Oristano 30 Agosto 2011
Cari amici,
oggi voglio tediarvi con una chiacchierata su uno dei siti più importanti della nostra Provincia: il ‘Sinis’ di Cabras, con al centro il suo grande e magnifico stagno.
Partiamo dalla sua storia.
Se l’immenso ritardo nell’apertura della nuova via che collega più velocemente Oristano con il mare, attraverso il Ponte di Brabau, fosse dovuto ‘solo’ al ritrovamento di insediamenti risalenti al Neolitico, ed ai successivi scavi archeologici, i tempi stratosferici della sua realizzazione sarebbero apparsi ai più ampiamente giustificati. Questi importanti scavi, sommati a quelli realizzati in precedenza e relativi alla costruzione del canale Scolmatore, larga via d’acqua che mette in collegamento la laguna, ovvero lo stagno di Cabras con il mare, hanno dimostrato inequivocabilmente che questo territorio è stato abitato oltre quattromila anni prima di Cristo. La scoperta di numerose capanne facenti parte di villaggi neolitici sorti intorno alle rive della laguna cabrarese, confermano che già nel quarto millennio a.C. la Penisola del Sinis, era un importante insediamento umano. In particolare le acque dello stagno di Cabras, erano una risorsa ittica rilevante, principale fonte alimentare ed economica delle popolazioni di quell’epoca. Questa certezza deriva dal ritrovamento di numerosi resti di cibi, la cui ampia varietà ha meravigliato gli stessi studiosi. Sono stati rinvenuti semi di uva di varietà diverse da quelle attuali (forse vitigni antenati delle attuali uve vernaccia e nieddera), numerose conchiglie, parti ossee di diverse varietà di pesci e grandi varietà di cereali, certamente coltivati nelle fertili vallate del Sinis. Nelle epoche successive, sopra questi villaggi, specialmente nelle zone di Cuccuru Is Arrius, Mont’e Prama, “Crasuras de Su Pottu” ed altre, furono realizzate altre costruzioni, attribuibili alle altre popolazioni che si sono successivamente insediate, sopratutto puniche e romane. Tutto questo sta a significare che gli insediamenti umani in questa zona non si sono mai arrestati, ma si sono succeduti senza interruzioni o pause.
La penisola del Sinis, quindi, terra abitata dall’uomo fin da epoca remotissima e costantemente nelle epoche successive. I resti di numerosi nuraghi, di luoghi di sepoltura e di altari pre-nuragici e nuragici ( non ultimo quello sottostante all’Ipogeo paleocristiano di S. Salvatore, costruito proprio su un precedente altare sacrificale nuragico ) lo attestano con certezza. Del resto è proprio la sua felice posizione, il doppio porto, uno riparato dal maestrale, le lagune e gli stagni ricchi di pesce e la fertile pianura circostante che ne hanno fatto un luogo ottimale di insediamento umano, dove sorse e divenne grande e famosa la città romana di Tharros, che per le sue splendide terme pare, anche se non vi è certezza, che sia stata visitata anche dall’Imperatore.
Proprio in questi luoghi, conosciuti in tutto il mondo soprattutto per la fama della splendida città di Tharros, nel 1974 in località Mont’e Prama, una piccola collinetta coperta ancora oggi di palme nane, tipiche delle vegetazione del luogo, fu fatta quella splendida e stupefacente scoperta che ha riportato alla luce i Giganti di Mont’e Prama. Una scoperta assolutamente unica nel suo genere: i resti di oltre 30 gigantesche statue, alte oltre 2 metri, scolpite in pietra arenaria e provvisoriamente databili tra il VII ed il VI secolo Avanti Cristo.
Queste statue, opportunamente restaurate, saranno presto fruibili al grande pubblico e costituiranno una sicura fonte di attrazione per tutto il territorio.
Finito lo splendore del periodo romano poco si sa del periodo successivo al crollo dell’Impero, mentre sono stati ritrovati documenti che parlano di questo territorio, ed in particolare del suo stagno, relativi al periodo giudicale (datati 1183 e 1237) in cui i Giudici di Arborea autorizzavano i monaci di S.Maria di Bonarcado a pescare dallo stagno senza pagare tributi (sia in natura che in denaro). La scarsa documentazione successiva (periodo catalano, aragonese e spagnolo) mette comunque in luce la grande validità economica del Sinis. Lo stagno di Cabras dalla corona d’Aragona passò successivamente in proprietà al Re Ferdinando di Spagna. Intorno al 1500 la produzione ittica dello stagno era così abbondante che il Re di Spagna concesse la licenza di esportazione dei pesci, in particolare anguille salate. Nel 1652 Filippo quarto di Spagna, a causa di grossi debiti, fu costretto a cedere al banchiere genovese Girolamo Vivaldi il grande stagno di Cabras, denominato di ‘Mar’e Pontis’, e quello di S. Giusta.
Dopo il 1652 sorsero delle controversie tra i successori del Vivaldi e i cittadini di Cabras, circa il diritto di transitare, per recarsi ai terreni del Sinis, nella zona chiamata “Crasuras de Su Pottu” praticamente la strada che attualmente dal bivio per Torregrande porta al ponte Scolmatore. Nel 1851 furono i debiti della famiglia Vivaldi a segnare il destino dello stagno di Cabras che fu venduto a Salvatore Carta di Oristano.
Gli eredi Carta, comunque, non ebbero, in questa acquisita proprietà, vita facile. La laguna fu infatti dichiarata dallo Stato, nel 1922, ‘acqua pubblica’. La lunga controversia si protrasse in tribunale per oltre 30 anni: gli eredi affermavano di essere proprietari delle acque, mentre gli avvocati dello Stato sostenevano che loro possedevano solo il diritto esclusivo di pesca. Questa annosa rivendicazione da una parte e dall’altra sembrò terminare il 3 Maggio 1965, quando il Presidente della Regione Sarda, utilizzando la legge Regionale del 1956, che stabiliva l’abolizione di tutti i diritti esclusivi di pesca nelle acque interne e lagunari della Regione, dichiarò estinti i diritti di pesca della famiglia Carta. Ma l’annosa questione non era ancora finita. Le dispute in tribunale continuarono.
Dopo non poche manifestazioni, da parte di neonate cooperative di pescatori, l’8 settembre del 1960 ci fu “un’occupazione simbolica” dello stagno, con violenti scontri tra le parti; scontri che si protrassero per decine di anni. Col passare degli anni la situazione divenne talmente spinosa ed insostenibile che la Regione Sardegna nel 1982, decise di acquistare lo stagno di Cabras dai proprietari ponendo definitivamente fine alla vertenza. Subito dopo il compendio ittico fu dato in concessione ai pescatori delle cooperative sorte negli anni delle lotte.
Dopo averne ripercorso la storia vediamo ora, in dettaglio, tutti i particolari di questo importante bacino.
Superficie e caratteristiche.
