venerdì, novembre 07, 2025

I MIEI RICORDI SCOLASTICI DEGLI ANNI 50. IN CLASSE, ALLE ELEMENTARI, MASCHI E FEMMINE IN BANCATE SEPARATE. BANCHI CON CALAMAIO E PENNE COL PENNINO.


Oristano 7 novembre 2025

Cari amici,

Arrivati ad una certa età, capita spesso di fermarsi a riflettere sul percorso della propria vita, confrontandola con quella che si sta vivendo. Tutto cambia, è così da sempre, ma è giusto che le nuove generazioni conoscano le vicende e le difficoltà affrontate dalle generazioni precedenti. Personalmente credo di essere fra quei pochi che hanno avuto il coraggio di mettere per iscritto, per filo e per segno, il percorso della propria vita, decidendo, in questo modo, di lasciare ai posteri “Le tracce” della propria esistenza. In realtà parlare di se stessi non è mai stato facile, perché – per farlo – è necessario spogliarsi della propria riservatezza, aprirsi agli altri senza veli, senza falsi pudori. Eppure, Io, dopo una lunga meditazione, ho deciso di farlo, scrivendo ben 2 libri. Il primo, “MARIEDDU”, racconta la mia vita di formazione, quella di un ragazzo di provincia, nato nel 1945 alla fine della guerra, che ha conosciuto le macerie, giocato con i residuati bellici, che ha vissuto i primi tentativi di ricostruzione del Paese, sopportato la fame, per la mancanza di tantissime cose, compreso il pane. Il secondo, intitolato invece “TRACCE”, racconta la mia successiva realizzazione nella vita.

Ebbene, amici lettori, oggi voglio ricordare con Voi le mie prime esperienze scolastiche, quelle della scuola elementare, che frequentai negli anni Cinquanta, quando l’istruzione era ben diversa da quella di oggi! Allora il maestro (o la maestra) era l’unico riferimento, che seguiva i ragazzini per tutti i cinque anni. In aula vi era una rigida separazione tra maschi e femmine (due distinte bancate) e i banchi erano scomodi e in legno, con il piano di lavoro che evidenziava il foro per il calamaio con l’inchiostro e un avvallamento dove veniva posta la penna, che veniva usata dopo aver montato un pennino in acciaio, diverso per i vari tipi di scrittura.

Tutti, maschi e femmine andavano a scuola con il grembiule nero, chiuso nel collo con un colletto bianco, a significare l’uguaglianza, senza esibizioni di abbigliamento più o meno decoroso. Guai ad arrivare in ritardo, e all’ingresso in aula del maestro tutti in piedi, aspettando il suo buongiorno a cui si rispondeva in coro, e si restava in attesa del suo cenno con la mano di sedersi nel banco. A fianco della vecchia cattedra del maestro, sollevata dal pavimento con un supporto di legno alto una cinquantina di centimetri, la grande lavagna, con il gessetto bianco e il cancellino, costituito da una specie di mini cintura di lana arrotolata, appoggiata su un piccolo supporto laterale. A completare l’arredamento una grande carta geografica, il crocifisso e poco altro.

Durante le lezioni il silenzio era d'obbligo. Imparare, poi, a scrivere bene con quella particolare penna intinta nel calamaio non era facile! Spesso, se intingevi il pennino in modo sbagliato (troppo inchiostro) una grande macchia sul quaderno era assicurata! Si cercava allora di porre rimedio con la carta assorbente, ma il danno oramai era fatto, e spesso arrivava un colpo della bacchetta del maestro sulla mano per farti capire di essere più attento. Per me, poi, nato mancino (quindi uno da correggere...), il problema era un vero dramma! Quando il maestro, dopo aver scritto alla lavagna le frasi, e ci chiedeva di copiarle, la mano che a me scattava per prendere la penna era quella sinistra. Difficilmente, però, la mia mano arrivava a prendere la penna, perché, veloce come un fulmine, arrivava il colpo di bacchetta del maestro Pisu a vietarmelo!

