mercoledì, novembre 19, 2025

IL SERIO PROBLEMA DELLO SMALTIMENTO DELLE SCORIE NUCLEARI. ECCO L'INNOVATIVO METODO DELLA VETRIFICAZIONE.


Oristano 19 novembre 2025

 Cari amici,

Che L’ENERGIA NUCLEARE sia una fonte energetica di grandissima potenza è certamente un dato di fatto! Ha, però, una contropartita difficilissima da gestire: LE SCORIE. Come smaltire questi residui della produzione di energia, ovvero occuparsi della gestione delle scorie nucleari, è una delle sfide più complesse da affrontare, stante la transizione energetica, sia per la pericolosità dei materiali coinvolti, sia per i tempi lunghissimi della loro radioattività residua. Ebbene, dopo gli innumerevoli tentativi portati avanti per creare dei luoghi particolari per la custodia in sicurezza di queste scorie,  sta prendendo piede un nuovo sistema, che appare come una soluzione promettente.

Questo metodo innovativo, consistente nel la “VETRIFICAZIONE DELLE SCORIE”, si avvale di una tecnica avanzata che risulta altamente efficace, e consiste nell’immobilizzazione dei rifiuti nucleari all’interno di una matrice vetrosa, capace di inglobare gli elementi radioattivi e renderli chimicamente stabili. Questa metodologia garantirebbe la sicurezza a lungo termine dei depositi appositamente creati, evitando la dispersione delle sostanze pericolose nell’ambiente. Ma vediamo nel dettaglio come avviene la vetrificazione delle scorie, come funziona e come sfruttarla per un futuro più sicuro.

Amici, il vetro, per le sue proprietà strutturali e la sua durabilità, può essere considerato non solo un contenitore, ma anche un vero e proprio scudo contro le radiazioni. La VETRIFICAZIONE è un processo chimico-fisico che consente di trasformare le scorie nucleari ad alta attività radioattiva in un materiale vetroso stabile e resistente. Il principio alla base della tecnica è semplice ma altamente ingegnerizzato: il materiale radioattivo viene miscelato con vetro borosilicato e portato a temperature elevatissime, intorno ai 1.100-1.200 °C. A queste condizioni, la miscela fonde e una volta raffreddata forma un solido vetroso in cui gli isotopi radioattivi vengono intrappolati all’interno della struttura disordinata del vetro.

Il risultato è un blocco omogeneo che riduce drasticamente la possibilità di dispersione dei radionuclidi, garantendo un’efficace immobilizzazione dei rifiuti nucleari. Questa forma solida, non solubile in acqua e altamente resistente al deterioramento, si presta bene sia allo stoccaggio geologico profondo, sia al deposito in strutture protette di superficie. Inoltre, la compatibilità con materiali come vetroceramiche e leghe resistenti apre nuove prospettive per il miglioramento delle prestazioni a lungo termine.

La vetrificazione è indicata per i rifiuti radioattivi ad alta attività e lunga emivita, in particolare quelli in forma liquida o semi-liquida derivanti dal riprocessamento del combustibile esausto. Non è invece adatta a materiali solidi compatti o metalli, che non si amalgamano con la matrice vetrosa. Anche in Italia esistono progetti pilota, come quelli sviluppati da ENEA, che studiano l’applicazione di questa tecnologia nella prospettiva di trovare una soluzione anche per il Deposito Nazionale per i rifiuti radioattivi.

Cari lettori, in realtà il problema è davvero di grandissima importanza per il futuro energetico del pianeta che, secondo alcuni, non potrà mai fare a meno del nucleare, che potrà essere migliorato ma non escluso. La vetrificazione delle scorie, quindi, anche secondo fonti autorevoli come l’IAEA e la National Academies of Sciences (USA), sarà una tecnica assolutamente da adottare, in quanto i radionuclidi che possono essere efficacemente incorporati in vetro borosilicato includono: Cesio-137, Stronzio-90, Plutonio e attinidi minori (es. americio, curio, neptunio). Questi isotopi sono altamente radiotossici e caratterizzati da emivite lunghe (fino a decine di migliaia di anni), motivo per cui richiedono un contenimento sicuro e stabile come quello offerto dal vetro. I test di durabilità e stabilità condotti in ambienti simulati confermano che questi elementi, una volta inglobati nella matrice vetrosa, mostrano una drastica riduzione del rischio di rilascio.