Lo stagno denominato di Mar’e Pontis si estende per circa 2288 ettari e rappresenta l’ambiente palustre più importante della Sardegna e tra i maggiori d’Europa. La sua profondità media è di circa 2,80 metri, con una profondità massima di poco più di 3,00 metri. La sua forma allungata deriva dal fatto che è quasi certamente è sorto su un’antica valle fluviale. Lo stagno è alimentato anche dalle acque del “Riu Sa Praia”, che si riversa in laguna proveniente dai terreni di Riola Sardo. Le sue sponde lambiscono i territori oltre che di Cabras di Riola e, anche se per poco, di Nurachi. Le sue acque, in particolare quelle della parte meridionale dello stagno, hanno una salinità abbastanza elevata in quanto comunicano col mare per mezzo del canale scolmatore nella zona anticamente chiamata “Sa Ucca ‘e Sa Madrini” (tradotto letteralmente “La Bocca della Scrofa”); quelle della parte settentrionale, invece, sono più dolci perché ricevono da terra le acque del “Riu Sa Praia” e di paludi e canali minori.
Le coste dello stagno, per la maggior parte, sono basse e arenose, ma in alcuni punti ci sono zone rocciose, soprattutto nelle zone “Is Arrocchittas”, “Mitrottas” e “Su Pottu”. Il problema delle basse coste, dopo anni di inondazioni negli inverni piovosi, ha fatto si che si realizzasse il ‘Canale Scolmatore’, che regolando l’afflusso delle acque da e per il mare, consentiva di evitare gli allagamenti di parte dell’abitato di Cabras, soprattutto in una zona particolarmente bassa che, per questo motivo, era ed è ancora denominata “Veneziedda”.
La vegetazione circostante.
Interessante e varia la vegetazione che lo circonda. Ecco le principali specie.
LENTICCHIA D'ACQUA.
Le lenticchie d’acqua sono diffuse in acqua dolce, dove spesso formano uno strato galleggiante fitto e continuo per l’enorme numero degli individui che si riproducono molto in fretta. Il nome di lenticchia o lente d’acqua viene usato sia per due specie del genere Lemna sia per un’altra specie del genere Spirodela. Sono minutissime piante natanti sulla superficie delle acque che stagnano o che fluiscono molto lentamente, formate da una piccola lamina fogliare ovale o rotonda, di color verde.
SALICORNIA (Biscodru)
La salicornia appartiene alla famiglia di piante alofile, in grado cioe' di svilupparsi in ambienti dove la concentrazione salina del terreno è pari o superiore all’1- 2 %. La pianta riesce ad assorbire le sostanze nutritive grazie all’elevata pressione osmotica dei tessuti, nei quali la concentrazione salina può raggiungere anche il 10%. I rami, veri serbatoi di acqua salata, svolgono anche la fotosintesi: le foglie sono infatti brevissime o mancanti. Le loro caratteristiche principali sono legate all’ambiente poco ospitale in cui vivono.
CANNUCCIA (Canniso~i)
La pianta a fusto eretto può raggiungere l’altezza di 4m. Le foglie avvolgono il fusto con la forma di lamina allungata. E’ una specie invasiva, da sola esprime l’aspetto fisionomico più noto degli ambienti umidi: il fragmiteto. Le radici provviste di canali aeriferi le permettono, galleggiando, di non rimanere sommersa e di colonizzare i bordi degli specchi d’acqua. Alcuni uccelli utilizzano il fragmiteto per la nidificazione e come rifugio contro i predatori, mentre alcuni piccoli mammiferi spesso in primavera si nutrono dei germogli delle cannucce.
AGROPIRO.
L’agropiro litorale o gramigna delle spiagge è una pianta pioniera che cresce vicinissima al mare, nelle dune più basse al limite interno delle spiagge o degli stagni. Qui deve fare i conti con gli spruzzi dell’acqua, il vento a volte molto forte carico di salsedine e di granelli di sabbia e con il sole a picco; inoltre le acque circolanti nel suolo sono ricche di cloruro di sodio, e quindi di difficile assorbimento da parte delle radici. Non si può certo dire che sia una pianta bella da vedere; è una graminacea strisciante che ha una modesta capacità di fissazione della sabbia e quindi non in grado di consolidare la spiaggia.
ASSENZIO (Sensu)
L’assenzio ci appare come un grosso e resistente arbusto dal colore verde-argenteo. Durante la fioritura, nei mesi di aprile-maggio, i suoi piccoli “pallini” gialli, disposti a grappolo, ricordano l’infiorescenza dell’acacia. Odorandone le foglie si sente un aroma intenso, quasi fastidioso; in realtà da sempre questa pianta è stata usata in medicina per le sue proprietà curative; le sue foglie disposte in un tegamino arroventato dal fornello sprigionano vapori curativi per laringiti e faringiti. Usato in modo improprio, sino al secolo scorso, i suoi infusi e la sua essenza erano considerati delle droghe molto potenti dei quali facevano largo uso artisti e scrittori.
GIUNCO (Giuncu)
I giunchi sono piante con radici simili alle graminacee, ma appartenenti alla famiglia delle Giuncacee. Il fusto è in genere cilindrico e rigido; le foglie da cilindriche a lineari, sono avvolgenti e disposte alla base del fusto. Sono talvolta ridotte a guaine o semplici scaglie. I fiori, piccoli e poco colorati, sono riuniti in infiorescenze. Pianta annuale colonizza gli ambienti più o meno acquitrinosi. Fiorisce da maggio a ottobre. I giunchi sono utilizzati come lettiere, come materiale per stuoie e come legacci (dal latino jungere=legare insieme). Nella nostra zona sono sfruttati anche per la costruzione di rivestimenti di damigiane e, in agricoltura, per legare i rami di vite e per tenere insieme i prodotti dell’orto.
TIFA (Spadua)
E’ una pianta che può raggiungere un’altezza di circa 2.5 metri. Le foglie sono erette e lineari ed i fiori raccolti in una tipica infiorescenza a spadice. Quelli femminili, a maturità, costruiscono un‘infruttescenza cilindrica di colore marrone. Il nome del genere deriva dal greco “tyfein”, che significa “fumare”, tuttora in alcune regioni è nota come la “pianta dei sigari” in riferimento alla forma dell’infruttescenza; nelle zone in cui le lische sono più abbondanti vengono predilette dalle folaghe per costruirvi il nido. Più frequentemente questa specie veniva usata dai fiorai per formare mazzi ornamentali colorandone le infruttescenze. Ma ora, data la minaccia di estinzione, sono delle piante protette che non si possono più toccare.