A quel punto, con grande difficoltà, cercavo di allungare la mano destra che, però, istintivamente si rifiutava di prendere la penna in mano; intingerla nell’inchiostro e vergare sul quaderno lo scritto richiesto sembrava un'impresa titanica! Provando e riprovando qualcosa ottenni, ma, credetemi, la mia grafia restò sempre pessima: lo è anche oggi, nonostante siano passati tanti di quegli anni! Amici lettori, se paragono la scuola di quegli anni a quella odierna non sembra che siano passati solo una cinquantina d'anni, ma secoli! I sistemi educativi di allora erano improntati ad una logica correttiva, forse anche eccessiva ma valida, non solo nella relazione sociale tra adulti e giovani, ma anche tra gli stessi giovani.

Ci basti pensare alla rigida separazione tra bambini e bambine, divisi da "Due bancate separate"; erano due modi di vivere le relazioni sociali in modo selettivo, per genere, un modo per costruire due mondi a se stanti: quello maschile e quello femminile, separati sia dal punto di vista culturale che relazionale, quasi che lo stare insieme costituisse un pericolo! Era una visione rigida dell'educazione, che imbrigliava l’esuberanza e la coesione, tanto che anche la semplice voglia di dialogo tra compagni, era considerata irrispettosa dell’autorità del maestro, per cui “chiacchierare” col compagno di banco non era assolutamente tollerato. A questo proposito, cari lettori, voglio raccontarvi un episodio che mi ha riguardato direttamente, rimasto, per me, un ricordo indimenticabile di quegli anni.

Ero in terza elementare, e, considerata la mia esuberanza, il maestro, sempre più infastidito delle mie “chiacchiere” col compagno di banco, dopo che aveva tentato infinite volte di farmi smettere, decise di reagire. Dopo l'ennesima mia infrazione, dopo aver urlato “Basta!” si alzò, prese con rabbia un banco vuoto che stava da una parte e lo spostò, ponendolo proprio davanti alla sua cattedra, tra le due bancate. A quel punto, rivolto a me e indicando il banco mi disse: “Ecco, da oggi, quello è il tuo posto”; poi, dopo che mi ero accomodato si avvicinò alla bancata femminile e, rivolto ad una bambina tranquillissima, di carattere poco loquace, che normalmente parlava con le compagne pochissimo, le disse: “Tu da oggi ti siedi e segui le lezioni nel banco con Marieddu ( era il diminutivo del mio nome che tutti usavano).

Tutto avvenne senza che nessuno di noi fiatasse. La lezione, nel silenzio generale, terminò con sollievo di tutti. L’indomani, tutto sembrò procedere come il maestro aveva predisposto. La silenziosa nuova serenità, però, durò ben poco. Nell’arco di 3 - 4 giorni tutto iniziò a cambiare. Sarà perché sono sempre stato estroverso, amante della relazione sociale, ma alla fine della seconda settimana non solo io chiacchieravo più di prima, ma la poco loquace bambina, quanto alle chiacchiere, era riuscita a superare anche me! Il maestro Pisu, a quel punto si arrese:  un giorno, oramai scoraggiato, si alzò in piedi, e sbattendo con forza un pugno sulla cattedra, conscio della sua disfatta, rivolto a me disse urlante e rabbioso: “Marieddu, sei proprio irrecuperabile”!

Cari amici, ogni volta che queste scene mi ritornano in mente.. pensando al mio maestro Pisu, mi viene ancora da sorridere! Sapete perchè? Credo di non essere mai cambiato!

A domani.

Mario

giovedì, novembre 06, 2025

ARRIVA ANCHE IN ITALIA LA “RISI-PISCICOLTURA”: COLTIVARE RISO E ALLEVARE PESCI NELLA STESSA ACQUA. SI RADDOPPIA L’OBIETTIVO: MENO PRODOTTI CHIMICI E MAGGIORE EQUILIBRIO ECOLOGICO.


Oristano 6 novembre 2025

Cari amici,

La pratica agricola delle “RISIPISCICOLTURA” è arrivata di recente anche in Italia; non è, in realtà, una vera innovazione, perchè, soprattutto in Cina e in Vietnam, questo sistema misto viene praticato da secoli. Il principio è semplice e allo stesso tempo efficace: i pesci vengono introdotti nelle risaie dopo la semina e convivono con le piante di riso per tutta la durata del ciclo vegetativo. Ovviamente sono pesci comuni d’acqua dolce, come tinche e carpe o altre specie compatibili con l’ambiente della risaia, come il piccolo pesce giapponese medaka (Oryzias latipes).

