mercoledì, ottobre 28, 2015

CAMBIARE È SEMPRE UN PO’ MORIRE. LA RIFORMA IN ITINERE DEL TITOLO V, SE MAL CONGEGNATA, POTREBBE FARE PIÙ DANNI CHE GUADAGNI.



Oristano 28 Ottobre 2015
Cari amici,
dopo la recente prova di rimaneggiamento del Titolo V della Costituzione, che dovrebbe (uso ancora il condizionale) eliminare le Provincie, sta tornando alla ribalta l’ipotesi di riduzione delle Regioni che, secondo i rumors, passerebbero dalle attuali 20 a 12, o forse anche meno. In un primo tempo, forse, accettata dallo stesso Renzi, la proposta era stata accantonata, ma, come ha riportato anche l’Unità, l’argomento è tornato ora in ballo, pur smentito dalla voce autorevole di Debora Serracchiani, che ha affermato che l’argomento non è né nell’agenda del Governo né in quella del PD. Se è vero come è vero, che più una notizia è smentita, più è possibile che sia vera, io sono personalmente convinto che il problema c’è ed è in “cottura”, pronto per essere servito a tavola al momento opportuno.

Che si fosse ormai orientati verso la riduzione del numero attuale delle Regioni, lo si è capito anche dall’ODG del senatore Democratico Raffaele Ranucci, che ha presentato un disegno di “dimagrimento” delle Regioni (lo studio è dei deputati PD Roberto Morassut e Raffaele Ranucci), che prevede lo snellimento da 20 a 12. L'ipotizzato gradimento sul progetto da parte di Renzi, anche se favorevolmente orientato al riordino, nella tempistica possibile non sarebbe tuttavia di esecuzione immediata, considerata la recente sofferta abolizione delle Provincie. Ebbene, per cercare di “capire meglio” cosa bolle in pentola, vorrei con Voi fare un breve "ripasso" sulla vera natura di questi "Enti intermedi", Comuni, Provincie e Regioni, nati per essere un funzionale raccordo tra lo Stato centrale e i cittadini.
Quando nel dopoguerra la Costituzione del 1948 istituì le Regioni, come Organo intermedio tra i cittadini e lo Stato, questi Enti in effetti altro non erano che le precedenti ripartizioni territoriali che, pur prive di valore giuridico, esistevano fin dal 1864 con il nome di «Compartimenti». Inoltre, a ben pensare, neanche questi precedenti “raggruppamenti” potevano essere considerati qualcosa di nuovo, in quanto in realtà altro non erano che dei ‘gruppi omogenei’ esistenti prima dell’unificazione nazionale: una ‘prosecuzione’, insomma, di strutture locali coese formatesi nei secoli, a partire dalla romanità imperiale o formatesi nelle successive epoche comunali.
Scrive Lucio Gambi, dotto geografo [Ravenna 1920 – Firenze 2006] nel 1995, nel saggio “L’irrazionale continuità del disegno geografico delle unità politico-amministrative”: "...i «compartimenti» del 1864 risultano quindi da uno sforzo di identificazione di quelle vecchissime regioni, la cui fama era stata ribadita e divulgata nel rinascimento da una rigogliosa tradizione di studi. Però è irrefutabile che le identificazioni regionali da cui erano nati i «compartimenti» statistici del 1864, in molte zone della penisola non avevano più alcuna presa nel 1948 quando la nuova costituzione entrò in funzione. E da quest’ultima data ad oggi il valore di quella ripartizione si è rivelato via via anche più insoddisfacente e vulnerabile. Uno dei nodi più gravi nella gestione dello Stato italiano ai nostri giorni sta precisamente nella istanza, non più rimandabile, di adeguare la irrazionale e quindi inceppante – diciamo antistorica – rete della sua organizzazione territoriale, agli effetti delle trasmutazioni che il paese ha sperimentato dopo l’ultima guerra”.