OBIONE (Zibba)
E’ una pianta verde-grigiastra, molto bassa, con dei rami che crescono quasi rasoterra. I suoi fiori sono di colore giallastro, decisamente piccoli e poco appariscenti. La sua presenza nelle spiagge, nelle zone sabbiose, nelle località salmastre e nelle zone acquitrinose ci permette di dedurre che è una pianta notevolmente resistente e i suoi rami bassi altro non sono che un adattamento anche ai luoghi molto ventilati. Nello stagno di Cabras è una pianta ricercata per il suo uso nella preparazione de “sa mrecca”: i muggini bolliti in abbondante acqua salata, infatti, vengono avvolti, a mo' di fagotto, nei suoi rami che conservano il pesce più a lungo e ne regalano un gusto caratteristico.
LIMONIO (Frori de mari)
E’ una pianta alta fino a 40 cm molto comune e tipica delle zone salmastre. I suoi fiori blu violetti sono una delle dominanti di colore della tarda estate: I piccoli fiori a 5 petali hanno un calice di consistenza cartacea. Le foglie partono dalla base e sono lunghe fino a 12 cm. Il limonio è una pianta alofita (si sviluppa cioè su suoli in cui è presente almeno l’1/2% di sale) e xerofila (adatta cioè a suoli aridi). Esistono diverse soluzioni adattive messe in atto dalle piante per difendersi dalla salinità del terreno: il limonio assorbe il sale, ma è in grado di eliminarlo mediante le numerose cellule secretrici del fusto e delle foglie. Non tutte le specie di limonio, però, sono comuni: alcune sono anzi minacciate di estinzione per il progressivo ridursi e deteriorarsi del loro habitat. Ad esempio, in Sardegna, sono minacciati: il Limonium insulare, diffuso nelle zone costiere sud/occidentali e il Limonium pseudoelatum, della penisola del Sinis.
L’avifauna presente è ricca ed interessantissima, qualitativamente e quantitativamente.
POLLO SULTANO (Cabo~i de acqua)
Pollo con le dimensioni di 40/48 cm, dalla livrea inconfondibile azzurro-violacea con sottocoda bianco, becco rosso con ampio scudo frontale, zampe rosse provviste di lunghe dita. E’ una specie protetta, vive in zone palustri con densa vegetazione (canneti) e con acque relativamente profonde. Di carattere diffidente, resta nascosto fra la fitta vegetazione da dove esce prevalentemente dal tramonto all’alba. Si ciba di piante acquatiche ma anche di animali (molluschi, insetti). Depone, in un nido ben nascosto dalla vegetazione, da 2 a 6 uova, che vengono covate per 23 giorni circa prevalentemente dalla femmina.
FENICOTTERO (Mango~i)
Il fenicottero è un alto volatile (raggiunge l’altezza di 2 metri) ricoperto da un mantello di piume rosa. Presenta un lungo collo sinuoso, un enorme becco ricurvo. Il fenicottero rosa frequenta grandi distese di acqua poco profonda, salata o salmastra, dove trova piccoli organismi, soprattutto crostacei, di cui va ghiotto. Catturarli è semplice se si possiede un becco come il suo: all’interno, infatti, ha il compito di filtrare l’acqua e il fango dai quali vengono trattenute particelle di cibo. In Europa la maggior parte dei fenicotteri nidifica in Camargue (Francia) e in alcune zone umide come gli stagni. La Sardegna, per la sua eccezionale posizione tra la Francia e la Tunisia (un altro posto dove i fenicotteri sostano per nidificare) costituisce un importante punto di sosta per questi grossi uccelli durante le migrazioni; inoltre il clima e gli ambienti della Sardegna garantiscono una confortevole permanenza anche durante l’inverno (svernanti) e l’estate (estivanti). I fenicotteri depongono quasi sempre un solo uovo di grandi dimensioni in un nido simile ad un cratere, costruito col fango. In genere i genitori si alternano nella cova per circa un mese fino a quando, alla schiusa delle uova, i batuffoli grigio-chiaro non faranno la loro comparsa. Nei primi giorni di vita i piccoli possiedono ancora il dente dell’uovo, una piccola sporgenza del becco che li aiuta a rompere il guscio e a uscire da quella prima, stretta “casa”, ma esso, scompare in poco tempo. Dopo una ventina di giorni i piccoli vengono riuniti tutti insieme in una sorta di asilo in cui, incredibilmente, ognuno viene riconosciuto dai propri genitori.
CORMORANO (Crobu)
Un grande pescatore: è questo il complimento migliore per il cormorano comune, il grande uccello nero, parente del pellicano, diffuso lungo i fiumi, i laghi e le aree costiere di buona parte del mondo. E’ facile vederlo mentre riposa sul ramo di un albero o in cima a un palo isolato in mezzo all’acqua. Il cormorano si tuffa nell’acqua per catturare pesci, granchi e cefalopodi, fino agli 8-10 metri di profondità, inseguendoli e afferrandoli con il becco robusto e seghettato. Un’apposita membrana gli permette di vedere anche sott’acqua, dove può restare per un minuto circa. A volte gruppi di cormorani possono collaborare all’accerchiamento dei pesci. Una volta catturata la preda, il cormorano la porta in superficie, la lancia in aria e la inghiotte intera. In una giornata, può arrivare a mangiare oltre mezzo chilo di pesce. Dopo, apre le ali e lascia che il sole gli asciughi il piumaggio. Al contrario degli altri uccelli acquatici, infatti, le penne del cormorano non sono impermeabili. Una sua curiosa abitudine è quella di riunirsi alla sera, in colonia, in luoghi lontani anche diverse decine di chilometri dalle aree di pesca. Una vera e propria forma di pendolarismo, quindi, che costringe questi uccelli a lunghi spostamenti quotidiani. La ragione di questo comportamento, cosi dispendioso, non è ancora del tutto chiara, sembra però che, in questi rifugi serali, i cormorani che pescano in zone diverse, si scambino informazioni sui luoghi più ricchi, in modo tale da concentrarsi lì il giorno successivo.
AIRONE ROSSO (Menga)
E' un poco più piccolo dell’airone cenerino. Ha un’apertura alare di 250-150 cm. E’ di color bruno-ruggine, con il collo molto lungo e sottile, striato di nero. E’ acquatico come gli altri aironi, il rosso si differenzia perché', preferisce paludi ricoperte da densi canneti con canali a specchi d’acqua. Frequenta in generale zone con acque basse, ricche di sostanze organiche, con fondi fangosi o sabbiosi o fiancheggiate da densa vegetazione, nella quale sa districarsi grazie alle lunghe dita. Costruisce il nido fra le canne o sugli arbusti. E’ un animale che vive 10-15 anni. La conservazione di quest’airone è legata al mantenimento di zone paludose indisturbate.
