mercoledì, novembre 12, 2025

CI SIAMO MAI CHIESTI PERCHÈ QUANDO SQUILLA IL TELEFONO RISPONDIAMO NORMALMENTE “PRONTO”? LA CURIOSA STORIA DI QUESTO MODO DI INIZIARE LA CONVERSAZIONE…


Oristano 12 novembre 2025

Cari amici,

Il TELEFONO fu davvero un'invenzione straordinaria! La storia di questo meraviglioso congegno, che consentì, per quei tempi, collegamenti straordinari, ebbe inizio dalla innovativa scoperta di Antonio Meucci, inventore sfortunato, protagonista di una storia complessa e controversa. Meucci costruì il primo prototipo nel 1854 e depositò un "caveat" (un brevetto preliminare) nel 1871. Tuttavia, a causa di problemi finanziari, non riuscì a ottenere un brevetto definitivo, che fu poi registrato da Alexander Graham Bell nel 1876. Solo nel 2002 il Congresso degli Stati Uniti ha ufficialmente riconosciuto Meucci come l'inventore del telefono.

Ho fatto questa premessa, amici lettori, per parlare con Voi di un’usanza curiosa che riguarda in particolare noi italiani. Ci siamo mai chiesti perché, quando squilla il telefono, che sia quello di casa o il nostro smartphone, rispondiamo PRONTO? Perché non usiamo un saluto come avviene in tanti altri Paesi del mondo, ad esempio hello/hallo in lingua inglese? In effetti, se ci fermiamo un secondo a pensare, usare "ciao" o "buongiorno"/"buonasera" (a seconda dell'ora) dovrebbe venirci più che naturale! E invece usiamo "pronto", una parola più tecnica e fredda, che viene dal latino prōmptus (participio passato del verbo promĕre) e in origine significava "messo davanti agli occhi" o "messo alla portata". Come mai da noi c'è questa usanza?

Per rispondere compitamente a questa domanda, dobbiamo partire dalle origini della telefonia e quindi ripercorrere la storia del telefono. Le prime linee telefoniche e i primi telefoni furono installati negli USA nella seconda metà dell'800, diffondendosi poi anche in Europa e in Italia. Originariamente le linee telefoniche collegavano solo due apparecchi, ma in seguito furono introdotti dei sistemi per smistare manualmente le chiamate a diversi destinatari. Nacque così la figura del/della centralinista, una persona incaricata di mettere in comunicazione l'individuo che aveva chiamato con il destinatario della telefonata utilizzando un cavo con due uscite jack.

Ogni utente, infatti, era associato a una presa a jack, presso un cosiddetto tavolo e pannello di commutazione. Quando il collegamento corretto del cavo era avvenuto il/la centralinista comunicava l’avvenuto contatto con la parola "Pronto", permettendo in questo modo lo svolgimento della chiamata. Nel caso specifico, tuttavia, rimane il dubbio sul perché poi il termine abbia cominciato ad essere utilizzato direttamente dal destinatario della chiamata (forse per chiedere conferma che il collegamento fosse effettivamente operativo?). Si, amici, le origini tutte italiane di rispondere al telefono con la parola "PRONTO" (non avviene così in molte altre nazioni, come anticipato prima) sono legate a queste antiche pratiche in uso nei vecchi centralini telefonici. 

Ne abbiamo un esempio-ricordo anche noi qui ad Oristano (è ancora presente in Piazza Eleonora il palazzo TELECOM), dove operava un grande centralino telefonico con le caratteristiche prima richiamate, e con tante operatrici! Credo che sarebbe utile aprire questo palazzo in occasione di “Monumenti Aperti”, per farlo conoscere alle nuove generazioni, quelle dei nativi digitali, dei Millennial, che nulla sanno sulla vecchia telefonia di una volta! Col passare del tempo, questa parola “PRONTO”, ripetuta infinite volte nella giornata, diventò presto un’abitudine per chi usava il telefono, entrando così nella prassi comune di quelli che si mettevano al telefono. E così, anche oggi, allo squillo del telefono (che sia di casa o cellulare poco importa), la gran parte di noi alza il ricevitore per dire PRONTO, quasi per accertarsi che il collegamento con il chiamante sia in essere, ovvero che l'interlocutore sia in linea.  

Amici, sulle origini della parola “Pronto” per rispondere al telefono, però, c’è anche un’altra possibile origine. È una teoria ricavata dal gergo militare. Questa seconda teoria suggerisce che l'usanza derivi più dal gergo militare, poiché i primi utilizzatori del telefono erano le FF.OO. e i dipendenti pubblici (militari, vigili del fuoco, polizia, etc.). In questo contesto, la parola "pronto" indicava la disponibilità immediata a ricevere ordini e a farsi trovare pronti all'azione. Ne è un esempio dimostrativo il primo collegamento telefonico di Milano, che collegava il Municipio con la caserma dei pompieri.