Questo connubio tra coltivazione del riso e allevamento di pesci svolge nella risaia un ruolo cruciale. I numerosi pesci presenti si nutrono di larve di insetti, di alghe e di piccoli organismi dannosi per il riso, sostituendo così l’uso di pesticidi ed erbicidi; inoltre, le loro deiezioni, costituiscono un fertilizzante naturale, arricchendo il terreno di sostanze organiche e migliorandone la fertilità. Il risultato? La creazione di un ecosistema autosufficiente, in cui ogni elemento contribuisce alla salute dell’altro: il riso fornisce ombra e microhabitat ai pesci, e loro tengono l’acqua pulita, rendendola più ricca di nutrienti.

Amici lettori, indubbiamente questa doppia produzione crea indiscutibili benefici, sia dal punto di vista ambientale che economico. Ambientale, in quanto si ha una buona riduzione dei fitofarmaci di norma utilizzati nelle risaie tradizionali per controllare lo sviluppo di alghe e i numerosi parassiti; Economico, in quanto la presenza dei pesci, che riduce drasticamente la necessità di intervenire chimicamente, e in cambio diventa un buon introito economico. In sintesi: si ottiene un impatto ambientale più basso un prodotto finale più naturale con maggiore ritorno economico. E non è tutto.

Un altro beneficio rilevante è il miglioramento della biodiversità. L’ambiente della risaia “abitata” dai pesci diventa un rifugio per anfibi, insetti utili e uccelli acquatici, creando un microcosmo vitale che rafforza l’equilibrio ecologico del territorio. L’acqua rimane più pulita, la terra più fertile e le coltivazioni successive ne traggono vantaggio. Per il risicultore, poi, c’è il beneficio economico, ovvero una aggiuntiva fonte di reddito, rendendo la pratica interessante anche per le piccole aziende agricole che puntano sulla multifunzionalità e sulla sostenibilità.

Come prima accennato, da un po’ di anni, questa antica coltura orientale ha trovato casa anche in Italia, in particolare nel Ferrarese. Le varietà di riso coltivate sono Arborio e Carnaroli. Queste varietà vengono coltivate secondo questa tecnica, con risultati alquanto positivi. Gli avannotti (piccoli appena nati di specie ittiche autoctone) vengono introdotti nelle risaie, e, durante la crescita, si nutrono di larve di insetti potenzialmente dannosi per la coltura. Grazie alla loro presenza, si sviluppa un ambiente favorevole alla crescita del riso e si preserva la biodiversità tipica delle risaie. Poco prima della raccolta, la risaia viene svuotata e l'acqua defluisce nei canali. I pesci, ormai cresciuti, vengono rilasciati nei corsi d'acqua, dove continuano a contribuire alla tutela dell’ecosistema e del territorio.

Per far conoscere su larga scala questo nuovo tipo di coltura nel nostro Paese, di recente sugli scaffali di alcuni supermercati italiani è comparso un nuovo prodotto che ha incuriosito molti consumatori: il latte di riso Vemondo con la dicitura “coltivato con pesci in risaia”. L’immagine dell’etichetta, diventata virale dopo la segnalazione apparsa sulla pagina Facebook No signal – Comunicare male, ha suscitato reazioni contrastanti e un certo disorientamento. In molti si sono chiesti cosa significhi esattamente quella frase coltivato con pesci, nel dubbio se si trattava di una scelta di marketing o di un reale metodo produttivo. In realtà, dietro quell’indicazione si nascondeva una nuova (per l’Italia) pratica agricola ben precisa e sempre più diffusa in ambito biologico: la RISIPISCICOLTURA, un metodo sostenibile capace di unire la coltivazione del riso con l’allevamento di pesci all’interno della stessa risaia. La pubblicità aveva uno scopo preciso: invitare il  consumatore a partecipare attivamente alla valorizzazione del paesaggio agricolo e alla tutela della ricchezza naturale delle risaie, sostenendo gli agricoltori che adottano pratiche sostenibili come la risipiscicoltura.