AIRONE CENERINO (Cau murru Menga)
E’ un grande uccello di palude appartenente alla famiglia degli Aironi. Gli adulti (che raggiungono il metro di altezza) hanno il dorso color cenere e il collo biancastro, striato di nero; un lungo pennacchio nero parte dietro l’occhio e scende fino sulla nuca in un ciuffo di penne bianche strette e allungate; gli occhi sono gialli, il becco paglierino e le zampe marroncine. Ha un volo maestoso, con battiti d’ala lenti e profondi, a zampe distese dietro il corpo, testa e collo incassati tra le spalle. Il becco è giallo, robustissimo, adatto a trafiggere in un colpo solo i pesci, gli anfibi, i rettili e i piccoli mammiferi di cui si nutre. Non nidifica nella nostra zona. L’airone cenerino è il più comune tra gli aironi europei e il suo numero pare in costante aumento. E’ la specie più sedentaria di tutte, quella che è più facile vedere nel nostro stagno anche d’inverno. Si ciba in ordine di importanza di: pesci , insetti , anfibi e coleotteri acquatici .
AIRONE GUARDABUOI (Cau)
E’ diffuso in tutto il mondo mentre in Italia è molto raro. Frequenta canneti o cespugli. Il piumaggio è bianco con macchie gialle, ha un ciuffetto sul capo e il becco gialli. In abito invernale, gli occhi e le zampe sono rosso-chiaro. Appartiene al gruppo dei “piccoli aironi”, le cui dimensioni di apertura alare sono comprese tra: 50 e 130 cm . Cerca il nutrimento in associazione con l’airone cenerino e la garzetta , spesso si associa anche al gabbiano comune e segue i trattori quando i campi vengono arati per cercarne lombrichi e altri invertebrati.
GABBIANO REALE (Crobu biancu)
Il gabbiano reale, più grosso del gabbiano comune (circa 60 cm di lunghezza),si distingue per il piumaggio grigio-azzurro sul dorso e dalle ali con gli apici nero- bianchi. Il becco è giallo con una macchia rossa. Si nutre di granchi, lumache, crostacei, vermi, pesci e uova di uccelli. Nidifica in colonia nei canneti; ogni colonia può riunire parecchie migliaia di coppie. E’ la specie che tende più a inurbarsi, traendo vantaggio dalle discariche e dallo sciupio di materiale organico.
GABBIANO COMUNE (Gavi~a)
E’ uno dei più piccoli gabbiani, è infatti lungo circa 37 cm (solo il gabbianello è più piccolo). Nel piumaggio estivo presenta un cappuccio bruno scuro che termina alla nuca, il resto del piumaggio è bianco, in particolare il margine anteriore. Le piume della parte inferiore delle ali sono scure. Becco e zampe sono di un rosso vivo. In inverno il cappuccio scompare e la testa diventa bianca con una macchia scura. Può essere considerato un animale onnivoro: la sua dieta comprende invertebrati (anellidi, insetti, ecc.), vertebrati (anfibi, pesci ecc.) e materiale organico rinvenuto nelle discariche. Nello stagno è molto comune ma il numero aumenta al tramonto quando centinaia di uccelli ritornano nello stagno, dalle zone di alimentazione, per passarvi la notte.
GALLINELLA D'ACQUA (Pudd'e acqua)
Uccello acquatico simile ad una gallina; possiede zampe lunghe con dita anch’esse lunghe e non palmate; infatti queste sono usate più come uno strumento per correre che per nuotare; mostra anche una certa riluttanza al volo anche se è in grado di compiere migrazioni. Sia il maschio che la femmina hanno un piumaggio nerastro con una striscia irregolare bianca sui fianchi. La coda, corta, viene in genere tenuta in posizione verticale; il sotto coda è bianco. Sul capo spicca in modo particolare lo scudo frontale e buona parte del becco rossi, la punta di quest’ultimo è gialla. Caratteristico è anche il modo di nuotare muovendo ripetutamente avanti ed indietro il capo ed agitando continuamente la coda; riesce facilmente ad arrampicarsi sulla vegetazione e per alzarsi in volo necessita di una lunga rincorsa sull’acqua. Frequenta ambienti con acqua stagnante o a corrente lenta con fitta e rigogliosa vegetazione, in questi ambienti risiede soprattutto nella zona di transizione tra le acque aperte. D’inverno non è raro vederla in parchi o giardini pubblici.
CAVALIERE D'ITALIA (Zurruli~u pei longu)
E’ una specie tipica delle acque basse delle lagune salmastre e delle risaie, comune nel periodo da aprile a settembre. Poco più grande di un merlo, si riconosce subito per il sottile becco nero, le lunghissime zampe rosso corallo ed il piumaggio bianco e nero: il maschio d’inverno è completamente bianco ad eccezione di vertice e nuca grigio scuro e delle regioni dorsali e ali nere; d’estate vertice e nuca divengono nero lucido e le parti inferiori assumono una tinta bianco-rosata; la femmina e simile al maschio in abito invernale ma con vertice e nuca bianchi; l’irride è rossa. Si nutre di crostacei, insetti acquatici, piccoli pesci, anfibi. Depone quattro uova che vengono covate da entrambi i genitori per 24/26 giorni. I nidiacei nascono già ricoperti di piumino e abbondano subito il nido, essendo capaci di volare già all’età di un mese.
TUFFETTO (Cazzoeddu)
Il tuffetto arriva a una lunghezza media di 26 cm, si presenta corto e tozzo, con collo corto. Il profilo pare senza coda. In estate, con il piumaggio nuziale, è bruno scuro nelle parti superiori, più chiaro delle inferiori e caratterizzate da sottogola e guance rosse. In inverno è meno colorato, con dorso bruno e parti inferiori grigiastre. Il becco presenta sempre, alla base, una chiazza chiara. Nuota sull’acqua molto velocemente ed è capace di velocissime immersioni, dalle quali riemerge anche molto distante. Il verso è data da un trillo sonoro e lamentevole o da un rapido “bit bit”. Popola stagni, paludi ed acque morte. Nidifica in nidi galleggianti costruiti con vegetali e nascosti tra le canne. La prole è precoce e coperta di piumino. E’ un migratore parziale.
PORCIGLIONE (Arrueddu o Sturr’e acqua)
Il porciglione di solito viene riconosciuto per la voce molto caratteristica. Si distingue da tutti gli altri rallidi per il becco lungo e rosso. Ha le parti superiori bruno-oliva, fittamente striate di nero; faccia, gola e petto sono grigio-blu, mentre i fianchi sono di colore bianco e nero. Il sottocoda è biancastro, le zampe sono brune .Ha un comportamento nervoso e ritirato; qualche volta si sposta sui cespugli all’aperto. Abita nella densa vegetazione acquatica, soprattutto nei canneti e nelle zone con salici. Si nutre di semi di cereali, vermi, larve e gemme. Nidifica da aprile a giugno e costruisce un nido perfettamente celato tra la vegetazione erbacea; di solito vengono deposte 6-11 uova, che si schiudono dopo 19-22 giorni di incubazione, portata a termine da entrambi i sessi.