Cari amici, qualunque sia l’origine, noi italiani allo squillo del telefono continuiamo oggi come ieri a rispondere col “PRONTO?”, non si sa se per dire all’altro che siamo pronti, oppure per chiedere all’altro, in modo interrogativo, se è pronto!

A domani.

Mario

martedì, novembre 11, 2025

BACHI DA SETA OGM INGAGGIATI PER PRODURRE LA SETA DI RAGNO. IL RISULTATO? UNA FIBRA SEI VOLTE PIÙ RESISTENTE DEL KEVLAR.


Oristano 11 novembre 2025

Cari amici,

Tutti conosciamo bene le ragnatele, quelle trappole realizzate dai RAGNI per catturare le prede. Quei fili regolari, geometrici, costituiscono la SETA DI RAGNO, che è una fibra proteica. prodotta dai ragni. Essi usano queste ragnatele non solo come trappole adesive per catturare le prede, ma anche per trasmettere informazioni tattili o come nidi o bozzoli per proteggere la loro prole. La maggior parte dei ragni varia lo spessore e l'adesività della seta a seconda del suo utilizzo. L’uomo, già molto tempo fa, ha cercato di utilizzare questi lucenti fili, ma la raccolta della seta di ragno è stata sempre difficoltosa, rispetto ad esempio ai fili di seta prodotti da altri organismi, come ad esempio i Bachi da seta.

Amici, la seta di ragno è uno dei materiali più sorprendenti realizzati in natura: leggera come un soffio, ma più resistente dell’acciaio, a parità di peso. Però, nonostante i tentativi fatti, è risultato impossibile da produrre su larga scala, in quanto i ragni sono animaletti solitari e cannibali, quindi inadatti all’allevamento intensivo. Stante questa difficoltà, alcuni scienziati cinesi, operativi presso la “Donghua University”, sono riusciti a sintetizzare la seta di ragno facendola produrre dai bachi da seta geneticamente modificati.

Un lavoro di ricerca mica di poco conto, quello di questi ricercatori, se pensiamo che loro, per poter superare le difficoltà di produzione di questa fibra da parte dei ragni, hanno studiato come unire la biotecnologia alla produzione della seta tradizionale. Come? Usando il sistema di editing genetico CRISPR-Cas9, ovvero hanno trasferito nei bachi da seta i geni che producono le proteine della seta dei ragni. Il risultato è stato eccezionale: una fibra ibrida che combina la morbidezza della seta del baco con la resistenza di quella del ragno.

Come ha avuto modo di dichiarare il ricercatore Junpeng Mi, dottorando del College of Biological Science and Medical Engineering della Donghua University e primo autore della ricerca, “La seta dei bachi è attualmente l’unica fibra di seta animale commercializzata su larga scala, con tecniche di allevamento ben consolidate”. Il risultato di questa unione? Una produzione di fibre sei volte più resistenti del Kevlar! L’interessante a ricerca è stata pubblicata sulla rivista, Matter. Come accennato prima, secondo studi recenti, questa nuova seta, seppure non replichi ancora perfettamente tutte le proprietà della seta naturale del ragno, mostra una resistenza incredibile: tenace fino a sei volte superiore a quella del Kevlar, ovvero con la capacità di assorbire più energia prima di rompersi. Le applicazioni potenziali di questa nuova fibra sono enormi: suture chirurgiche ultra-forti, armature leggere, materiali sostenibili per la moda e l’ingegneria. In più, è anche un fibra biodegradabile e potrebbe sostituire polimeri sintetici come il nylon o il poliestere, riducendo l’impatto ambientale e le microplastiche.

Dopo la pubblicazione della ricerca sulla rivista MATTER, si è rafforzata la convinzione che questa nuova fibra naturale, costituisca un’allettante alternativa sostenibile alle fibre sintetiche, che possono rilasciare microplastiche dannose nell’ambiente e sono spesso prodotte da combustibili fossili che generano emissioni di gas serra. Insomma, rivolgersi alla natura per trovare alternative ecologiche ai prodotto della chimica, è sicuramente altamente positivo!