Cari amici, credo proprio che la vetrificazione sia un metodo di grande interesse. Numerosi Paesi hanno già implementato la vetrificazione delle scorie nucleari ad alta attività, in impianti industriali o pilota. Ecco i Paesi dove la vetrificazione risulta già in atto: Francia, Russia e Giappone. In Italia, il progetto del Deposito Nazionale Unico rappresenta un passaggio cruciale nella gestione dei rifiuti radioattivi. La vetrificazione potrebbe giocare un ruolo fondamentale in questo contesto, fornendo una matrice solida e stabile per le scorie ad alta attività, rendendo più sicuro e sostenibile il loro stoccaggio nel Deposito. C'è da ben sperare...

A domani.

Mario

martedì, novembre 18, 2025

I RISCHI E I PERICOLI DELL'INTRODUZIONE DI SPECIE ALIENE NELL’AMBIENTE. L'ESEMPIO DEI CONIGLI IN AUSTRALIA.


Oristano 18 novembre 2025

Cari amici,

La natura, che ha perfezionato nel corso dei millenni le sue regole, distribuendo nelle varie parti del mondo specie vegetali e animali, REGOLANDONE L'QUILIBRIO, è un “Unicum” che, credo, non debba mai essere violato dall’uomo, in quanto sconvolgere questo equilibrio può causare danni ingenti e spesso irreversibili. Tanti gli esempi che dimostrano la rottura di questo fragile equilibrio, con l’introduzione di  specie aliene in zone non naturalmente previste dove diventano invasive, creando importanti perdite di biodiversità, con un forte impatto significativo sul funzionamento degli ecosistemi. Ecco, oggi voglio riflettere con Voi su uno di questi improvvidi interventi effettuati dall’uomo: l’introduzione dei conigli in Australia.

Oggi possiamo considerare questa “errata introduzione” una storia antica, essendosi verificata nel 1859. Ma ripercorriamo insieme quanto accadde. In quei tempi l’Australia era considerato un mondo nuovo, che iniziava ad essere colonizzato in gran parte dall’Europa. Ebbene, un certo Thomas Austin dimorante nello Stato di Victoria, grande amante della caccia sportiva, liberò nella sua tenuta 24 conigli europei, animali fino ad allora sconosciuti in Australia. Un gesto apparentemente semplice, ma che cambiò radicalmente l’equilibrio naturale di quel Continente.

Questi animali trovarono, in quei vasti e vergini luoghi, un ambiente ideale, alquanto simile a quello europeo, ma privo di predatori naturali! Come ben sappiamo il coniglio è un animale alquanto prolifico, con una riproduzione veloce che può arrivare fino a sei cucciolate l'anno. Basti pensare che in pochissimo tempo (nel 1920) i conigli si erano moltiplicati arrivando ad un’invasione che arrivò a contare miliardi di esemplari! Il loro consumo di foraggio produsse una forte erosione del suolo, desertificazione e impatti gravissimi sull’agricoltura. Per l’Australia fu un costo enorme: attorno ai 350 milioni di dollari l’anno.

Amici, questa crescita esponenziale senza precedenti possiamo immaginare l'effetto che ebbe sull'ambiente: fu veramente devastante! Un cambio sconvolgente si abbatté sull’equilibrio precedente: non solo – come detto prima - sul suolo, con la scomparsa della vegetazione nativa e la desertificazione, ma anche sulle numerose specie autoctone, soprattutto i piccoli marsupiali, che furono spazzate via. Un danno terribile, con tanti agricoltori in ginocchio, colpiti economicamente in modo ingente. Ovviamente si tentò di rimediare al terribile danno.

Nel tentativo di contenere il problema, si cercò di trovare dei possibili rimedi. Oltre ad introdurre delle lunghe recinzioni, si introdussero delle volpi rosse anch'esse alloctone, che però peggiorarono la situazione. Come per i conigli, esse si moltiplicarono per l’assenza di predatori, iniziando a fare stragi di volatili e marsupiali autoctoni dell’Australia, che non avevano difese nei confronti di questo insolito carnivoro. Il progetto, a quel punto, si rivelò un completo fallimento, con un ulteriore sconvolgimento del precedente ecosistema. La rapida diminuzione dei numerosi uccelli, divorati dalle volpi rosse,  fecero aumentare il numero degli insetti, prima mangiati dagli uccelli, aumentando così quella catastrofe indotta dall’introduzione dei conigli, e che furono tra le cause della massiccia siccità degli Anni ’20. Durante questa fase, migliaia di koala vennero sterminati, sia per sfamare le persone che per la falsa voce che potessero essere loro i responsabili di questo enorme squilibrio nell’ecosistema.