Le Regioni previste nella Costituzione del 1948 una volta create, alimentarono grandi speranze che presto, però, andarono deluse. Se l’idea iniziale era quella di avere le Istituzioni relativamente più vicine al cittadino, consentendo anche una maggiore attenzione alla spese (meno sprechi degli apparati centrali), ebbene, tutto questo oggi può considerarsi un obiettivo mai raggiunto. Le attuali 20 Regioni altro non sono che dei “Piccoli Stati”, dove in autonomia si spende e si spande attraverso una burocrazia che oltre che dispendiosa è anche lenta e inefficiente. Inoltre, con la riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta nel 2001 con lo scopo di dare allo Stato italiano una fisionomia più “federalista” spostando i centri di spesa e di decisione dal centro in periferia, dove si poteva meglio osservare e “toccare con mano" il problema essendo le strutture periferiche a maggior contatto con i cittadini, nulla di quanto ipotizzato cambiò in meglio, riuscendo addirittura a peggiorare di gran lunga le cose.
Sperperi, ruberie, inefficienze e quant’altro, hanno reso vana la tentata riforma, tanto che oggi è voce comune che, così come sono, le Regioni non funzionano più. L’odierna struttura regionale è vista come una realtà istituzionale da modificare quanto prima, essendo non più rispondente alle esigenze della popolazione. Le attuali cinque Regioni a statuto speciale (compresa la nostra Sardegna) e le 15 a statuto ordinario, per un totale di 20, hanno raggiunto un supero dei livelli di spesa che non è più sostenibile dal bilancio nazionale, e rischiano di rimanere schiacciate sotto una montagna di debiti.  Nonostante nessuna delle attuali regioni intenda cedere alla possibilità di essere accorpata, una riforma appare assolutamente necessaria, anzi indispensabile.  Non sarebbe certo una novità, in quanto altri Stati prima di noi, sicuramente con gli stessi problemi, hanno già dovuto fare di necessità virtù.
La Francia, per esempio. Il Presidente socialista Francois Hollande alla fine dello scorso anno (il 17 dicembre 2014, ndr) ha ridotto “LE REGIONS” DA 22 A 14, semplificando anche le funzioni dei 100 “DIPARTIMENTI” (così oltralpe si chiamano le Province). Anche nella Germania Federale, che ha 16 potentissimi “LAENDER”, sta accadendo quello che prima sembrava impensabile: i Laender più piccoli, in particolare quello della Saar, stanno chiedendo di unificarsi ad altri perché non ce la fanno più a ripagare i debiti. Credo che sia tempo di mettere mano alla riforma anche in Italia, ma senza “far finta” di cambiare, per poi, magari, non cambiar niente”!
Cari amici, chiudo con una mia personale convinzione: una riforma serie è necessaria, ma non può mai essere calata dall’alto: deve sempre e comunque essere iniziata dal basso e condivisa da chi subisce il cambiamento. La riforma dovrebbe partire dai Comuni: mettere insieme quelli più piccoli, creare aggregazioni di vario genere e, una volta sparite definitivamente le Province, strutturare il territorio in "zone omogenee" chiamate come vogliamo, tipo "Aree Metropolitane" o quant'altro. Solo allora, ristrutturato il territorio dal basso, si andrebbe a creare una ripartizione, definita "Regionale" o "Macroregionale", come interfaccia con lo Stato centrale. Passando dal generale al particolare, immagino una Sardegna di questo tipo: Comuni raggruppati in maniera omogenea, 2 aree metropolitane, una nel Nord e una nel Sud, e una Regione "autonoma", nel vero senso della parola, interfaccia paritario tra cittadini sardi e Stato centrale. 
Ernesto Galli della Loggia, storico e giornalista italiano, editorialista del Corriere della sera, ha lucidamente affermato che “Un’autentica Comunità politico-statale si ricostruisce sempre dal basso, e nell’Italia attuale c’è bisogno precisamente di questo: di ricostruire una tale Comunità. Di ridarle un senso di sé e uno scopo che vadano oltre l’oggi, di ridarle il coraggio che sta scemando, di garantirle che ancora esistono una legge e un’autorità. Di dire a noi tutti: «Siamo qui, e anche a costo di sacrifici vogliamo restarci, e restare in piedi!». Di dire le parole (e compiere i gesti) che nei grandi momenti di crisi decidono del futuro di una Nazione”. 
Grazie, amici, a domani.
Mario

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