essa disciolti; lentamente ma inesorabilmente, con il passare dei secoli, i minerali contenuti si accumulano, fino a formare grandi strutture che s’innalzano dal basso verso l’alto, al contrario delle stalattiti che pendono dalla volta delle grotte. Analizzando la stalagmite catalogata come Tzab06-1, gli scienziati hanno scoperto delle vere e proprie “cicatrici chimiche” lasciate dalle siccità. Al completamento dei minuziosi studi, i dati analizzati dai ricercatori hanno evidenziato con chiarezza che in meno di due secoli si erano verificati almeno otto periodi di siccità estrema, ciascuno durato oltre 3 anni, con quello più lungo durato addirittura 13 anni! Per i Maya fu una catastrofe! Per essi, dipendenti da complessi sistemi idrici artificiali e da un’agricoltura strettamente legata al ciclo delle piogge, questa sequenza eccezionalmente negativa fu un disastro. La scarsità dei raccolti provocò carestie, malnutrizione, conflitti interni e guerre per il controllo delle risorse residue, sconvolgendo pesantemente la struttura sociale.

In una carestia così accentuata, con il popolo che era in costante conflitto, le potenti élite religiose e politiche, che fondavano il loro prestigio sulla capacità di garantire ordine e prosperità, iniziarono a perdere credibilità e potenza. La popolazione era arrivata oramai allo stremo, mentre il commercio si disgregava. Dopo una iniziale resistenza, alla fine, con il popolo oramai alla fame, privato anche del minimo sostentamento  e in presenza di una inesistente coesione sociale, le grandi città vennero progressivamente abbandonate.

Cari amici, i MAYA, una volta abbandonate le grandi città, cercarono nuova vita spostandosi altrove per sopravvivere. Fu un lento sgretolamento della loro civiltà. La mancanza di una valida soluzione agricola, oltre a quella di stabilità sociale ed economica, portò, nel giro di pochi decenni, all'abbandono quasi totale delle grandi città Maya tra il IX e il X secolo. Seppure non fu un'estinzione totale, la civiltà Maya subì un forte, triste declino; i superstiti cercarono di salvare la loro cultura trasferendosi in  altre aree, in particolare nella penisola dello Yucatan. Ma era ben poco, rispetto al loro grande passato!

A domani.

Mario

venerdì, novembre 21, 2025

ALBERI FRUTTIFERI ANTICHI E LONGEVI: IL PISTACCHIO. MOLTO DIFFUSO IN SICILIA, È NOTO COME “L’ORO VERDE DI SICILIA”.


Oristano 21 novembre 2025

Cari amici.

Il PISTACCHIO dal greco Pistàkion è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle Anacardiaceae e del genere Pistacia. E' una pianta originaria del bacino del Mediterraneo, e le prime coltivazioni risultano effettuate in Persia, in Siria e nell'India, dove il frutto era chiamato in modi differenti: pistakia, bistachion e pistakion. Albero antichissimo, lo troviamo menzionato addirittura nell’Antico Testamento. Il Pistacchio è un albero maestoso, che può raggiungere un’altezza anche di 11-12 metri; è alquanto longevo, tanto che alcuni alberi possono arrivare a vivere anche 200 anni.

Come altri alberi in natura, il pistacchio è una pianta dioica, nel senso che, per produrre frutti, sono necessarie sia la pianta maschile che femminile. Il frutto di questa pianta è una drupa con un endocarpo ovale, con il guscio sottile e duro contenente il seme, chiamato anch’esso pistacchio. Sotto la robusta buccia violacea il seme è di un colore verde vivo. Ben acclimatata in Italia, la pianta del pistacchio è coltivata in modo eccellente in Sicilia, dove pare sia arrivata portata dagli arabi. La raccolta dei frutti viene effettua solitamente ogni due anni, tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, in quanto il ciclo produttivo della pianta è biennale.