Cari amici, nel mondo questa coltura mista è in continuo aumento. Secondo i dati riportati dalla FAO, l’adozione di questa tecnica ha portato a un incremento della produzione di riso da 6,5 tonnellate per ettaro a 9,3 tonnellate per ettaro. Inoltre la vendita del pesce allevato nei campi di riso ha generato entrate aggiuntive di buon livello per gli agricoltori. Contribuire a salvare il pianeta e migliorare il reddito dei lavoratori agricoli, credo che sia un ottimo risultato!

A domani.

Mario

mercoledì, novembre 05, 2025

IL RITORNO DELLA LETTURA DEL LIBRO CARTACEO. ORA ANCHE IN SARDEGNA, A DESULO, SONO NATE LE PRIME PANCHINE LETTERARIE DELLA SARDEGNA!


Oristano 5 novembre 2025

Cari amici,

In questo millennio caratterizzato dalla "iperconnessione" viviamo in modo frenetico e iperconnesso, dominato da smartphone, tablet e lettori e-book, una radicale trasformazione che ha fatto accantonare l'informazione su carta, facendo sì che il libro cartaceo scomparisse dalle mani, in quanto diventato obsoleto, ovvero da considerare un retaggio del passato. Eppure la carta stampata (ovvero giornali, libri e riviste) non è andata in estinzione: per quanto colpita, è sopravvissuta, lottando e restando in piedi, tanto che si intravede già un ritorno al cartaceo. Si,  numerosi lettori, inclusi molti giovani, stanno riscoprendo il fascino dei libri cartacei. Questo fenomeno, che potrebbe sembrare una sorta di nostalgia per un’epoca passata, in realtà si fonda su ragioni ben precise e profonde.

Si, amici, le ragioni di questo “ritorno” sono diverse, e, tra le principali, c’è il “piacere tattile e sensoriale” che la lettura su carta offre. A differenza degli e-book, un libro cartaceo ha un peso, una consistenza e un profumo. Sfogliare le pagine, sentire il fruscio della carta sotto le dita, vedere e toccare con mano il progresso nella lettura avanzando nello scritto, sono tutte sensazioni che arricchiscono; è un leggere diverso, un’esperienza concreta, che un dispositivo digitale non può assolutamente dare! Per molti, il libro stampato rappresenta una sorta di rifugio fisico, un oggetto che si può possedere e collezionare, in contrasto con l’evanescenza del digitale. Ma c’è anche dell’altro, molto altro!

Un’altra motivazione è di ordine psicologico: il libro cartaceo, con la sua presenza, il suo peso tra le mani, aumenta la nostra capacità di concentrazione. Leggere su uno schermo digitale crea frequenti distrazioni, dalle notifiche alle e-mail, dai messaggi alla navigazione sul web; sono tutte intrusioni che interrompono il flusso della lettura e rendono difficile l’immergersi pienamente nel testo. Al contrario, un libro cartaceo permette una lettura più focalizzata, un’immersione totale nella storia o nel suo contenuto, vissuto in un silenzio ovattato senza interruzioni. Questo non solo migliora la comprensione e la memoria del testo, ma favorisce anche una sorta di meditazione attiva, costituendo un momento di stacco dall'alienante e caotico mondo digitale, cosa che contribuisce al nostro benessere mentale.

Amici, per agevolare questa riscoperta della carta stampata, per invitare e incentivare la lettura, in molte città, oltre che in piccoli e grandi centri, si stanno allestendo, nelle piazze e nei luoghi di ritrovo, le cosiddette “PANCHINE LETTERARIE”. Sono  vere oasi di relax, che invitano le persone non solo ad utilizzarle come strumenti di riposo, ma anche come un dolce invito a rilassarsi, come un sorridente stimolo alla lettura. Riposare le stanche membra con un libro in mano, trascorrere dei momenti di serenità sfogliando e leggendo un libro, aiuta ad aprire la mente e il cuore, oltre ad agevolare il riposo fisico.