Nel 1950, dopo diversi studi scientifici, si misero in atto le guerre biologiche. La scienza mise a disposizione un rimedio: diffondendo tra i conigli il virus della mixomatosi, capace di decimarli al 99%. Tuttavia, la lotta non fu semplice: dopo la morte di un gran numero di conigli, la specie si adattò velocemente al virus, sviluppando una certa resistenza. Dopo la scomparsa di 500 milioni di conigli, i sopravvissuti svilupparono una risposta organica alla malattia e i loro figli risultarono essere immuni al virus. Quelli di oggi sono gli eredi di quei 24 esemplari introdotti come “specie aliena” nel 1859.

Questo episodio, cari lettori, è divenuto metafora e allo stesso tempo ammonimento, circa la complessità degli equilibri naturali e delle conseguenze, spesso imprevedibili, causate dagli improvvidi interventi umani sugli ecosistemi. L’introduzione di specie aliene, come quella dei conigli in Australia, è un grande esempio del cattivo comportamento dell’uomo, che anche oggi continua a violare i millenari equilibri degli ecosistemi naturali. Quello riportato è solo uno dei tantissimi esempi che continuano oggi come ieri (di esempi se ne potrebbero fare migliaia, come ad esempio il recente problema del granchio blu), e che costituiscono la prova evidente delle terribili devastazioni che le specie invasive possono causare negli ecosistemi locali.

Cari amici, è tempo che l’uomo smetta di giocare con l’ambiente!

A domani.

Mario

lunedì, novembre 17, 2025

LA SCOPERTA RIVOLUZIONARIA, DI JULIAN BROWN: TRASFORMARE LA PLASTICA IN CARBURANTE PULITO UTILIZZANDO SOLO L’ENERGIA SOLARE.


Oristano 17 novembre 2025

Cari amici,

Ci sono scoperte che in un primo tempo sono state giudicate solo fantasiose, e che, invece, una volta realizzate, hanno rivoluzionato in modo straordinario il mondo. È avvenuto altre volte nella storia e, ora, potrebbe essere la volta di un’altra scoperta che, una volta perfezionata, potrebbe cambiare volto al serio problema dell’inquinamento creato dalla plastica. A cercare di trovare soluzione ad un problema così grave potrebbe essere proprio un giovanissimo inventore, tale JULIAN BROWN, che ha sviluppato un rivoluzionario sistema di pirolisi a microonde alimentato da energia solare, in grado di trasformare i rifiuti plastici in carburanti puliti come benzina, diesel e jet fuel, riducendo così inquinamento e sprechi.

Che la plastica sia ormai, a detta di tutti, “La peste di questo millennio”, è una serissima realtà. Viviamo un mondo in cui ogni anno si producono centinaia di milioni di tonnellate di plastica, e se ne riciclano solo una minima parte, creando in terra e in mare un inquinamento difficilissimo da combattere. Anche gli studi più avanzati continuano a cercare una soluzione a questo inquinamento, ipotizzando sul “COME” poter fronteggiare questo problema, e, magari, trasformare questo rifiuto in risorsa! Ed ecco, che è apparsa all’orizzonte una luminosa, possibile soluzione.

Negli USA, opera un giovane ricercatore statunitense, tale Julian Brown, di appena 22 anni, appassionato di ecologia, che, nell’intento di dare una mano per risolvere il problema dell’inquinamento della plastica, si è ingegnato a trovare una soluzione; prova e riprova, ha costruito un particolare sistema compatto e poco costoso, che ha chiamato “PLASTOLINE”: un aggeggio che può essere definito low-cost, ma che trasforma i rifiuti plastici in carburante liquido, pronto all’uso. Un’idea semplice ma geniale, nata in un garage, che potrebbe risolvere il terribile inquinamento creato dalla plastica.