Il professor MI appare molto soddisfatto del risultato ottenuto. “Siamo fiduciosi che la commercializzazione su larga scala sia all’orizzonte”, ha sottolineato. Pensando al futuro, si prevede di utilizzare le conoscenze sulla robustezza e la resistenza delle fibre di seta di ragno, sviluppate nello studio attuale, per la creazione di bachi da seta geneticamente modificati che producano fibre di seta di ragno a partire da aminoacidi naturali e ingegnerizzati. “L’introduzione di oltre cento aminoacidi ingegnerizzati può offrire un potenziale illimitato per le fibre di seta di ragno ingegnerizzate”, ha precisato il professor Mi, aggiungendo: “La seta di ragno è una risorsa che ha urgente bisogno di essere ulteriormente esplorata. Le prestazioni meccaniche eccezionalmente elevate delle fibre prodotte in questo studio rappresentano una promessa significativa in questo campo”.

Cari amici, credo che questa “Seta di ragno” prodotta dai bachi geneticamente modificati sia un potente filo invisibile che lega scienza e natura, intrecciando forza e leggerezza in un solo materiale. Una fibra, insomma che sa tanto di futuro!

A domani.

Mario

lunedì, novembre 10, 2025

CURIOSITÀ DELLA VITA FAMILIARE IN GIAPPONE: SE IN CASA CI SI SENTE SOLI (SUCCEDE, IN PARTICOLARE, TRA LE GIOVANI COPPIE), SI PUÒ NOLEGGIARE UNA NONNA…


Oristano 10 novembre 2025

Cari amici,

Lo stile di vita orientale è davvero molto diverso dal nostro! Usi, costumi e tradizioni millenarie, permangono anche in tempi, come i nostri, ben lontani dalla logica del passato. Ebbene, oggi voglio parlare con Voi di un’antica tradizione giapponese che a noi, in realtà, può far sorridere: quella di cercare di sopperire alla solitudine casalinga, (presente in particolare nelle giovani famiglie di recente costituzione), “Noleggiando e portando a casa una nonna"! Sì proprio una nonna anziana non della propria famiglia.

In Giappone è operativo un servizio chiamato “OK OBAACHAN” (che significa “Ok Nonna”), che potremmo definire unico nel suo genere. Questa ritrovata iniziativa, nata a Tokyo nel 2012, risulta alquanto gradita nell'arida vita di oggi, in quanto più di 100 donne tra i 60 e i 94 anni nel Paese del Sol Levante offrono la loro esperienza e la loro saggezza per aiutare chi ne ha bisogno; cosa offrono? Dall’aiuto nelle faccende domestiche alla cura dei bambini, fino alla più semplice compagnia. Molte richieste arrivano da persone sole o da famiglie che hanno bisogno di una mano nella vita quotidiana. C’è chi chiede la presenza di una “nonna” per affrontare momenti delicati, come fare coming out con il padre, o chi sogna semplicemente un bento cucinato con amore.  

A noi questa bizzarra trovata nipponica può far sorridere, ma sarebbe meglio analizzarla con attenzione. Nella vita di oggi, sono tante le giovani coppie che soffrono di solitudine, e questo servizio "OK Obaachan", che permette di “affittare” una nonna di norma per compagnia, ma capace di dare non solo calore umano ma anche supporto materiale, contribuendo a creare legami autentici tra generazioni. Anche da noi, amici, ci sono spesso dei momenti in cui ci si sente soli, e capita che ci fermiamo a pensare a com'erano belle quelle giornate dell'infanzia trascorse con la nonna!

Quanti ricordi, quanti insegnamenti e quanti bei manicaretti ci preparava quando eravamo bambini in crescita, tirandoci così su il morale. Ecco, quando questi ricordi ci assalgono, abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti, che magari ci insegni a cucinare un piatto o che semplicemente si sieda con noi a bere una tazza di tè. Ed ecco che i giapponesi hanno trovato l’antidoto a questa solitudine, circondandosi di una figura che ricordasse quei tempi, e ristorando la mente intristita dai nostalgici ricordi del passato.

Amici, il Giappone, come ho detto prima si porta appresso una cultura e una tradizione millenaria. Anche se a noi questo servizio “Ok Nonna” può sembrare una cosa così bizzarra e irreale, quasi proveniente da una serie tv distopica e futuristica, dovremmo vederlo con occhi diversi. Eppure questa soluzione viene da noi considerata una "trovata made in Japan", vista con sufficienza, come del resto le altre, tipo “La fidanzata o amica in affitto”. A ben vedere, noleggiare una dolce nonnina per combattere i nostri momenti di solitudine, non credo che sia proprio un’offerta da far rifiutare. 

La vita di oggi, in realtà, risulta sempre più arida in tante parti del mondo. In un Paese come il Giappone, poi, la solitudine è un problema sempre più frequente. L’idea “OK OBAACHAN”, che risale a più di dieci anni fa, fu lanciata dall'azienda Client Partners nel 2011, per cercare di rispondere a un doppio bisogno sociale: creare opportunità lavorative per donne over 60 e offrire un supporto emotivo a chi ne ha bisogno. Un'iniziativa dal valore molto simbolico, che permette di "richiamare" nonnine di età compresa tra i 60 e i 90 anni, capaci di offrire qualcosa che nessun social può dare: una relazione autentica.