FALCO PESCATORE (Medra Cuadderi)
Ha una lunghezza 53-61 cm. Apertura alare 140-165 cm. Peso 500-1200 g. Il maschio ha le parti superiori brune con la testa bianca; le parti inferiori sono biancastre. Le femmine hanno la banda pettorale più evidente . In distanza il Falco pescatore assomiglia ad un grosso gabbiano, data la sua abitudine di tenere le ali leggermente abbassate . Allestisce un grosso nido in un luogo esposto, su coste rocciose o alberi. In primavera compie voli a festoni tenendo le zampe penzolanti ed emettendo un verso lamentoso. Si nutre esclusivamente di pesce, che cattura tuffandosi dall’alto e tenendo le zampe in avanti. La sua dieta esclusivamente piscivora lo rende molto vulnerabile agli attacchi dell’ inquinamento, tanto che la popolazione è in lenta continua decrescita.
FALCO DI PALUDE (Stori)
Ha una lunghezza di 48-56 cm. L’apertura alare è di circa 115-130cm e il peso di 500 1200 g. Il maschio adulto ha le parti superiori castano scuro con la coda grigio chiaro. Le femmine e gli immaturi hanno una colorazione marrone diffusa, con testa e pelle color crema. In primavera il maschio si esibisce in alta quota con voli ondulati, emettendo un verso acuto e ripetuto. Si nutre di uccelli che frequentano il canneto come folaghe, gallinelle d’acqua e talvolta anche piccole anatre. Non disdegna, comunque, di cibarsi di piccoli mammiferi come i roditori. E’ presente tutto l’anno ma soprattutto d’inverno, quando si possono osservare cinque-sei individui in caccia col loro caratteristico volo radente sul canneto e con le ali piegate verso l’alto a formare una “v”.
POIANA (Storittu)
Di medie dimensioni (fino a 65 cm), ha occhi grandi, ali ben sviluppate ed arrotondate e becco col ramo superiore sinuoso. La coda ha uno sviluppo modesto. Il piumaggio è di colore variabile, di solito bruno uniforme sulle parti superiori, grigio-brunastro sulla coda, bianco-fulvo con macchie brune centralmente. Si rinviene negli ambienti più vari dove caccia, in prevalenza, piccoli roditori.
FOLAGA (Puìga)
Un uccello acquatico dalle dimensioni di un’anatra (circa 40 cm), ha il piumaggio uniformemente nero con una grande placca bianca sulla fronte che la rende facilmente riconoscibile. Il becco è biancastro e gli occhi rosso chiaro; le zampe grigio verdi sono lunghe con dita munite di membrane per poter camminare sulla vegetazione acquatica. Discreta tuffatrice, è in grado di resistere sott’acqua anche per mezzo minuto, “remando” con le ali. Si nutre soprattutto di vegetali acquatici, ma anche di lumache, insetti, larve, e piccoli crostacei. Durante la stagione invernale forma grossi branchi, spesso con le anatre con cui condivide l’habitat. Depone 5-16 uova, incubate da entrambi i genitori in acqua. Se snidata scappa “camminando” sull’acqua per un buon tratto prima di riuscire a prendere il volo; fugge sempre verso il canneto, dal quale alza le sue vivaci proteste.
GERMANO REALE (Arma~u)
La specie è ampiamente distribuita in Eurasia ed America settentrionale. Come sedentario e nidificante è diffuso soprattutto al nord e al centro. Il maschio ha il capo verde metallico, sotto ha un collare bianco, il petto bruno porporino e le parti inferiori verde pallido, la coda è bianca con penne centrali nere arricciate, le zampe giallastre. Le femmine sono macchiate di bruno, il becco bruno(spesso arancio ai lati) e le zampe arancio. Il volo è veloce con battiti d’ali poco profondi. Abita pressoché' in ogni tipo d’acqua, d’inverno anche nelle coste del mare, negli stagni e negli estuari dei fiumi. Si ciba di gemme, semi di cereali, vermi e piccoli pesci. Come tutte le anatre di superficie si immerge sguazzando con testa e petto immersi nell’acqua esplorando fondali. Nidifica a partire da marzo, di solito vengono deposte 9-13 uova, che si schiudono dopo 27-28 giorni di incubazione, che viene portata a termine dalla femmina.
MARZAIOLA (Anadi Zaccarredda)
Ha una lunghezza di circa 37-41 cm. L’apertura alare è di 60-63 cm. Il maschio è riconoscibile per la parte anteriore delle ali grigio blu pallido, col petto bruno ed il ventre bianco. Caratteristica è anche la macchia a forma di mezzaluna dall’occhio alla nuca. La femmina ha un colore bruno con sopracciglio e guance biancastri. Si nutre sia di animali (insetti, piccoli anfibi, ecc.) che di vegetali (semi e parti verdi di piante acquatiche) che raccoglie se galleggiano in superficie oppure capovolgendosi con la testa sott’acqua. Molto comune durante la migrazione primaverile; infatti il suo nome indica in mese in cui generalmente appare; in questo senso rappresenta l’equivalente, fra gli uccelli acquatici, della rondine.
MORETTA (Niedduzzu)
E’ un’anitra tuffatrice dall’aspetto bicolore ha un ciuffo sul capo e, in volo, mostra all’interno delle ali bianche. La femmina è bruna con le parti inferiori chiare e senza ciuffo; la base del becco ha un anello bianco di grandezza variabile. Per riprodursi si insedia su un isolotto o nella vegetazione densa dello stagno, spesso in compagnia dei gabbiani. Il nido, posto tra le canne abbattute o nel folto della vegetazione, sempre vicino all’acqua ma all’asciutto, è una lettiera di erbe e di steli secchi guarnita di piumino scuro. La femmina depone le uova tra maggio e giugno. Si nutre sia di vegetali (soprattutto d’estate) che di animali che trova tuffandosi (restando sott’acqua da 20 a 50 secondi). I molluschi (mitili di acqua dolce), sono il cibo più importante della sua dieta, poi vengono i piccoli crostacei, le larve di insetti, i girini.
CODONE (Coa Spada)
Anitra delle dimensioni di 51\65 cm. Deve il suo nome per la coda prominente. Il maschio è fondamentalmente grigio con caratteristica coda marron-cioccolato, in cui spicca una striscia ad angolo bianca che parte dal collo; il becco è grigio ceruleo. La femmina è color bruno. Il suo habitat ideale sono le paludi e le lagune. Il cibo è costituito soprattutto da vegetali (granaglie), larve di insetti, molluschi e persino crostacei.
ALZAVOLA (Trincottedda)
Fra le anitre è la più piccola (assieme alla Marzaiola). Il suo habitat sono le zone umide in genere, dove si alimenta di vegetali e insetti, che ricerca in particolare di notte in acque poco profonde. La femmina dell’alzavola è di color bruno uniforme con l’interno delle ali verde brillante mentre ai lati è bordata di nero. Il maschio si distingue per la testa castana, su cui spicca una fascia verde brillante all’altezza dell’occhio, per il resto del corpo è grigio screziato di nero.