La tecnologia messa in atto da Julian Brown si basa su un processo noto come pirolisi, già utilizzato in ambito industriale ma spesso con costi e complessità elevate. PLASTOLINE, invece, è un reattore pirolitico compatto e accessibile, che consente di convertire vari tipi di plastica (come polietilene e polipropilene) in carburante liquido – benzina, diesel e kerosene – in un modo relativamente sicuro e a basso costo. Il funzionamento è semplice: la plastica viene riscaldata in un ambiente privo di ossigeno, evitando la combustione. Le alte temperature scompongono i polimeri plastici in molecole più piccole che, una volta condensate, formano combustibili liquidi.

Amici, secondo Julian Brown, il carburante prodotto può essere utilizzato per alimentare generatori, fornelli o piccoli motori, ed è una risorsa preziosa soprattutto in contesti dove l’accesso all’energia è limitato e i rifiuti abbondano. L’obiettivo di Brown, con la sua interessante invenzione “Plastoline”, non è quello di competere con i colossi dell’energia, ma quello di offrire una soluzione a quelle Comunità che non hanno accesso a sistemi di riciclo o smaltimento avanzati. E proprio in questi contesti  (villaggi rurali, aree isolate o in via di sviluppo), che la combinazione tra abbondanza di rifiuti plastici e scarsità di carburante rappresenta una criticità quotidiana.

I crescenti rifiuti plastici sono un serio problema da affrontare. Secondo l’OCSE, solo il 9% dei rifiuti plastici prodotti nel mondo viene effettivamente riciclato. Il resto finisce in discarica, viene bruciato o, peggio, disperso nell’ambiente. Le tecnologie di riciclo meccanico tradizionale sono spesso limitate a pochi tipi di plastica e non riescono a gestire i rifiuti misti o sporchi. In questo scenario, le tecnologie di riciclo avanzato come la pirolisi stanno guadagnando attenzione, ma devono ancora superare ostacoli legati alla sostenibilità economica, all’impatto ambientale e alla sicurezza operativa. Plastoline prova a colmare questo vuoto, con un approccio open source, leggero e replicabile.

Cari amici, gli studi continuano, perché una soluzione deve assolutamente essere trovata! Plastoline si propone di essere una prima risposta a questo problema: una micro-tecnologia circolare, adattabile localmente, che riduce l’impatto ambientale dei rifiuti e al tempo stesso offre energia a basso costo. La storia di JULIAN BROWN è un esempio potente di intraprendenza giovanile e innovazione sostenibile. Julian è un ragazzo con un’idea semplice, realizzata con materiali accessibili e tanta autodidattica, che sta già facendo parlare di sé per l’impatto potenziale della sua invenzione. A Lui il nostro grazie!

A domani.

Mario

domenica, novembre 16, 2025

LA CURIOSA STORIA DEI MODI DI DIRE. ECCO QUELLA DEL FAMOSO DETTO “ANDARE A RAMENGO”.


Oristano 16 novembre 2025

Cari amici,

Il curioso modo di dire "ANDARE A RAMENGO" ha un'origine molto antica ed è legata al nome di una cittadina che esiste ancora oggi, che si trova vicino ad Asti, e che in realtà si chiama ARAMENGO. Queste espressione ha un significato alquanto negativo, in quanto “Andare a ramengo” significa "finire male", ovvero, “andare in rovina, in bancarotta". Ma vediamo per quale ragione è nata questa frase e soprattutto perché è riferita ad una località ben precisa: il paese di ARAMENGO.

Per capire meglio le origini di questo modo di dire dobbiamo tornare indietro nel tempo, ovvero all’Alto Medioevo, quando Asti era la capitale di un Ducato di origine longobarda (dal VI al IX secolo). Nel Ducato di Asti, all’epoca controllato dai Longobardi, una legge stabiliva pene severe per chi si macchiava di colpe legate al patrimonio, soprattutto bancarotta e fallimento. I responsabili venivano allontanati dal luogo dove vivevano e mandati a scontare la pena in una sorta di confino agli estremi del territorio. Non proprio come oggi, che magari si danno alla politica e sistemano i loro guai!