Cari amici lettori, sinceramente io apprezzo questo servizio che considero alquanto positivo; dietro questa idea si nascondono temi profondi: l’invecchiamento attivo, la necessità di integrare i bassi redditi degli anziani, e, soprattutto, dare ristoro alla crescente solitudine presente nelle grandi città, non solo giapponesi. OK Obaachan, per me, risponde alle attuali necessità con calore umano, empatia e un pizzico di genialità tutta nipponica!

A domani.

Mario

domenica, novembre 09, 2025

L'INCREDIBILE LIQUORE FRANCESE REALIZZATO DAI MONACI NEL 1764 NEL MONASTERO DELLA CHARTREUSE, È UN “ELISIR DI LUNGA VITA" A BASE DI 130 ERBE E SPEZIE.


Oristano 9 novembre 2025

Cari amici,

La storia di questo liquore è davvero curiosa e particolare. Inizia nel 1605 con la consegna di un manoscritto al Monastero certosino di Vauvert (Parigi) da parte del maresciallo d'Estrées. Questo documento conteneva la ricetta di un "elisir di lunga vita", frutto della combinazione di ben 130 erbe e spezie. L’Ordine dei Certosini ha la Casa madre nel Monastero della Grande Chartreuse, situato nelle Alpi francesi, nel comune di Saint-Pierre-de-Chartreuse (dipartimento dell'Isère), circa 30 km a nord di Grenoble. È situato a circa 1190 metri di altitudine, ai piedi del Grand Som, quarta cima per altezza del massiccio della Chartreuse.

Come primo insediamento dell'Ordine, esso è il prototipo dello spazio monastico certosino, sempre collocato in grandi alture, anche se a partire dal XIII secolo l'ordine si è adattato anche a siti urbani e di pianura. Tornando all’Elisir del manoscritto, consegnato ai monaci certosini dal maresciallo d'Estrées, questi si impegnarono non poco per la realizzazione della complessa ricetta, accreditata come un elisir di lunga vita. Si, la formula era così complessa che i monaci impiegarono decenni per perfezionarla, ma alla fine crearono L'ÉLIXIR VÉGÉTAL DE LA GRANDE-CHARTREUSE nel 1737.

Il contributo maggiore al perfezionamento della ricetta fu quello del monaco Antoine, che riuscì a migliorare la composizione creando l'Élixir Végétal de la Grande-Chartreuse, un potente elisir ad una gradazione alcolica alquanto alta: 69. Successivamente gli esperimenti continuarono e, nel 1764, i monaci realizzarono la Chartreuse Verte (55°), una versione più accessibile realizzata con l'aggiunta di zucchero. Nel 1838 nacque la Chartreuse Jaune (40°).

Resta ancora oscuro il completo “Segreto della produzione”: La ricetta completa, infatti, è ancora oggi custodita e tramandata da pochissimi monaci, che supervisionano la produzione, assicurando che il processo rimanga segreto e che ogni lotto di produzione sia unico a causa delle variazioni stagionali delle erbe. Col passare del tempo non solo sono cambiate le gradazioni ma anche i luoghi di produzione. Le distillerie sono cambiate nel corso dei secoli, spostandosi da Parigi a Tarragona e infine stabilendosi definitivamente ad Aiguenoire, vicino a Voiron. Le cantine di Voiron sono ritenute un luogo unico, e, tra l’altro, sono considerate tra le più lunghe al mondo, dove ospitano le straordinarie botti di rovere dove i liquori invecchiano. Attualmente il sito produttivo di Aiguenoire, piccolo villaggio arroccato sulle Alpi francesi poco distante da Grenoble, è considerato un vero paradiso, essendo un luogo remoto dalla natura incantata, dove i Certosini portano avanti con cura meticolosa e grande amore la tradizione del liquore che non teme il tempo.

Amici, il segreto dell’antica ricetta nonostante il passare dei secoli, rimane. Basti pensare che tra piante, radici, spezie e fiori sono ben 130 gli ingredienti coinvolti nella ricetta della Chartreuse. Questi ingredienti arrivano tutti al Monastero essiccati, per poi essere divisi e lavorati dai Monaci, che procedono all’infusione e alla macerazione alcolica. La distillazione avviene in alambicchi in rame pot still, che ospitano cestini con alcune erbe, tecnica che permette di valorizzare anche alcuni aromi molto delicati. Infine, l’invecchiamento per almeno tre anni in grandi botti di rovere francese dalle fibre molto compatte, che bene si prestano ad invecchiamenti lunghi.