La zona ideale per la coltivazione di questa pianta è quella posta alle pendici dell’Etna, in particolare il territorio di Bronte, dove ha trovato eccellenti condizioni ambientali per crescere. Nella nostra isola maggiore il pistacchio, che da tempo ha “conquistato” anche i mercati europei, è più noto come “’Oro Verde di Sicilia”, in quanto le richieste sono addirittura superiori alla produzione. Quello di Bronte, come prima accennato, è il più richiesto per la sua bontà, in quanto cresciuto in un terreno ideale, concimato in modo naturale dalle ceneri del vicino vulcano, l’Etna, che ne favorisce la qualità.

Amici, BRONTE, centro in Provincia di Catania, è ormai da anni città così rinominata da essere definita “la città del pistacchio”. Questi semi, così graditi e ricercati, si presentano con sfumature violacee all’esterno e un caratteristico colore verde smeraldo all’interno. È facile riconoscerli i pistacchi di Bronte, rispetto a quelli coltivati in altre zone, perché si differenziano per il loro gusto dolciastro, oltre che per il loro particolare aspetto. Ecco le altre zone italiane dove esistono altre importanti coltivazioni; sono soprattutto nel Meridione: rinomati sono anche i pistacchi di Adrano, sempre sulle pendici dell'Etna, quelli di Raffadali, e i pistacchi di Stigliano, in provincia di Matera, la cui produzione è tra le più vaste a livello europeo.

I Pistacchi si raccolgono rigorosamente a mano: vengono scossi i rami, facendo cadere le drupe su dei teli posti a terra. Una volta raccolto, il pistacchio viene prima fatto asciugare, poi bisogna togliere il mallo che ricopre il guscio legnoso, infine si fa seccare per consentire la conservazione per un lungo periodo a cui segue la vendita. I pistacchi vengono utilizzati sia sgusciati sia pelati, spesso tostati e salati. L’uso è alquanto ampio: dalla pasticceria, alla preparazione dei gelati, dalle creme alle bevande, e, non ultimo, l’utilizzo per la produzione di salumi, o come condimento per primi e secondi piatti. Quanto alla composizione e ai valori nutrizionali, i pistacchi sono formato per il 55-60% da lipidi, per il 18-22% da proteine e per il 4-6% da carboidrati. Contengono anche sali minerali e molte vitamine.

L'Italia è oggi un grande produttore di Pistacchi: è passata da una produzione di 2.400 tonnellate nel 2005 a 2.850 tonnellate del 2012, diventando il settimo produttore al mondo. Il prezzo del pistacchio viaggia su prezzi alti nel mercato: si aggira tra i 30 e i 50 euro al chilo all’ingrosso, per arrivare a 100 euro al dettaglio. Da questo si evince il perché della denominazione “oro verde di Sicilia”. In un anno di buona produzione si raccolgono dai 4 ai 4,5 milioni di pistacchi. Sono quasi 4 mila gli ettari di terra occupati dai pistacchieti.

Cari amici, secondo studi scientifici consumare con moderazione i pistacchi fa bene alla salute. Alcune molecole presenti nel pistacchio aiutano a proteggere la salute cardiovascolare, possono risultare utili contro l’ipercolesterolemia e anche per ridurre le infiammazioni. Altre ricerche hanno associato ai pistacchi benefici in termini di controllo del peso e del livello di zuccheri nel sangue. Infine, questi semi sono ideali come spuntino dopo lo sport; i loro nutrienti aiutano infatti a soddisfare i fabbisogni dell’organismo dopo l’attività fisica. E allora, amici lettori, “viva il pistacchio”, ma consumato con moderazione!

A domani.

Mario

giovedì, novembre 20, 2025

“TENIAMO ACCESA LA MENTE NON IL CELLULARE”. LA POSITIVA RIFLESSIONE DEL CELEBRE PSICHIATRA VITTORIO ANDREOLI, NEL SUO RECENTE LIBRO “CIASCUN UOMO PUÒ CAMBIARE”.