La località destinata all’espiazione era ARAMENGO, un comune posto tra le province di Asti e di Torino, dove esistevano un tribunale temuto per la sua severità e un luogo dove la detenzione era molto dura. Parafrasando “questo viaggio ad Aramengo”,  non certo una gita di piacere ma di dolore, nacque la locuzione ANDARE A ARAMENGO oppure MANDARE AD ARAMENGO. La caduta della A iniziale del nome per ragioni eufoniche (cioè, di buona pronuncia) fu rapida e perciò ecco che il modo di dire si semplificò in  ANDARE o MANDARE A RAMENGO!

Ma, amici lettori, c’è anche chi sostiene che il detto abbia un’origine leggermente diversa, nel senso che deriverebbe dalla parola latina “AD RAMINGUM”, cioè, allontanarsi dal proprio luogo. La parlata popolare, come ben sappiamo, non segue molto le regole della grammatica, e il popolo fece presto a trasformare il vocabolo latino andare AD RAMINGUM”, cioè, allontanarsi, nel maccheronico Aramengo, come quel luogo designato per chi veniva allontanato dalla città per insolvenza, come prima detto.

Amici, in particolare nel Nord Italia, andare ad Aramengo (o a ramengo, come poi è entrato nell'uso comune) divenne presto una locuzione popolare, diffusa prima in Piemonte e nella Lombardia occidentale, e poi, con l'unità d'Italia, questo modo di dire si propagò all'intera Penisola. Oggi, cari lettori, il comune di Aramengo non solo non è scomparso ma è vivo e vegeto, situato com’è in una splendida e invidiabile posizione collinare. È un bel paesino, posto tra il verde delle colline astigiane, con poche centinaia di abitanti, celebre per importanti laboratori di restauro, nonché per il tartufo bianco, i salumi, il miele, la carne bovina e buone bottiglie di freisa e barbera!

Tutto considerato, credo che il comune di Aramengo merita una visita, in primis per la sua spettacolare posizione sulle colline, fra la provincia di Asti e quella di Torino, sia per i prodotti alimentari prima menzionati. Tra la bellezza dei luoghi, aria buona, ottimi vigneti e campi di grano e prodotti alimentari eccellenti, una visita appare quasi d’obbligo! Allora se qualcuno, anche in modo scherzoso ci sorride e con una battuta ci invita ad “ANDARE A ARAMENGO!”, credo che ci potremmo anche pensare!

A domani amici lettori.

Mario

 

sabato, novembre 15, 2025

SARDEGNA. ANTICHI RICORDI DEL PASSATO DA CONSERVARE: IL MULINO AD ACQUA DI OLZAI.


Oristano 15 novembre 2025

Cari amici,

Che l’evoluzione abbia, giorno dopo giorno, modificato la vita dell’uomo è una realtà che tutti noi possiamo toccare con mano. Anche solo nel corso di una vita, ovvero in media in meno di un secolo, le scoperte hanno portato straordinari cambiamenti, in particolare nel mondo del lavoro,  a volte addirittura epocali. Ho fatto questa premessa per parlarvi oggi di un antico “Mulino ad acqua”, un tempo strumento indispensabile per la macinatura dei cereali, quando la corrente elettrica era ancora da venire e bisognava sfruttare al meglio le forze della natura. Questo antico mulino si trova in Sardegna ad OLZAI. 

Si, amici, in Sardegna, ad Olzai, nel cuore della Barbagia, si trova un importante mulino ad acqua, “SU MULINU VETZU”, (il mulino vecchio), realizzato alla fine del Settecento ed operativo nell’Ottocento. Oggi è ancora perfettamente funzionante, ed è famoso anche per essere l'unico mulino ad acqua a ruota verticale ancora in funzione nell’isola. Il mulino sorge lungo il torrente Bisine, e per molti anni fu, per il territorio, un ricercato strumento per la macinatura di grano e orzo. Ma vediamo insieme alcuni dettagli di questa magnifica opera.

Il mulino è posto nella parte alta del paese di OLZAI, una zona particolarmente suggestiva, anche per la folta vegetazione presente. Il mulino era strettamente legato all'economia di quel tempo, quando il paese era tra i più attivi dell'isola quanto alla produzione di cereali, in particolare del grano, e questo mulino era in grado di effettuare una pregevole lavorazione dei diversi derivati. Oggi, dopo alterne vicissitudini, perfettamente restaurato, e stato reso nuovamente funzionante tanto da permetterne ancora l'uso.