Cari amici, nonostante questa lavorazione complessa, nessuno conosce tutti i dettagli sulle infusioni e la distillazione, dal momento che il processo produttivo è un segreto secolare ben custodito! Il segreto rimane perché “alle fasi finali” partecipano solo due monaci, Don Benoit e Fra Jan Jacques, mentre ad assisterli ci sono tre laici che si occupano dei processi non segreti. Un segreto che continua ad essere ben custodito! Vi confesso che mi è sorta la curiosità di provarlo questo ELISIR DI LUNGA VITA!

A domani, amici lettori.

Mario

 

 

 

sabato, novembre 08, 2025

LA RIVOLUZIONE NEL MONDO DEGLI ASCENSORI UNIFAMILIARI: IN ARRIVO QUELLI CHE UTILIZZANO LA TECNOLOGIA DEL VUOTO PNEUMATICO.


Oristano 8 novembre 2025

Cari amici,

Che installare un ascensore in casa non sia una cosa semplice è una realtà incontestabile, soprattutto se non si è previsto all'atto della costruzione dell'immobile. Gli ascensori o elevatori attualmente in uso prevedono spazi adeguati e meccanismi alquanto complicati, che ne rendono difficile l’installazione, oltre, ovviamente, ai costi. Ebbene, di recente si sta diffondendo un modello più semplice di ascensore, progettato per case singole, che funziona in modo alquanto semplice, ben diverso dal solito, insomma, con un altro concetto: utilizza la forza pneumatica. Questi ascensori unifamiliari, progettati per lo più per essere installati in casa (ma anche su yatch e in piccoli locali commerciali), quando è necessario superare determinate barriere architettoniche, hanno un’installazione ed un funzionamento davvero molto semplice.

Questo particolare nuovo ascensore, come accennato prima, funziona in base ai “principi di pneumatica e di vuoto”; due principi differenti ma correlati, ma che, insieme, garantiscono la tecnologia di questo particolare ascensore a vuoto pneumatico. La pneumatica (dal greco πνεῦμα “aria”) è la tecnologia che usa l’aria come mezzo di trasmissione dell’energia necessaria per muovere e fare funzionare i meccanismi, nel nostro caso la cabina di un ascensore. Ma vediamo come sono realmente realizzati questi ascensori e come funzionano.

Il loro sistema di funzionamento sfrutta la differenza di pressione dell'aria per muovere la cabina posta all'interno di un cilindro, eliminando così la necessità di cavi e contrappesi. Funzionano creando un vuoto parziale sopra la cabina, che viene così sollevata per aspirazione, mentre per la discesa il flusso d'aria viene rilasciato in modo controllato. Con questo sistema gli ascensori vengono installati facilmente, in modo rapido e senza scavi; inoltre il loro design è panoramico e trasparente, la sicurezza elevata e la manutenzione alquanto bassa, rendendoli ideali per case unifamiliari e ambienti con barriere architettoniche.

Amici, è indubbiamente un sistema valido sotto molti aspetti. In primis la Sicurezza: In caso di mancanza di corrente, la cabina scende gradualmente e in sicurezza al piano più vicino. Anche l’installazione risulta veloce, senza necessità di scavi, fosse, o sala macchine, rendendoli ideali per case esistenti o retrofit. Anche il loro Design, come accennato, è eccellente: sono trasparenti e offrono una visione a 360°, eliminando il senso di claustrofobia e integrandosi esteticamente in ogni ambiente. Infine l’Efficienza: utilizzando la forza dell'aria hanno un basso consumo energetico, classificandosi come tecnologia "verde" e richiedendo una manutenzione minima.

Amici, questo sistema è già ampiamente diffuso in Oriente e, a Singapore, si sta scrivendo una nuova pagina nell’innovazione del trasporto verticale. Nei musei e negli spazi culturali più all’avanguardia, i visitatori possono già sperimentare ascensori che non utilizzano cavi, pistoni o contrappesi, ma sfruttano proprio la differenza di pressione atmosferica per muovere delicatamente una capsula cilindrica trasparente. Il risultato è un movimento fluido, silenzioso ed estremamente efficiente, che dà più la sensazione di “galleggiare” che di essere trasportati da un macchinario.