Numerose le città che hanno già adottato questo sistema, da Napoli a Milano, da Porto Empedocle a San Giorgio a Cremano, da San Severo a Trevignano, solo per citarne alcune. Queste “Panchine letterarie” risultano davvero accattivanti: spesso a forma di libro aperto, invitano gli utilizzatori alla lettura. Sono panchine che creano luoghi di incontro, di riflessione e di ispirazione, arricchendo il paesaggio con opere d'arte che celebrano autori, libri e personaggi famosi. Il loro obiettivo principale è promuovere la lettura e avvicinare le persone alla cultura in modo originale e suggestivo.

Amici, la Sardegna finora non aveva ancora messo in atto questa iniziativa: è stato DESULO il centro sardo che ha dato inizio a questa bella iniziativa, che coniuga arte, letteratura e memoria storica, trasformando positivamente gli spazi urbani di Desulo. Sono state già installate le prime “Panchine Letterarie”, vere opere d’arte uniche, realizzate da talentuosi artisti sardi in collaborazione con l’associazione locale CCN.

P. di Pina Monne

Tra le opere installate spiccano quelle firmate da due nomi noti nel panorama artistico sardo: Pina Monne, grande artista con un profondo legame con la sua Sardegna, che ha dato il suo contributo con uno stile inconfondibile e carico di emozione; e Michele Corriga, architetto e cultore dell’ana-formismo, una disciplina pittorica particolare che si basa su illusioni ottiche, che in questa situazione ha interpretato l’anima del territorio attraverso la sua visione creativa.

P. di Michele Corriga

Queste panchine, amici lettori, non sono semplici sedute, ma tele a cielo aperto per passanti e residenti, che parlano di un passato fatto di sacrifici e dignità. L’obiettivo è duplice: abbellire il paese e lanciare un potente messaggio di riflessione sul patrimonio umano e culturale della Barbagia. Il progetto letterario realizzato dal Comune di Desulo è nato con la consapevolezza che questo Comune montano ha tratto la sua vera ricchezza e la sua cultura dalle persone più umili e laboriose che hanno animato le sue strade. Ogni panchina è un invito a meditare su “ciò che si è stati”, fornendo spunti di riflessione per guardare con consapevolezza al futuro.

Cari amici, un grande plauso al Comune di Desulo, con la speranza che tanti altri lo imitino! In questo modo le “Panchine Letterarie” diventano un gradevole “biglietto da visita”, un nuovo e suggestivo percorso turistico e culturale, destinato a lasciare un segno in coloro che si soffermeranno ad ammirarle e utilizzarle!

A domani.

Mario

 

martedì, novembre 04, 2025

CURIOSITÀ E STRANEZZE DELLA NATURA: IL FUNGO “OPHIOCORDYCEPS UNILATERALIS”, UN FUNGO PARASSITA CHE TRASFORMA LE FORMICHE IN ZOMBIE!


Oristano 4 novembre 2025

Cari amici,

La natura è davvero un mondo così variegato e straordinario, che è capace di stupire ogni giorno che passa in mille maniere! Non basterebbe un’enciclopedia di migliaia di volumi a descrivere la gran parte delle sue particolarità, perché se ne scoprono sempre di nuove! Oggi voglio parlare con Voi, amici lettori, di uno strano, meglio curiosissimo fungo, l’OPHIOCORDYCEPS UNILATERALIS, capace di insediarsi nella mente delle formiche trasformandole addirittura in Zombie! Vediamo insieme le particolarissime caratteristiche di questo fungo.

Considerato che in natura, sia nel regno animale che in quello vegetale, la sopravvivenza è vitale, questa è spesso ottenuta con tanto ingegno, adattabilità e a volte anche crudeltà. Uno degli esempi più straordinari e inquietanti di questa lotta per la sopravvivenza è il fenomeno detto della "FORMICA-ZOMBIE". A creare questo stato di sudditanza, questa forma di controllo mentale, è un fungo parassita, che trasforma le ignare formiche in strumenti viventi per la sua riproduzione. Vediamo come.

Il Protagonista di questa forma di aggressione verso le formiche è, come accennato, il fungo parassita OPHIOCORDYCEPS UNILATERALIS, che ha sviluppato un ciclo di vita complesso e incredibilmente specifico a danno di un’altra specie, addirittura animale! Questo fungo si è talmente evoluto da riuscire ad infettare le formiche, in particolare quelle appartenenti alla tribù Camponotini, manipolandole in modo tale da averne il totale controllo mentale, per riuscire a soddisfare le proprie necessità riproduttive. Vediamo come avviene questo processo di "ZOMBIFICAZIONE".