Oristano 20 novembre 2025

Cari amici,

Viviamo in un'era ipertecnologica, nella quale, in particolare il cellulare, sta sempre più fagocitando la nostra mente, diventandone in buona parte il sostituto. Ciò, in realtà, sta pericolosamente aumentando la  dipendenza da questo strumento tecnologico, arrivando a compromettere seriamente l’utilizzo delle nostre capacità mentali. L’abitudine a ricorrere al nostro smartphone aumenta giorno dopo giorno, e, in apparenza, ci gratifica, liberandoci dallo sforzo di impegnare la nostra mente nelle diverse ricerche. Si, lo smartphone è progettato proprio per essere accattivante e, in un certo senso, risultando soddisfacente.

Il nostro smartphone ci accompagna notte e giorno. Ogni notifica, ogni "mi piace" su un post, ogni messaggio ricevuto, innescano nel nostro cervello una piccola scarica di dopamina, il neurotrasmettitore associato al piacere e alla gratificazione. Questo meccanismo di ricompensa intermittente ci spinge a controllare continuamente il telefono, creando un circolo vizioso che può facilmente sfociare in una vera e propria dipendenza. Le conseguenze, però, non sono di poco conto: alimentano il circolo vizioso della dopamina, mettendo a rischio la nostra salute mentale.

I primi, pericolosi sintomi sono l’ansia e stress. La costante necessità di essere online e di non perdersi nulla (la famosa FOMO, Fear Of Missing Out) innesca il circuito che ci crea ansia. L'idea di non avere il telefono a portata di mano, o di non poter rispondere immediatamente a un messaggio, può provocare uno stato di stress continuo. Che dire, poi, della nostra capacità di concentrazione: la nostra attenzione, frammentata dalle continue notifiche, diventa meno profonda. L'abitudine a passare rapidamente da un'app all'altra riduce la nostra capacità di concentrazione su un singolo compito per lunghi periodi, con un impatto negativo sulla produttività e sull'apprendimento.

Il celebre psichiatra VITTORINO ANDREOLI, nel suo nuovo libro “Ciascun uomo può cambiare. Breviario per riscoprire la nostra civiltà (edizioni Solferino)”, lancia un appello urgente e visionario: recuperare i principi fondanti dell’umanesimo per non perdere l’anima della nostra civiltà. Il suo è un dialogo intimo sul cambiamento, la bellezza, la rabbia collettiva e il potere della fragilità: «Il cervello va tenuto acceso, non in tasca. È il cellulare che va messo via. La mente deve tornare a essere il centro dell’esistenza». Andreoli, da buon psichiatra, sottolinea che il nostro straordinario cervello, non può e non deve essere trascurato, messo da parte dall'uso continuo e smodato dello smartphone; bisogna riportare la mente al centro dell'esistenza, invece di delegare le funzioni a questo tecnologico dispositivo.

Amici, nel libro Andreoli avverte che LO SMARTPHONE, erede del cellulare, rischia seriamente di sostituire il nostro cervello, trasformandolo in uno strumento che memorizza e calcola, ma non produce pensieri originali o sentimenti complessi. Iniziare la giornata con  l'uso dello smartphone, ad esempio appena svegli, può sommergere il cervello con troppe informazioni banali o stressanti, generando ansia e tecnostress. La sua presenza costante ci disconnette dal mondo: Si rischia di vivere un'esperienza superficiale, basata sulle emozioni mediate dal digitale, facendoci perdere la capacità di creare legami affettivi profondi, ovvero i "sentimenti", che richiedono un cervello che elabora e non solo reagisce agli stimoli.

Se, invece, riprendiamo ad utilizzare seriamente il nostro cervello, ne ricaveremo grandi benefici: inizieremo a riscoprire e coltivare le sue grandi capacità, attraverso la riflessione, l'interazione e l'attività intellettuale, piuttosto che continuare ad affidarci alla passività di un dispositivo elettronico pieno di notizie ma di certo senz’anima. I principi su cui poggia la nostra identità umana (giustizia, bellezza, senso del limite, rispetto della vita), con l’uso smodato della tecnologia stanno scomparendo. E con essi, il nostro futuro.