Alquanto apprezzata è anche la Silenziosità: perfetti per ambienti come musei, dove il rumore disturberebbe l’esperienza dei visitatori. Le nuove capsule, che hanno forme cilindriche, linee eleganti e pareti trasparenti, permettono di continuare a vivere l’arte e l’architettura circostante anche in movimento. Per i musei e le gallerie, questo significa trasformare un tragitto funzionale in un’estensione stessa dell’esperienza culturale. In sintesi, cari lettori: a Singapore gli ascensori non sono più solo mezzi per spostarsi tra i piani, ma parte integrante del viaggio sensoriale e culturale. Una dimostrazione di come il futuro della mobilità urbana sarà sempre più green, silenzioso e orientato al design esperienziale.

Amici lettori, anche installare nella propria casa uno di questi ascensori per raggiungere i piani superiori della propria abitazione, significa farlo in totale comodità e autonomia, in assenza di rumore e con un basso consumo energetico e di manutenzione. Questi mini elevatori domestici sono la massima espressione dell’indipendenza di movimento e non richiedono opere complesse per poter essere installati. Credo che in futuro si diffonderanno alla grande!

A domani.

Mario

venerdì, novembre 07, 2025

I MIEI RICORDI SCOLASTICI DEGLI ANNI 50. IN CLASSE, ALLE ELEMENTARI, MASCHI E FEMMINE IN BANCATE SEPARATE. BANCHI CON CALAMAIO E PENNE COL PENNINO.


Oristano 7 novembre 2025

Cari amici,

Arrivati ad una certa età, capita spesso di fermarsi a riflettere sul percorso della propria vita, confrontandola con quella che si sta vivendo. Tutto cambia, è così da sempre, ma è giusto che le nuove generazioni conoscano le vicende e le difficoltà affrontate dalle generazioni precedenti. Personalmente credo di essere fra quei pochi che hanno avuto il coraggio di mettere per iscritto, per filo e per segno, il percorso della propria vita, decidendo, in questo modo, di lasciare ai posteri “Le tracce” della propria esistenza. In realtà parlare di se stessi non è mai stato facile, perché – per farlo – è necessario spogliarsi della propria riservatezza, aprirsi agli altri senza veli, senza falsi pudori. Eppure, Io, dopo una lunga meditazione, ho deciso di farlo, scrivendo ben 2 libri. Il primo, “MARIEDDU”, racconta la mia vita di formazione, quella di un ragazzo di provincia, nato nel 1945 alla fine della guerra, che ha conosciuto le macerie, giocato con i residuati bellici, che ha vissuto i primi tentativi di ricostruzione del Paese, sopportato la fame, per la mancanza di tantissime cose, compreso il pane. Il secondo, intitolato invece “TRACCE”, racconta la mia successiva realizzazione nella vita.

Ebbene, amici lettori, oggi voglio ricordare con Voi le mie prime esperienze scolastiche, quelle della scuola elementare, che frequentai negli anni Cinquanta, quando l’istruzione era ben diversa da quella di oggi! Allora il maestro (o la maestra) era l’unico riferimento, che seguiva i ragazzini per tutti i cinque anni. In aula vi era una rigida separazione tra maschi e femmine (due distinte bancate) e i banchi erano scomodi e in legno, con il piano di lavoro che evidenziava il foro per il calamaio con l’inchiostro e un avvallamento dove veniva posta la penna, che veniva usata dopo aver montato un pennino in acciaio, diverso per i vari tipi di scrittura.

Tutti, maschi e femmine andavano a scuola con il grembiule nero, chiuso nel collo con un colletto bianco, a significare l’uguaglianza, senza esibizioni di abbigliamento più o meno decoroso. Guai ad arrivare in ritardo, e all’ingresso in aula del maestro tutti in piedi, aspettando il suo buongiorno a cui si rispondeva in coro, e si restava in attesa del suo cenno con la mano di sedersi nel banco. A fianco della vecchia cattedra del maestro, sollevata dal pavimento con un supporto di legno alto una cinquantina di centimetri, la grande lavagna, con il gessetto bianco e il cancellino, costituito da una specie di mini cintura di lana arrotolata, appoggiata su un piccolo supporto laterale. A completare l’arredamento una grande carta geografica, il crocifisso e poco altro.

Durante le lezioni il silenzio era d'obbligo. Imparare, poi, a scrivere bene con quella particolare penna intinta nel calamaio non era facile! Spesso, se intingevi il pennino in modo sbagliato (troppo inchiostro) una grande macchia sul quaderno era assicurata! Si cercava allora di porre rimedio con la carta assorbente, ma il danno oramai era fatto, e spesso arrivava un colpo della bacchetta del maestro sulla mano per farti capire di essere più attento. Per me, poi, nato mancino (quindi uno da correggere...), il problema era un vero dramma! Quando il maestro, dopo aver scritto alla lavagna le frasi, e ci chiedeva di copiarle, la mano che a me scattava per prendere la penna era quella sinistra. Difficilmente, però, la mia mano arrivava a prendere la penna, perché, veloce come un fulmine, arrivava il colpo di bacchetta del maestro Pisu a vietarmelo!