L’infezione inizia quando una spora del fungo, fluttuante nell'aria, atterra su una formica e si attacca al suo corpo. Lentamente il fungo entra all'interno della formica e inizia a crescere, invadendo i tessuti e raggiungendo il cervello e i muscoli. Attraverso il rilascio di specifici messaggeri chimici, il fungo interferisce con il sistema nervoso della formica prendendone il controllo, e di conseguenza impedendole di agire secondo la sua volontà. A questo punto la formica, ormai infetta, si isola dal gruppo, e si muove in modo anomalo e barcollante.

Il processo di zombificazione del fungo prosegue spingendo la formica ad arrampicarsi su una pianta e a fermarsi ad un’altezza utile, di solito 20-25 cm da terra. A questo punto, il fungo costringe la formica a mordere fortemente uno stelo della pianta con le mandibole (definito morso della morte), ancorandosi così definitivamente. Inizia così la riproduzione del fungo. Dal cadavere della formica, in particolare dalla testa, emerge il corpo fruttifero del fungo. Questo corpo contenente nuove spore, una volta esposto all'aria, è pronto ad infettare altre formiche e ricominciare così il ciclo.

Amici, questo terribile fungo è diffuso principalmente nelle foreste tropicali del Sudest asiatico e del Sud America, ma non solo: funghi simili del genere Cordyceps si trovano anche in Italia. Come accennavo prima, la natura è davvero straordinaria, nel senso che, se quanto descritto prima vi sembra inquietante o fantascientifico, sappiate che il “controllo mentale” messo in atto dall’ Ophiocordyceps Unilateralis non è l’unico! È, infatti, una strategia comune a numerosi parassiti. Un altro esempio è quello del LEUCOCHLORIDUM PARADOXUM, un verme piatto che costringe il suo ospite intermedio, una lumaca, a gonfiare ed agitare le antenne così da risultare più visibile agli uccelli e permettergli così di infestare un organismo più grande. 

Cari amici, la storia della FORMICA-ZOMBIE è un esempio sorprendente della complessità delle interazioni tra parassiti e ospiti nel mondo della natura. I meccanismi utilizzati continuano ad essere studiati dagli scienziati, non essendo ancora molto chiari, ma probabilmente quello che in termini tecnici viene chiamato “controllo mentale parassitico” è il risultato della produzione, da parte del parassita, di sostanze chimiche che mimano i neurotrasmettitori e gli ormoni dell’ospite, il quale li riconosce come propri e ne esegue quindi i “comandi”. Millenni di co-evoluzione sono serviti perché questi parassiti imparassero a piegare i loro sfortunati ospiti ai propri fini: quanto tempo servirà agli scienziati per comprendere del tutto gli straordinari segreti della natura? 

A domani.

Mario

lunedì, novembre 03, 2025

I CURIOSI, INTERESSANTI MODI DI DIRE. IL SIGNIFICATO DELL’ESCLAMAZIONE, SCARAMANTICA - AUGURALE, “IN BOCCA AL LUPO”.


Oristano 3 novembre 2025

Cari amici,

Tutti i “MODI DI DIRE” che correntemente utilizziamo derivano da un passato vissuto, nel senso che essi traggono la loro origine da abitudini, tradizioni o eventi passati, che, diventati avvenimenti importanti, hanno poi fatto sì che la gente, per utilizzarne il ricordo, iniziò a coniare determinate espressioni che poi, con il trascorrere del tempo, sono entrate nel linguaggio corrente. Ho fatto questa premessa per parlarvi oggi di una espressione che io considero molto curiosa, in quanto, pensando alla possibile origine, ha avuto non una ma almeno due interpretazioni.