Cari amici, il libro di Vittorino Andreoli prima citato, è, anche a mio avviso, un’analisi profondamente umana, non solo un saggio psicologico; insomma, è una vera liturgia dell’esistenza: un percorso quotidiano per invitare a riconnetterci con le radici dell’umanesimo, ritrovare orientamento, rieducarci, utilizzando sempre il nostro immenso, inimitabile cervello, vera forza della nostra vita! Scrive Andreoli nel libro: «L’idea è che ciascun uomo può cambiare, davvero. E che la civiltà, se la vogliamo, può ancora rinascere. Ma dobbiamo tornare a prenderci cura del pensiero, della parola, della relazione. Siamo nati per essere grandi. Non c’è scritto da nessuna parte che dobbiamo rimpicciolirci. Basta davvero poco: una scintilla, una lettura, un gesto. È da lì che si comincia. Sempre». Parole sante, amici lettori!

A domani.

Mario

mercoledì, novembre 19, 2025

IL SERIO PROBLEMA DELLO SMALTIMENTO DELLE SCORIE NUCLEARI. ECCO L'INNOVATIVO METODO DELLA VETRIFICAZIONE.


Oristano 19 novembre 2025

 Cari amici,

Che L’ENERGIA NUCLEARE sia una fonte energetica di grandissima potenza è certamente un dato di fatto! Ha, però, una contropartita difficilissima da gestire: LE SCORIE. Come smaltire questi residui della produzione di energia, ovvero occuparsi della gestione delle scorie nucleari, è una delle sfide più complesse da affrontare, stante la transizione energetica, sia per la pericolosità dei materiali coinvolti, sia per i tempi lunghissimi della loro radioattività residua. Ebbene, dopo gli innumerevoli tentativi portati avanti per creare dei luoghi particolari per la custodia in sicurezza di queste scorie,  sta prendendo piede un nuovo sistema, che appare come una soluzione promettente.

Questo metodo innovativo, consistente nel la “VETRIFICAZIONE DELLE SCORIE”, si avvale di una tecnica avanzata che risulta altamente efficace, e consiste nell’immobilizzazione dei rifiuti nucleari all’interno di una matrice vetrosa, capace di inglobare gli elementi radioattivi e renderli chimicamente stabili. Questa metodologia garantirebbe la sicurezza a lungo termine dei depositi appositamente creati, evitando la dispersione delle sostanze pericolose nell’ambiente. Ma vediamo nel dettaglio come avviene la vetrificazione delle scorie, come funziona e come sfruttarla per un futuro più sicuro.

Amici, il vetro, per le sue proprietà strutturali e la sua durabilità, può essere considerato non solo un contenitore, ma anche un vero e proprio scudo contro le radiazioni. La VETRIFICAZIONE è un processo chimico-fisico che consente di trasformare le scorie nucleari ad alta attività radioattiva in un materiale vetroso stabile e resistente. Il principio alla base della tecnica è semplice ma altamente ingegnerizzato: il materiale radioattivo viene miscelato con vetro borosilicato e portato a temperature elevatissime, intorno ai 1.100-1.200 °C. A queste condizioni, la miscela fonde e una volta raffreddata forma un solido vetroso in cui gli isotopi radioattivi vengono intrappolati all’interno della struttura disordinata del vetro.

Il risultato è un blocco omogeneo che riduce drasticamente la possibilità di dispersione dei radionuclidi, garantendo un’efficace immobilizzazione dei rifiuti nucleari. Questa forma solida, non solubile in acqua e altamente resistente al deterioramento, si presta bene sia allo stoccaggio geologico profondo, sia al deposito in strutture protette di superficie. Inoltre, la compatibilità con materiali come vetroceramiche e leghe resistenti apre nuove prospettive per il miglioramento delle prestazioni a lungo termine.

La vetrificazione è indicata per i rifiuti radioattivi ad alta attività e lunga emivita, in particolare quelli in forma liquida o semi-liquida derivanti dal riprocessamento del combustibile esausto. Non è invece adatta a materiali solidi compatti o metalli, che non si amalgamano con la matrice vetrosa. Anche in Italia esistono progetti pilota, come quelli sviluppati da ENEA, che studiano l’applicazione di questa tecnologia nella prospettiva di trovare una soluzione anche per il Deposito Nazionale per i rifiuti radioattivi.