FISTIONE TURCO (Pibaro~i)
Il fistione turco è un’anatra di aspetto tozzo e corto. Ha la testa grossa e tondeggiante, di colore castano-rossiccio nei maschi. Il petto è marrone scuro. Le parti dorsali sono marroni, i fianchi bianchi e la regione della coda nera. Il becco è lungo e sottile, di colore rossiccio. Le femmine sono bruno chiare, con guance e collo grigio pallido. L’iride è rosso nei maschi, più marrone nelle femmine. E’ quasi esclusivamente vegetariano.
FISCHIONE (Srubianti)
I Fischioni hanno il becco piuttosto largo e un po’ schiacciato, in parte ricoperto da una delicata pelle con colorazioni molto vivaci. La lingua è carnosa. Il tronco è allungato e robusto, sorretto da rampe corte con quattro dita, di cui le tre anteriori sono palmate, mentre il quarto è più piccolo. Le ali sono ben sviluppate. La coda è corta e arrotondata. Diffuso in Europa e Asia settentrionale, ma sverna sul Mediterraneo e in Asia meridionale. Frequenta paludi e grandi corsi d’acqua ricchi di vegetariani. Il maschio è di colore castano nel capo, petto colore rosa e il resto del corpo è grigio. La femmina è di colore marrone rosso con ventre bianco.
MESTOLONE (Picangiu)
Il maschio ha il capo verde scuro con riflessi metallici (da lontano sembrano neri), gli occhi sono gialli, il petto è bianco, il ventre e i fianchi sono castani ,le zampe sono arancioni. La femmina, invece, può essere confusa con l’alzavola dalla quale si distingue per avere il becco grande a spatola di colore nerastro, mentre la parte anteriore delle ali è bluastra.
CANAPIGLIA (Anadi trigài)
E’ presente in Europa centrale, America settentrionale e Asia centrale. Sverna sul Mar Mediterraneo o nel Nord Africa. Predilige grandi laghi aperti o stagni con ricca vegetazione. Il suo colore prevalente è grigio con bande marroni, nere e bianche sulle ali.
OCA SELVATICA (Cocca)
L’oca selvatica appartiene all’ordine degli Anseriformi. Si tratta di un grosso uccello (75-85 cm) di colore bruno sulle parti superiori e grigio-bruno sulle parti inferiori. Si notano bene sul manto i margini delle piume, più chiari della parte centrale. Le zampe e i piedi sono rosei, il becco è chiaro. Vive e si sposta in grandi stormi che, in volo, si dispongono in linea o a V. Il verso è molto simile a quello dell’oca domestica. Abita terreni erbosi e torbiere, canneti e paludi nei pressi della costa o degli estuari dei fiumi. Il nido è una cavità scavata nel terreno, rivestito di vegetali. Nel caso la zona sia particolarmente umida, viene costruito un piccolo terrapieno ammassando canne, giunchi ed altra vegetazione. La prole è precoce.
MARTIN PESCATORE (Pillo~edd’e Santu Predu)
Uccello di piccole dimensioni (15/16 cm), dal piumaggio variopinto, possiede un becco lungo e appuntito, adatto a catturare pesciolini, e zampe e coda corte. I suoi habitat ideali sono: stagni, fiumi e zone umide in genere ricche di canneti. Si ciba di pesci, girini ed insetti che cattura tuffandosi repentinamente in picchiata. Nidifica da aprile ad agosto, talvolta può ripeterla due volte nel corso dell’anno. Le uova vengono covate da entrambe i sessi per 19/21 giorni circa.
CANNARECCIONE (Picangiu)
Il cannareccione è il più robusto dei passeriformi di palude. Ha il dorso bruno chiaro e il sopracciglio marcato. Sul capo presenta una corta cresta di piume. Il becco è robusto, si ciba di insetti e anfibi . Inizia il corteggiamento e la costruzione del nido da metà maggio a metà giugno e depone le uova da metà a fine giugno.
CHIURLO (Zurrulli~u Messaiu)
Il Chiurlo, di taglia maggiore dal curioso becco arcuato, si sposta indifferentemente in zone poco o molto allagate. La forma particolare del suo becco gli permette di avvicinare una preda di lato senza spostare il suo asse. Se le vibrazioni emesse da un verme o un crostaceo sono avvertite dalle terminazioni tattili situate all’estremità delle sue mandibole, l’uccello imprime una rotazione al suo becco che descrive un arco di cerchio nel fango. Questa tecnica è particolarmente efficace per catturare i vermi (arenicole, nereidi…) e i crostacei che vivono in tane verticali.
OCCHIONE (Zurrulli~u)
L’occhione ha una lunghezza di circa 40-44 cm. Pesa dai 300 ai 500 grammi ed ha un’apertura alare di circa 80 cm. Non c’è alcuna differenza d’abiti tra maschi e femmine. Ha le zampe lunghe e un becco molto corto.
TARABUSINO (Menghighedda)
Ha il corpo di modeste dimensioni in rapporto alla lunghezza totale, è piuttosto stretto nei fianchi, ha ali larghe e lunghissime, la coda piccola. Il collo è lungo e molto mobile, e durante il volo viene piegato ad “S” e appoggiato sul corpo. Il becco è dritto e più lungo e molto mobile. Il becco dritto e più lungo della testa. Le zampe sono molto lunghe. Vive riunito spesso in branchi, in zone paludose. Costruisce grandi nidi, in cui depone da 3 a 5 uova. Alla nascita, i piccoli non sono assolutamente in grado di badare a se stessi, e dipendono a lungo dai genitori.
AVOCETTA (Filippa)
Questo caratteristico limicolo, cioè animale che vive nel fango, è di grossa taglia (ha, infatti, le dimensioni di cm 42/45), trova il suo habitat ideale nelle saline e stagni salmastri. Ha il becco nero rivolto all’insù, e zampe con tipica palmatura a differenza di quasi tutti gli altri limicoli. Il piumaggio è bicolore per entrambe i sessi, ma nella femmina le parti nere sono più sbiadite, l’iride è nocciola mentre nel maschio è rossa o bruno–rossiccia. Si ciba di invertebrati acquatici che ricerca smuovendo il fango col lungo becco in acque poco profonde, tuttavia non è raro trovarlo in acque più profonde, dove riesce a nuotare grazie alle zampe palmate e a cibarsi sommergendo la testa. Nidifica nel periodo compreso tra la fine di aprile e i primi d’ agosto. Le uova in numero di 3-4 vengono incubate da ambo i sessi.
BECCACCINA (Beccacci~a)
Sfugge al pericolo acquattandosi sul terreno e camuffandosi ottimamente tra la vegetazione grazie alle tinte rossicce, brune e crema del piumaggio. Il capo è compresso lateralmente, gli occhi sono molto spostati all’ indietro, il becco è lungo e dritto. Tipici sono il volo di levata a zig zag ed il raspante verso “scie'p scie'p” che lancia in volo. In ordine di importanza si nutre di: molluschi, crostacei, larve di insetti, ditteri, vegetali. Il corteggiamento e la costruzione del nido avvengono da fine marzo a fine aprile.