A questo PARTICOLARE modo di dire “IN BOCCA AL LUPO”, inteso come espressione "scaramantica – augurale", in passato e per un lungo periodo si è risposto con la frase “CREPI IL LUPO”. L’origine di questa espressione (almeno questa è la teoria più accreditata) viene fatta risalire al mondo antico della caccia. Questa era praticata nei boschi, dove il lupo era considerato un pericolo concreto. L’espressione "Crepi il lupo", dunque, è antifrasi (inversione di significato), che si usa per rispondere all'augurio "In bocca al lupo: dire l'opposto per allontanare la sfortuna. La risposta “Crepi il lupo!", era, dunque, un modo per sconfiggere il pericolo e rafforzare lo scongiuro, inteso come "che il lupo muoia". In sintesi, un augurio di buona fortuna, rivolto a chi si apprestava ad affrontare un rischio, come quello di incontrare il lupo nel bosco.

Vediamo, invece, la seconda teoria, usata successivamente, che, alla stessa frase, viene data una risposta quasi contraria: “VIVA IL LUPO”. Verifichiamo le motivazioni, ovvero il perché di questo cambio di vedute sulla stessa, identica espressione. Questo cambio  di visione, nei confronti del lupo, deriva da un fatto reale e concreto: seppure il lupo sia un animale feroce, le femmine di lupo, ovvero le madri-lupo che accudiscono i piccoli, per trasferirli in caso di pericolo, li prendono in bocca con tanta tenerezza! La lupa, per proteggere i propri figlioletti in caso di pericolo, li prende delicatamente in bocca, trasferendoli con grande attenzione da una tana all’altra. Ecco il motivo del cambio di interpretazione della frase!

Dire “IN BOCCA Al LUPO” significa, dunque, augurare amore e protezione, come fa una madre nei confronti dei figli, per cui l’espressione è considerata uno degli auguri più belli che si possa fare ad una persona! È un augurio di speranza: che la persona che lo riceve possa essere protetta e sicura dalla cattiveria che la circonda, come la lupa protegge i suoi piccoli tenendoli con delicatezza in bocca. Ecco perché, ora, a questa espressione è giusto che si risponda “VIVA IL LUPO”, oppure “GRAZIE” e non più “CREPI”, come in passato.

Amici, l’espressione “In bocca al lupo”, come accennato prima, è certamente un augurio scaramantico, e viene il più delle volte utilizzato per scongiurare una possibile situazione sgradita, utilizzando questa invocazione augurale. Insomma, quest’espressione è un auspicio di speranza, dalla funzione apotropaica, un augurio che a volte presenta contorni anche bizzarri, complessi. Contorni contrastanti anche nell’interpretazione, se pensiamo al contrasto, mai rimarginato, tra chi – in risposta all’augurio – replica “crepi il lupo” e chi invece ribatte “viva il lupo”. Col passare del tempo, però, come ben sappiamo tutto cambia: cambia la vita e, adeguandoci, cambia il modo di viverla!

Che dire, amici, l’espressione “IN BOCCA AL LUPO” è  un augurio particolarmente complesso. È uno degli enigmi più intricati e interessanti che fanno ormai parte della lingua italiana; un enigma che possiamo considerare altalenante, che possiamo quasi paragonare ad un “Telefono senza fili”, dalla ricezione incostante, a tratti, che va spesso interpretata. Le parole, che costituiscono la nostra espressione, sono come la nostra vita: nascono, si evolvono e muoiono. La loro, però, è una funzione importante: trasmettere un significato. Il nostro linguaggio è un passaparola continuo, fatto anche di notevoli rivisitazioni e interpretazioni, spesso anche distanti dal contesto originario.

Cari amici, personalmente sono sempre stato "positivo", ovvero propenso ad usare l’interpretazione che vede anche il lupo nella sua funzione positiva; seppure bestia feroce, il lupo è tenero e protettivo nei confronti della prole, ovvero delle generazioni successive. Per cui io, all’espressione “IN BOCCA AL LUPO”, risponderò sempre “VIVA IL LUPO”!

A domani.

Mario

domenica, novembre 02, 2025

LA CASUALE, INCONSAPEVOLE SCOPERTA DELL'ANTIBIOTICO FATTA DAI MEDICI DELL'ANTICO EGITTO: ERA NEL PANE CON LA MUFFA.