Cari lettori, in realtà il problema è davvero di grandissima importanza per il futuro energetico del pianeta che, secondo alcuni, non potrà mai fare a meno del nucleare, che potrà essere migliorato ma non escluso. La vetrificazione delle scorie, quindi, anche secondo fonti autorevoli come l’IAEA e la National Academies of Sciences (USA), sarà una tecnica assolutamente da adottare, in quanto i radionuclidi che possono essere efficacemente incorporati in vetro borosilicato includono: Cesio-137, Stronzio-90, Plutonio e attinidi minori (es. americio, curio, neptunio). Questi isotopi sono altamente radiotossici e caratterizzati da emivite lunghe (fino a decine di migliaia di anni), motivo per cui richiedono un contenimento sicuro e stabile come quello offerto dal vetro. I test di durabilità e stabilità condotti in ambienti simulati confermano che questi elementi, una volta inglobati nella matrice vetrosa, mostrano una drastica riduzione del rischio di rilascio.

Cari amici, credo proprio che la vetrificazione sia un metodo di grande interesse. Numerosi Paesi hanno già implementato la vetrificazione delle scorie nucleari ad alta attività, in impianti industriali o pilota. Ecco i Paesi dove la vetrificazione risulta già in atto: Francia, Russia e Giappone. In Italia, il progetto del Deposito Nazionale Unico rappresenta un passaggio cruciale nella gestione dei rifiuti radioattivi. La vetrificazione potrebbe giocare un ruolo fondamentale in questo contesto, fornendo una matrice solida e stabile per le scorie ad alta attività, rendendo più sicuro e sostenibile il loro stoccaggio nel Deposito. C'è da ben sperare...

A domani.

Mario

martedì, novembre 18, 2025

I RISCHI E I PERICOLI DELL'INTRODUZIONE DI SPECIE ALIENE NELL’AMBIENTE. L'ESEMPIO DEI CONIGLI IN AUSTRALIA.


Oristano 18 novembre 2025

Cari amici,

La natura, che ha perfezionato nel corso dei millenni le sue regole, distribuendo nelle varie parti del mondo specie vegetali e animali, REGOLANDONE L'QUILIBRIO, è un “Unicum” che, credo, non debba mai essere violato dall’uomo, in quanto sconvolgere questo equilibrio può causare danni ingenti e spesso irreversibili. Tanti gli esempi che dimostrano la rottura di questo fragile equilibrio, con l’introduzione di  specie aliene in zone non naturalmente previste dove diventano invasive, creando importanti perdite di biodiversità, con un forte impatto significativo sul funzionamento degli ecosistemi. Ecco, oggi voglio riflettere con Voi su uno di questi improvvidi interventi effettuati dall’uomo: l’introduzione dei conigli in Australia.

Oggi possiamo considerare questa “errata introduzione” una storia antica, essendosi verificata nel 1859. Ma ripercorriamo insieme quanto accadde. In quei tempi l’Australia era considerato un mondo nuovo, che iniziava ad essere colonizzato in gran parte dall’Europa. Ebbene, un certo Thomas Austin dimorante nello Stato di Victoria, grande amante della caccia sportiva, liberò nella sua tenuta 24 conigli europei, animali fino ad allora sconosciuti in Australia. Un gesto apparentemente semplice, ma che cambiò radicalmente l’equilibrio naturale di quel Continente.

Questi animali trovarono, in quei vasti e vergini luoghi, un ambiente ideale, alquanto simile a quello europeo, ma privo di predatori naturali! Come ben sappiamo il coniglio è un animale alquanto prolifico, con una riproduzione veloce che può arrivare fino a sei cucciolate l'anno. Basti pensare che in pochissimo tempo (nel 1920) i conigli si erano moltiplicati arrivando ad un’invasione che arrivò a contare miliardi di esemplari! Il loro consumo di foraggio produsse una forte erosione del suolo, desertificazione e impatti gravissimi sull’agricoltura. Per l’Australia fu un costo enorme: attorno ai 350 milioni di dollari l’anno.