A quel punto, con grande difficoltà, cercavo di allungare la mano destra che, però, istintivamente si rifiutava di prendere la penna in mano; intingerla nell’inchiostro e vergare sul quaderno lo scritto richiesto sembrava un'impresa titanica! Provando e riprovando qualcosa ottenni, ma, credetemi, la mia grafia restò sempre pessima: lo è anche oggi, nonostante siano passati tanti di quegli anni! Amici lettori, se paragono la scuola di quegli anni a quella odierna non sembra che siano passati solo una cinquantina d'anni, ma secoli! I sistemi educativi di allora erano improntati ad una logica correttiva, forse anche eccessiva ma valida, non solo nella relazione sociale tra adulti e giovani, ma anche tra gli stessi giovani.

Ci basti pensare alla rigida separazione tra bambini e bambine, divisi da "Due bancate separate"; erano due modi di vivere le relazioni sociali in modo selettivo, per genere, un modo per costruire due mondi a se stanti: quello maschile e quello femminile, separati sia dal punto di vista culturale che relazionale, quasi che lo stare insieme costituisse un pericolo! Era una visione rigida dell'educazione, che imbrigliava l’esuberanza e la coesione, tanto che anche la semplice voglia di dialogo tra compagni, era considerata irrispettosa dell’autorità del maestro, per cui “chiacchierare” col compagno di banco non era assolutamente tollerato. A questo proposito, cari lettori, voglio raccontarvi un episodio che mi ha riguardato direttamente, rimasto, per me, un ricordo indimenticabile di quegli anni.

Ero in terza elementare, e, considerata la mia esuberanza, il maestro, sempre più infastidito delle mie “chiacchiere” col compagno di banco, dopo che aveva tentato infinite volte di farmi smettere, decise di reagire. Dopo l'ennesima mia infrazione, dopo aver urlato “Basta!” si alzò, prese con rabbia un banco vuoto che stava da una parte e lo spostò, ponendolo proprio davanti alla sua cattedra, tra le due bancate. A quel punto, rivolto a me e indicando il banco mi disse: “Ecco, da oggi, quello è il tuo posto”; poi, dopo che mi ero accomodato si avvicinò alla bancata femminile e, rivolto ad una bambina tranquillissima, di carattere poco loquace, che normalmente parlava con le compagne pochissimo, le disse: “Tu da oggi ti siedi e segui le lezioni nel banco con Marieddu ( era il diminutivo del mio nome che tutti usavano).

Tutto avvenne senza che nessuno di noi fiatasse. La lezione, nel silenzio generale, terminò con sollievo di tutti. L’indomani, tutto sembrò procedere come il maestro aveva predisposto. La silenziosa nuova serenità, però, durò ben poco. Nell’arco di 3 - 4 giorni tutto iniziò a cambiare. Sarà perché sono sempre stato estroverso, amante della relazione sociale, ma alla fine della seconda settimana non solo io chiacchieravo più di prima, ma la poco loquace bambina, quanto alle chiacchiere, era riuscita a superare anche me! Il maestro Pisu, a quel punto si arrese:  un giorno, oramai scoraggiato, si alzò in piedi, e sbattendo con forza un pugno sulla cattedra, conscio della sua disfatta, rivolto a me disse urlante e rabbioso: “Marieddu, sei proprio irrecuperabile”!

Cari amici, ogni volta che queste scene mi ritornano in mente.. pensando al mio maestro Pisu, mi viene ancora da sorridere! Sapete perchè? Credo di non essere mai cambiato!

A domani.

Mario

giovedì, novembre 06, 2025

ARRIVA ANCHE IN ITALIA LA “RISI-PISCICOLTURA”: COLTIVARE RISO E ALLEVARE PESCI NELLA STESSA ACQUA. SI RADDOPPIA L’OBIETTIVO: MENO PRODOTTI CHIMICI E MAGGIORE EQUILIBRIO ECOLOGICO.


Oristano 6 novembre 2025

Cari amici,

La pratica agricola delle “RISIPISCICOLTURA” è arrivata di recente anche in Italia; non è, in realtà, una vera innovazione, perchè, soprattutto in Cina e in Vietnam, questo sistema misto viene praticato da secoli. Il principio è semplice e allo stesso tempo efficace: i pesci vengono introdotti nelle risaie dopo la semina e convivono con le piante di riso per tutta la durata del ciclo vegetativo. Ovviamente sono pesci comuni d’acqua dolce, come tinche e carpe o altre specie compatibili con l’ambiente della risaia, come il piccolo pesce giapponese medaka (Oryzias latipes).