Fauna ittica.
GRANCHIO (Cavuru)
Ha un capo-torace trapezoidale di forma convessa con 5 denti al margine laterale e 3 denti smussati, a guisa di lobuli, al margine frontale. Le pinze sono allungate con le dita finemente dentate e appuntite. Le zampe terminano in punta acuta. Il suo colore sul dorso è verde oliva, verde giallastro, verde grigiastro o verde nerastro con tinte più cupe anteriormente; centralmente il colorito è più chiaro. Raggiunge la lunghezza di circa 6-7 cm. Si gusta bollito in abbondante acqua e sale e condito con olio d’oliva e aceto.
ANGUILLA (Anguidda)
L’anguilla è un pesce dal corpo subcilindrico, allungato, serpentiforme. La testa è allungata con le estremità della bocca che terminano sotto il centro dell’occhio. La bocca è munita di minuscoli denti in serie. La mandibola è più lunga della mascella. Sono presenti: una narice anteriore situata all’apice del muso, dotata di un piccolo tubo ed una narice posteriore. L’occhio è rotondo. La pelle, viscida per la presenza di un’abbondante sostanza mucosa, è dotata di squame minute più o meno nascoste. L’anguilla è un predatore vorace, notturno e si serve del fine olfatto per individuare larve di insetti, vermi, molluschi, crostacei, piccoli pesci o anfibi. Le larve di anguilla si nutrono di piccoli organismi (Plancton). Le anguille si differenziano per la grandezza, quelle piccole, “anguidda pascidroscia”, sono squisite cucinate in vari modi: fritte, bollite e col formaggio, ecc., mentre quelle grandi, “anguidda lo~ada” (capitoni), sono ottime arrosto.
ARSELLE (Cociua pintada)
Le arselle vivono in comunità numerose nei fondi a sabbie fini ben calibrate, poco profondi e con poca pendenza. La specie ha sessi separati. La maturità sessuale è raggiunta al primo anno di vita. Il periodo riproduttivo è in genere in primavera ed estate: I prodotti sessuali (gameti) sono emessi direttamente nell’acqua, dove avviene la fecondazione. L’arsella è un animale filtratore, si nutre cioè di plancton (piccoli organismi di una o più cellule vegetali o animali), che cattura aspirando attraverso una delle due aperture (sifoni) che escono dalle valve socchiuse. L’arsella è un mollusco con la conchiglia esterna formata da due parti distinte ed uguali, dette valve. Le valve sono tenute insieme da una cerniera, costituita da incastri con 3 denti cardine in ciascuna valva. Diversi anni fa nello stagno c’era una varietà di arselle di taglio più grande e di gusto più saporito chiamato “cociua lada”, ma attualmente è pressoché' scomparsa. A Cabras le arselle si cucinavano con la minestra oppure col prezzemolo e la vernaccia.
GHIOZZO (Imbuscio~i Maccio~i)
Si tratta di una delle specie di pesci più note e diffuse. Il corpo è moderatamente allungato e compresso lateralmente, con testa grossa, guance prominenti e occhi separati da uno spazio abbastanza stretto. Può raggiungere una lunghezza massima di 25 centimetri. Il ghiozzo abita nel Mediterraneo e nel Mar Nero e ha una spiccata predilezione per le acque salmastre, le lagune e gli estuari dei fiumi; per tutti quei luoghi, insomma, dove l’ acqua è fangosa e dove crescono, in gran quantità, le alghe. E' di colore grigio o bruno nero con macchie laterali più scure che, nel maschio, nel tempo degli amori, diventano ancora più scure. Una macchia scura caratterizza anche entrambe le pinne dorsali. Si ciba di crostacei, e altri animaletti. Nel Mediterraneo si riproduce da maggio ad agosto. Vive generalmente su fondali fangosi o sabbiosi ricchi di vegetazione. Durante il periodo degli amori, il maschio prepara la sua casa al riparo di un qualsiasi oggetto solido (anche una conchiglia o uno scoglio vanno bene) e invita con modi persuasivi tutte le femmine di passaggio a entrarvi per deporre le uova. Una volta deposte, le uova vengono subito fecondate, quindi tocca al maschio difenderle e ad accudirle ed è così occupato in questa incombenza da dimagrire a vista d’occhio. Nel nostro paese veniva consumato quasi esclusivamente fritto.
CARPA (Grappa)
I quattro barbigli, due sul labbro superiore e due su quello inferiore, gli permettono di intercettare le prede anche in acque molto buie. La carpa può raggiungere il peso di 18 kg e vivere in cattività fino a 50 anni.
A Cabras è sempre statoconsiderato un pesce poco pregiato; anticamente veniva cucinato in vari modi: tagliato a trance (date le sue notevoli dimensioni), infarinato e fritto, oppure arrosto, e i suoi avanzi, poiché' la polpa si asciugava notevolmente, venivano consumati a “scambecciu”.
ORATA (Canìa)
Sua maestà, la regina Orata. Di tutti i pesci dotati di aspetto regale, l’orata è indubbiamente quello che per diritto di nascita merita, più di ogni altro, il titolo di regina. Sul capo, infatti, l’orata ha, proprio tra gli occhi, una specie di mezzaluna color oro che le da' il nome e che ricorda in tutto e per tutto una corona regale. L’orata è un pesce superbo, severo, che incute soggezione. Ha un corpo alto, ovale e massiccio, ma lo porta con disinvoltura e signorilità. La mascella superiore è lievemente più lunga di quella inferiore e le labbra sono carnose ed evidenti. Ha da quattro a sei denti conici molto robusti nella parte anteriore di ciascuna mascella, seguiti da quattro o cinque file di denti molariformi nella mascella superiore e da tre o quattro file nella mascella inferiore. La pinna dorsale è unica ma, mentre la parte anteriore è dotata di spine robuste, quella posteriore è costituita da raggi molli. La coda è potente e forcuta, la pinna pettorale è lunga e sottile. Il colore è grigio o brunito sul dorso, argenteo sui fianchi, bianco sul ventre. La caratteristica macchia d’oro, visibile sulla fronte, scompare dopo la morte dell’animale. Può arrivare a una lunghezza di 70 cm e una decina di chili di peso. Le piace vivere in compagnia di pochi ma fidati compagni e si ciba di crostacei e di molluschi, che divora in gran quantità, triturandone i gusci con le formidabili mascelle. Il suo apparato digerente è invidiabile: sopporta ed assimila, come se niente fosse, i gusci spezzati delle conchiglie, che spesso inghiotte assieme alla polpa. La riproduzione avviene in autunno e, al contrario di molte specie che nel periodo degli amori si avvicinano alla costa, essa si sposta in zone più profonde, dove l’acqua è più limpida e più scura. L’orata è diffusa nel Mediterraneo. Le piacciono le acque tiepide e pertanto è facile trovarla lungo la costa d’estate e al largo d’inverno. Nella bella stagione, infatti, l’acqua superficiale è riscaldata dal sole, mentre dall’autunno in poi gli strati superiori dell’acqua si raffreddano. L’orata si trova perfettamente a suo agio nelle acque salmastre delle lagune, specialmente dove ci sono i vivai di mitili, con i quali fa lauti banchetti, ma non disdegna neppure i fondali rocciosi, ricchi di scogli, di canaloni e di spaccature. L’orata non ama le profondità abissali, ma non si lascia sorprendere nemmeno dove l’acqua è troppo bassa: di solito la si incontra dai 10-15 metri ai 50-60. Le orate appartengono a quella categoria di pesci molto apprezzati e, come le spigole, venivano cucinate soprattutto arrosto oppure in “bianco” con il prezzemolo e la vernaccia.