Amici, questa crescita esponenziale senza precedenti possiamo immaginare l'effetto che ebbe sull'ambiente: fu veramente devastante! Un cambio sconvolgente si abbatté sull’equilibrio precedente: non solo – come detto prima - sul suolo, con la scomparsa della vegetazione nativa e la desertificazione, ma anche sulle numerose specie autoctone, soprattutto i piccoli marsupiali, che furono spazzate via. Un danno terribile, con tanti agricoltori in ginocchio, colpiti economicamente in modo ingente. Ovviamente si tentò di rimediare al terribile danno.

Nel tentativo di contenere il problema, si cercò di trovare dei possibili rimedi. Oltre ad introdurre delle lunghe recinzioni, si introdussero delle volpi rosse anch'esse alloctone, che però peggiorarono la situazione. Come per i conigli, esse si moltiplicarono per l’assenza di predatori, iniziando a fare stragi di volatili e marsupiali autoctoni dell’Australia, che non avevano difese nei confronti di questo insolito carnivoro. Il progetto, a quel punto, si rivelò un completo fallimento, con un ulteriore sconvolgimento del precedente ecosistema. La rapida diminuzione dei numerosi uccelli, divorati dalle volpi rosse,  fecero aumentare il numero degli insetti, prima mangiati dagli uccelli, aumentando così quella catastrofe indotta dall’introduzione dei conigli, e che furono tra le cause della massiccia siccità degli Anni ’20. Durante questa fase, migliaia di koala vennero sterminati, sia per sfamare le persone che per la falsa voce che potessero essere loro i responsabili di questo enorme squilibrio nell’ecosistema.

Nel 1950, dopo diversi studi scientifici, si misero in atto le guerre biologiche. La scienza mise a disposizione un rimedio: diffondendo tra i conigli il virus della mixomatosi, capace di decimarli al 99%. Tuttavia, la lotta non fu semplice: dopo la morte di un gran numero di conigli, la specie si adattò velocemente al virus, sviluppando una certa resistenza. Dopo la scomparsa di 500 milioni di conigli, i sopravvissuti svilupparono una risposta organica alla malattia e i loro figli risultarono essere immuni al virus. Quelli di oggi sono gli eredi di quei 24 esemplari introdotti come “specie aliena” nel 1859.

Questo episodio, cari lettori, è divenuto metafora e allo stesso tempo ammonimento, circa la complessità degli equilibri naturali e delle conseguenze, spesso imprevedibili, causate dagli improvvidi interventi umani sugli ecosistemi. L’introduzione di specie aliene, come quella dei conigli in Australia, è un grande esempio del cattivo comportamento dell’uomo, che anche oggi continua a violare i millenari equilibri degli ecosistemi naturali. Quello riportato è solo uno dei tantissimi esempi che continuano oggi come ieri (di esempi se ne potrebbero fare migliaia, come ad esempio il recente problema del granchio blu), e che costituiscono la prova evidente delle terribili devastazioni che le specie invasive possono causare negli ecosistemi locali.

Cari amici, è tempo che l’uomo smetta di giocare con l’ambiente!

A domani.

Mario

lunedì, novembre 17, 2025

LA SCOPERTA RIVOLUZIONARIA, DI JULIAN BROWN: TRASFORMARE LA PLASTICA IN CARBURANTE PULITO UTILIZZANDO SOLO L’ENERGIA SOLARE.


Oristano 17 novembre 2025

Cari amici,

Ci sono scoperte che in un primo tempo sono state giudicate solo fantasiose, e che, invece, una volta realizzate, hanno rivoluzionato in modo straordinario il mondo. È avvenuto altre volte nella storia e, ora, potrebbe essere la volta di un’altra scoperta che, una volta perfezionata, potrebbe cambiare volto al serio problema dell’inquinamento creato dalla plastica. A cercare di trovare soluzione ad un problema così grave potrebbe essere proprio un giovanissimo inventore, tale JULIAN BROWN, che ha sviluppato un rivoluzionario sistema di pirolisi a microonde alimentato da energia solare, in grado di trasformare i rifiuti plastici in carburanti puliti come benzina, diesel e jet fuel, riducendo così inquinamento e sprechi.