Le maestranze dell’epoca lo realizzarono con pietre di granito a vista, sviluppando la costruzione in due parti complementari: due massicci e alti muri predisposti per contenere all’interno la grande ruota, mossa dal passaggio dell’acqua, che, con la sua forza motrice, mette in azione l’antica, possente macchina in pietra che procede alla molitura. Sopra di essa, incassata nella pietra, è presente una canaletta che raccoglie l'acqua. A fianco del mulino si trova il necessario fabbricato annesso, anch’esso costruito in granito, che presenta una facciata uniforme, interrotta soltanto da due piccole finestre.

Col passare del tempo e l’arrivo dei mulini a vapore, questo mulino cessò la sua attività.  Chiuso e solitario iniziò così la sua agonia, che ebbe il colpo di grazia durante l’alluvione del 1921, che lo rese praticamente inutilizzabile, La sorte de Su Mulinu Vetzu sembrava segnata: rimase chiuso e abbandonato per decenni. Oggi, però,  grazie all’importante intervento di recupero prima menzionato, ha ripreso a vivere: è tornato a splendere e a funzionare! Ora è diventato un simbolo di identità e di memoria collettiva, una testimonianza preziosa della storia rurale e dell’ingegneria tradizionale sarda.

Il visitatore, entrando all'interno del mulino, torna con la mente indietro nel tempo! Cammina su un pavimento in lastroni di pietra, e, mentre ammira gli antichi ingranaggi in legno, quelli che, ricevendo la forza motrice dell'acqua, mettevano in movimento il meccanismo che permetteva alla grande mola di pietra di macinare il grano, rimane esterrefatto. Continuando a visitare gli ambienti, rimane incuriosito dai tanti particolari oggetti esposti: sono gli strumenti tipici della macinazione di una volta, in gran parte autentici pezzi dell’epoca.

Amici, per il visitatore curioso visitarlo è come fare  un vero tuffo nel passato: in quel un luogo pieno di ombre della vita di una volta, sembra che il tempo si sia fermato. Il rumore dell’acqua che scorre, gli riporta indietro la mente al passato, facendogli rivedere, come in uno spezzone di un vecchio film, la lotta e la fatica degli uomini che ci hanno preceduto; tante storie di fatica manuale, di duro lavoro nei campi, di semina e di raccolto, di preparazione del grano come alimento principe, e del grande ingegno dell’uomo in ogni tempo.

Al paese di Olzai, amici, posto nel cuore della Barbagia, un sincero grazie per aver diligentemente conservato un pezzo di storia, Su Mulinu Vetzu, che, nonostante gli anni, continua a svolgere la sua funzione. Questo raro esempio di ingegneria pre-industriale dimostra le straordinarie capacità dell’uomo che con la sua intelligenza ha sempre cercato di sfruttare le grandi forze presenti nella natura, come in questo caso la forza dell’acqua.  Durante le piene invernali, la forza dell’acqua metteva in moto la grande ruota verticale che azionava gli ingranaggi interni e le mole per la macinazione del grano e dell’orzo.

Oggi, come detto prima, grazie ad un accurato restauro, il mulino è tornato a vivere e viene, anche messo a disposizione della Comunità per la macinazione dei cereali. Chi lo visita può assistere al funzionamento delle antiche macine e riscoprire gesti e suoni di un tempo. Chi è curioso di vederlo, per raggiungerlo deve percorrere l’antica strada che collega Olzai a Ollolai, un tracciato di origine romana poi divenuto via di transumanza per i pastori che conducevano le greggi dalle montagne della Barbagia alle pianure del Campidano. Anche questo, amici, è un percorso che riporta la mente indietro nel tempo! Grande, meravigliosa Sardegna!

A domani amici lettori!

Mario

venerdì, novembre 14, 2025

IMBALLAGGI: SE VOGLIAMO PROTEGGERE IL DELICATO EQUILIBRIO DEL NOSTRO PIANETA, SOSTITUIAMO LA PLASTICA COL CARTONE. LA NUOVA TECNICA FOLD.


Oristano 14 novembre 2025

Cari amici,

Il tema della “SOSTENIBILITÀ” ormai non può più essere ignorato! Riguarda tutti noi, indistintamente, perché è insito in ogni aspetto della nostra vita. Tutti dobbiamo sempre porre più attenzione alle nostre scelte quotidiane, facendo in modo che esse siano ecologiche e nel rispetto dell’ambiente, in grado di proteggere il delicato equilibrio del nostro pianeta. Assumere atteggiamenti propositivi verso la cura del mondo in cui viviamo, è diventato, ormai, un obbligo inderogabile.