Oristano 2 novembre 2025

Cari amici,

Siamo alle porte dell'inverno e le malattie da raffreddamento stanno mettendo a letto tante persone. In questi casi uno dei medicinali più usati è l'antibiotico, Anticamente, però, quando la medicina non aveva a disposizione i medicinali di oggi, le cure venivano praticate in modo intuitivo, mancando sia medici che medicine appropriate. I malati venivano perciò curati da dei “GUARITORI”, che utilizzavano conoscenze pratiche, formule magiche e pratiche religiose. L'antico Egitto era celebre per i suoi guaritori, tanto bravi da essere richiesti anche da pazienti stranieri, non ultimi i re dei Paesi confinanti. Le loro cure per quei tempi erano ritenute di buona efficacia, seppure si basassero più sull’intuizione che sulla conoscenza scientifica.

Certi guaritori egiziani, pensate, curavano le infezioni in un modo curioso e particolare: davano ai malati da mangiare del pane raffermo ammuffito, che risultava alquanto efficace per la sua azione svolta, che in qualche modo riusciva a guarire il malato. In realtà l’efficacia era data dall’azione antibiotica svolta da quelle muffe presenti sul pane, che, seppure allora se ne ignorava la capacità antibiotica, funzionava eccome! Solo molto più tardi le reali proprietà possedute furono scoperte da due importanti studiosi: Vincenzo Tiberio prima (alla fine dell’Ottocento) e da Alexander Fleming, poi, nel 1928. Le muffe riscontrate dagli Egizi sul pane raffermo erano quelle del genere Penicillium, in particolare da ceppi come Penicillium chrysogenum e Penicillium notatum, poi scoperte dagli studiosi prima menzionati

I medici-guaritori dell’Antico Egitto, dunque, utilizzando il pane ammuffito, furono dei veri precursori dell’utilizzo della moderna penicillina, capace, infatti, di inibire nell’individuo colpito la crescita dei pericolosi batteri. Gli archeologi hanno trovato degli scritti, risalenti a ben 5.000 anni fa, che provano l'uso in Egitto del pane ammuffito contro le infezioni. Amici, il cibo è stato sempre un importante veicolo per la medicina, ma lo stretto legame che fu scoperto casualmente tra la muffa ed il pane, allora cibo essenziale, è da considerarsi una scoperta eccezionale, quasi un miracolo dell’antica medicina, quello di essere arrivati alla penicillina senza sapere della sua esistenza!

Amici, per tanto tempo abbiamo considerato i medici Greci e Romani come i precursori della scienza medica moderna, ci basti pensare che tutt'ora i neo laureati in medicina pronunciano il "giuramento di Ippocrate", prima di accedere alla professione di dottore. Il testo del giuramento risale al IV secolo a.C. a riprova di quanto abbia influito questa figura nella cura dell'uomo. Ma, in realtà, le successive scoperte archeologiche, in particolare quelle degli ultimi 30 anni, hanno rivoluzionato le precedenti convinzioni, rivalutando i medici dell’Antico Egitto.

Gli archeologi hanno ritrovato tantissimi testi di medicina risalenti all'Antico Egitto, che costringono a riposizionare la storia della medicina. Giorno dopo giorno si sta scoprendo un universo medico attorno all'Egitto davvero incredibile e strettamente legato alla gastronomia. Un popolo, quello egizio, che ha usato la medicina naturale, l'unica allora disponibile, ricca di esperimenti di cui si ritrovano riscontri nella scienza dei secoli dopo. A quei tempi la cura era solo empirica: quel signore sta male, il pane vecchio lo ha fatto stare meglio? Ergo il pane raffermo cura le malattie, non buttiamolo quando non ci serve, anzi conserviamolo perché utile. Questa era la filosofia di allora.

Cari amici, l’intelligenza e l’intuizione dell'uomo hanno funzionato in tutti i tempi, in particolare nella scoperta di procedimenti utili alla salute umana. Agli egizi dobbiamo, quindi, anche l’intuizione dei benefici che le muffe del genere Penicillium potevano dare, e così è stato. Allora il pane ammuffito veniva usato sia come antibiotico interno che esterno, utilizzato anche "strofinato sulle ferite infette". Era un rimedio efficace, che possiamo considerare il primo tipo di antibiotico ante litteram!

A domani.

Mario