Che la plastica sia ormai, a detta di tutti, “La peste di questo millennio”, è una serissima realtà. Viviamo un mondo in cui ogni anno si producono centinaia di milioni di tonnellate di plastica, e se ne riciclano solo una minima parte, creando in terra e in mare un inquinamento difficilissimo da combattere. Anche gli studi più avanzati continuano a cercare una soluzione a questo inquinamento, ipotizzando sul “COME” poter fronteggiare questo problema, e, magari, trasformare questo rifiuto in risorsa! Ed ecco, che è apparsa all’orizzonte una luminosa, possibile soluzione.

Negli USA, opera un giovane ricercatore statunitense, tale Julian Brown, di appena 22 anni, appassionato di ecologia, che, nell’intento di dare una mano per risolvere il problema dell’inquinamento della plastica, si è ingegnato a trovare una soluzione; prova e riprova, ha costruito un particolare sistema compatto e poco costoso, che ha chiamato “PLASTOLINE”: un aggeggio che può essere definito low-cost, ma che trasforma i rifiuti plastici in carburante liquido, pronto all’uso. Un’idea semplice ma geniale, nata in un garage, che potrebbe risolvere il terribile inquinamento creato dalla plastica.

La tecnologia messa in atto da Julian Brown si basa su un processo noto come pirolisi, già utilizzato in ambito industriale ma spesso con costi e complessità elevate. PLASTOLINE, invece, è un reattore pirolitico compatto e accessibile, che consente di convertire vari tipi di plastica (come polietilene e polipropilene) in carburante liquido – benzina, diesel e kerosene – in un modo relativamente sicuro e a basso costo. Il funzionamento è semplice: la plastica viene riscaldata in un ambiente privo di ossigeno, evitando la combustione. Le alte temperature scompongono i polimeri plastici in molecole più piccole che, una volta condensate, formano combustibili liquidi.

Amici, secondo Julian Brown, il carburante prodotto può essere utilizzato per alimentare generatori, fornelli o piccoli motori, ed è una risorsa preziosa soprattutto in contesti dove l’accesso all’energia è limitato e i rifiuti abbondano. L’obiettivo di Brown, con la sua interessante invenzione “Plastoline”, non è quello di competere con i colossi dell’energia, ma quello di offrire una soluzione a quelle Comunità che non hanno accesso a sistemi di riciclo o smaltimento avanzati. E proprio in questi contesti  (villaggi rurali, aree isolate o in via di sviluppo), che la combinazione tra abbondanza di rifiuti plastici e scarsità di carburante rappresenta una criticità quotidiana.

I crescenti rifiuti plastici sono un serio problema da affrontare. Secondo l’OCSE, solo il 9% dei rifiuti plastici prodotti nel mondo viene effettivamente riciclato. Il resto finisce in discarica, viene bruciato o, peggio, disperso nell’ambiente. Le tecnologie di riciclo meccanico tradizionale sono spesso limitate a pochi tipi di plastica e non riescono a gestire i rifiuti misti o sporchi. In questo scenario, le tecnologie di riciclo avanzato come la pirolisi stanno guadagnando attenzione, ma devono ancora superare ostacoli legati alla sostenibilità economica, all’impatto ambientale e alla sicurezza operativa. Plastoline prova a colmare questo vuoto, con un approccio open source, leggero e replicabile.

Cari amici, gli studi continuano, perché una soluzione deve assolutamente essere trovata! Plastoline si propone di essere una prima risposta a questo problema: una micro-tecnologia circolare, adattabile localmente, che riduce l’impatto ambientale dei rifiuti e al tempo stesso offre energia a basso costo. La storia di JULIAN BROWN è un esempio potente di intraprendenza giovanile e innovazione sostenibile. Julian è un ragazzo con un’idea semplice, realizzata con materiali accessibili e tanta autodidattica, che sta già facendo parlare di sé per l’impatto potenziale della sua invenzione. A Lui il nostro grazie!

A domani.

Mario