Questo connubio tra coltivazione del riso e allevamento di pesci svolge nella risaia un ruolo cruciale. I numerosi pesci presenti si nutrono di larve di insetti, di alghe e di piccoli organismi dannosi per il riso, sostituendo così l’uso di pesticidi ed erbicidi; inoltre, le loro deiezioni, costituiscono un fertilizzante naturale, arricchendo il terreno di sostanze organiche e migliorandone la fertilità. Il risultato? La creazione di un ecosistema autosufficiente, in cui ogni elemento contribuisce alla salute dell’altro: il riso fornisce ombra e microhabitat ai pesci, e loro tengono l’acqua pulita, rendendola più ricca di nutrienti.

Amici lettori, indubbiamente questa doppia produzione crea indiscutibili benefici, sia dal punto di vista ambientale che economico. Ambientale, in quanto si ha una buona riduzione dei fitofarmaci di norma utilizzati nelle risaie tradizionali per controllare lo sviluppo di alghe e i numerosi parassiti; Economico, in quanto la presenza dei pesci, che riduce drasticamente la necessità di intervenire chimicamente, e in cambio diventa un buon introito economico. In sintesi: si ottiene un impatto ambientale più basso un prodotto finale più naturale con maggiore ritorno economico. E non è tutto.

Un altro beneficio rilevante è il miglioramento della biodiversità. L’ambiente della risaia “abitata” dai pesci diventa un rifugio per anfibi, insetti utili e uccelli acquatici, creando un microcosmo vitale che rafforza l’equilibrio ecologico del territorio. L’acqua rimane più pulita, la terra più fertile e le coltivazioni successive ne traggono vantaggio. Per il risicultore, poi, c’è il beneficio economico, ovvero una aggiuntiva fonte di reddito, rendendo la pratica interessante anche per le piccole aziende agricole che puntano sulla multifunzionalità e sulla sostenibilità.

Come prima accennato, da un po’ di anni, questa antica coltura orientale ha trovato casa anche in Italia, in particolare nel Ferrarese. Le varietà di riso coltivate sono Arborio e Carnaroli. Queste varietà vengono coltivate secondo questa tecnica, con risultati alquanto positivi. Gli avannotti (piccoli appena nati di specie ittiche autoctone) vengono introdotti nelle risaie, e, durante la crescita, si nutrono di larve di insetti potenzialmente dannosi per la coltura. Grazie alla loro presenza, si sviluppa un ambiente favorevole alla crescita del riso e si preserva la biodiversità tipica delle risaie. Poco prima della raccolta, la risaia viene svuotata e l'acqua defluisce nei canali. I pesci, ormai cresciuti, vengono rilasciati nei corsi d'acqua, dove continuano a contribuire alla tutela dell’ecosistema e del territorio.

Per far conoscere su larga scala questo nuovo tipo di coltura nel nostro Paese, di recente sugli scaffali di alcuni supermercati italiani è comparso un nuovo prodotto che ha incuriosito molti consumatori: il latte di riso Vemondo con la dicitura “coltivato con pesci in risaia”. L’immagine dell’etichetta, diventata virale dopo la segnalazione apparsa sulla pagina Facebook No signal – Comunicare male, ha suscitato reazioni contrastanti e un certo disorientamento. In molti si sono chiesti cosa significhi esattamente quella frase coltivato con pesci, nel dubbio se si trattava di una scelta di marketing o di un reale metodo produttivo. In realtà, dietro quell’indicazione si nascondeva una nuova (per l’Italia) pratica agricola ben precisa e sempre più diffusa in ambito biologico: la RISIPISCICOLTURA, un metodo sostenibile capace di unire la coltivazione del riso con l’allevamento di pesci all’interno della stessa risaia. La pubblicità aveva uno scopo preciso: invitare il  consumatore a partecipare attivamente alla valorizzazione del paesaggio agricolo e alla tutela della ricchezza naturale delle risaie, sostenendo gli agricoltori che adottano pratiche sostenibili come la risipiscicoltura.

Cari amici, nel mondo questa coltura mista è in continuo aumento. Secondo i dati riportati dalla FAO, l’adozione di questa tecnica ha portato a un incremento della produzione di riso da 6,5 tonnellate per ettaro a 9,3 tonnellate per ettaro. Inoltre la vendita del pesce allevato nei campi di riso ha generato entrate aggiuntive di buon livello per gli agricoltori. Contribuire a salvare il pianeta e migliorare il reddito dei lavoratori agricoli, credo che sia un ottimo risultato!

A domani.

Mario