Si, oramai viviamo in un modo globalizzato, con le merci che, provenienti da tutto il mondo, vengono costantemente scambiate, viaggiando protette dagli “IMBALLAGGI”, necessari per far arrivare il prodotto trasportato sano e salvo a destinazione. Da tempo, ormai, in questo settore la plastica la fa da padrone, in quanto caratterizzata da una grande leggerezza, resistenza e flessibilità. Questo permette di creare imballaggi con bassi spessori, con un’eccellente resistenza meccanica, creando così una efficace barriera contro gli eventuali danni.

La plastica, però, ha creato e continua a creare danni considerevoli all’ambiente, con costi ambientali che sarebbe impossibile continuare a sostenere. Da queste considerazioni è da tempo iniziata la ri-valorizzazione del “CARTONE”, che, in confronto alla plastica, risulta più pesante e meno agevole. Gli studi più recenti, però, effettuati dagli scienziati finlandesi, hanno creato un tipo di cartone pieghevole ispirato all’origami, che dovrebbe aiutare a dire addio agli imballaggi in plastica.

Si, amici, l’idea geniale è proprio un nuovo tipo di cartone pieghevole ispirato all’origami, che riduce il sovra-imballaggio e l’uso della plastica. Una soluzione sostenibile per e-commerce, cosmetica e ristorazione. Una soluzione arrivata dalla Finlandia, e che è stata chiamata “FOLD”, un cartone pieghevole sviluppato dal VTT Technical Research Centre of Finland, in collaborazione con l’Università Aalto. Come accennato prima, questo imballaggio è ispirato all’origami, ed è risultato flessibile, resistente e riciclabile, con l’obiettivo di ridurre i materiali superflui e migliorare l’efficienza della logistica.

Vediamo come funziona questo cartone pieghevole chiamato FOLD. Il suo nome FOLD fa riferimento alla sua struttura basata sulle tecniche di piegatura dell’origami. Grazie a questo design, il cartone diventa robusto e adattabile, eliminando la necessità di plastiche protettive e riempitivi. Il vantaggio principale è la riduzione dei rifiuti: meno plastica, meno materiali inutili e maggiore facilità di riciclo. A differenza di molti prototipi ancora in fase sperimentale, FOLD è già in fase di test con diverse aziende per verificarne la fattibilità su larga scala.

Diverse, indubbiamente, le sue possibili applicazioni. Grazie alla sua versatilità, il cartone pieghevole può essere utilizzato in diversi settori, riducendo gli sprechi e migliorando la gestione degli imballaggi. Ecco alcuni esempi. Nel settore della Cosmetica: confezioni più sostenibili. Finora molti imballaggi finiscono immediatamente tra i rifiuti. FOLD potrebbe offrire un’alternativa riutilizzabile e priva di plastica, rendendo le confezioni più funzionali e meno impattanti.

Nel settore della Ristorazione veloce: un’alternativa al polistirolo. Gli imballaggi per il cibo da asporto sono spesso realizzati in plastica o polistirolo. Un cartone pieghevole e resistente all’umidità potrebbe rappresentare un’opzione più sostenibile, riducendo l’uso di materiali difficili da smaltire. Nel settore dell’E-commerce: imballaggi su misura. Uno dei problemi più comuni nell’e-commerce è l’utilizzo di scatole troppo grandi per il contenuto, con conseguente spreco di materiali e spazio. Un imballaggio adattabile permetterebbe di ottimizzare i trasporti e ridurre l’impatto ambientale delle spedizioni.

Cari amici, ogni possibile passo avanti nell’eliminazione, o almeno riduzione della plastica, è un altro tassello per cercare di proteggere il delicato equilibrio del nostro pianeta; con l’utilizzo del cartone i vantaggi sono evidenti: sia ecologici che economici. La riduzione dei costi di produzione, un minore ingombro nei magazzini, sono una risposta concreta alla crescente richiesta di imballaggi più sostenibili. Se questa tecnologia si diffonderà, come tanti si augurano, i miglioramenti saranno certamente importanti, sia economici che per la salute dell’ambiente.

A domani.

Mario