LATTERINO (Oixi)
Ha una grandezza di circa 12 – 15 cm e un caratteristico color argenteo. Si ciba di invertebrati e plancton. Depone in più riprese, a distanza di pochi giorni circa 600 uova che misurano 2 mm di diametro e possiedono delle protuberanze filiformi con le quali si fissano alle pietre. Molti anni fa, come viene riportato anche nel libro “La bella di Cabras”, “s’oixi” ha salvato dalla fame molte famiglie indigenti. Si consumavano quasi esclusivamente fritti o bolliti e bagnati nell’aceto.
SPIGOLA (Arangioa)
La caratteristica principale della Spigola è di avere, a differenza degli altri Serranidi, dorsali piuttosto vicine, anziché' una sola. Ha il corpo slanciato e poco compresso ai lati. La bocca è grande con mandibola leggermente prominente. Gli occhi sono piccoli e circolari. Il pre-opercolo inferiormente, è munito di alcune spinule, superiormente invece è seghettato. L’opercolo ha due spine volte all’indietro. Il dorso dell’animale è grigio-nerastro o grigio piombo, lucido; il ventre è bianco. Altre volte, invece, la colorazione subisce variazioni di tonalità, tendenti al grigio-giallastro in rapporto alla zona in cui esso vive. Gli esemplari giovani portano sovente una macchia nerastra sull’opercolo oppure lievi punteggiature disposte irregolarmente lungo i fianchi. La linea laterale è formata da 65 a 80 scaglie. Può raggiungere i 120 cm e toccare eccezionalmente i 12 Kg di peso. Quest’animale ha la capacità di adattarsi a qualunque tipo di habitat. Vive in acque salate e salmastre sia in quelle dolci. Può vivere sul fondo o risalire rapidamente in superficie. Può essere consumato arrosto oppure “in bianco” con il prezzemolo e la vernaccia, o più raramente in brodo.
SOGLIOLA (Pallaia)
La sogliola ha gli occhi a destra a livello differente. Il corpo è ovale e allungato. La pinna dorsale ha inizio innanzi all’occhio
MUGGINE O CEFALO (Pisc 'e iscatta, Limosa, Bidimbua, Lo~i)
Nelle acque italiane vi sono almeno cinque specie diverse di muggini, tutte hanno in comune un corpo robusto di forma allungata, il quale è rivestito da squame piuttosto grandi. La bocca è piccola e fragile; non possiede veri denti, ma delle piccole formazioni dentiformi. Il dorso ha due pinne, di cui la prima è sorretta da raggi spiniforini e la seconda da raggi molli. La pinna della coda ha due punte ed è incisa posteriormente, la pinna anale è posta al di sotto della seconda dorsale e le ventrali sono inserite nel torace, quasi al di sotto delle robuste pinne pettorali. La colorazione è mimetica, infatti il corpo è di un bel grigio piombo, i fianchi sono argentei con delle strisce longitudinali brune e infine il ventre è bianco. Le specie sono classificabili in: il muggine vero o cefalo comune, il cefalo dorato, il cefalo lambrone, il cefalo verzelata e infine il cefalo bosega. Tra tutte le specie il cefalo comune è quella più difficile da catturare. A causa del suo potere di adattamento ai diversi gradi di salinità, il muggine si può trovare negli ambienti più diversi. Infatti frequenta le acque salmastre delle lagune e delle foci dei fiumi, dei quali può risalire il corso fino a una certa distanza dalla foce stessa. In mare si può insidiare praticamente dovunque: lungo le coste rocciose, le dighe e i moli dei porti e dei porticcioli, le scogliere frangiflutti, e infine le coste sabbiose. Il cefalo comune raggiunge le dimensioni più ragguardevoli della sua specie; vive nelle lagune e raramente lo si trova in mare aperto. Essendo il pesce che più abbonda nelle acque dello stagno il muggine viene largamente consumato dai cabraresi nei vari modi: arrosto, fritto, “a cassoa”, affumicato, “scambecciau”, e “a pisci a craddaxiu” comunemente più noto sotto il nome di”mreca”.
Le imbarcazioni e gli arnesi per la pesca.
Inizialmente nella Peschiera di Pontis, e in prossimità delle rive dello stagno, veniva usata la zattera costruita in canne palustri “sa sattera” che venne successivamente sostituita dalle comuni barche in legno dalle dimensioni abbastanza ridotte (lunghe 4-5 m).
I pescatori che invece dovevano spostarsi per andare più a largo usavano delle barche più lunghe e robuste adatte anche al trasporto di 8 persone. Erano: “sa bracca de su poiggiu” o “schifu”, usata dai “poiggeris” e “sa bracca praa” (la barca piatta), usata dai “bogheris” e di dimensioni più ridotte. L’imbarcazione caratteristica per eccellenza è, invece, rappresentata da “su fasso~i” usata, perlopiù, dai palamitai. “Su fasso~i” appare come un incrocio tra zattera e barca, è interamente costruito in fieno palustre “su fe~u” presente nelle sponde dello stagno che molto assomiglia a “sa spadua”, un altro tipo di fieno palustre, quest’ultimo usato, però, per la costruzione di stuoie.
“Su fasso~i” poteva spostarsi con uno o due remi, essendo una zattera molto leggera non poteva essere usata per la pesca con le reti ma solo con il palamito o la fiocina. Non si riesce a stabilire con esattezza le origini di tale imbarcazione che pare sia antichissima. La sua eccezionalità consiste, fra l’altro, nel fatto che fu vista simile alle antiche barche egiziane fatte con fasci di papiro, ai battelli di Dicoa nel Golfo Persico, alle “balsas” peruviane del lago Titicaca, alla “varchetta d’anciddi” del lago di Lentini presso Siracusa. Un esemplare di “vassoi” è conservato fin dai primi del Novecento in un museo di Amburgo. In questi ultimi anni ne è stata rivalutata l’importanza grazie alla gara-regata promossa dal vicino Comune di S. Giusta. Considerando le origini di queste imbarcazioni dovrebbe essere un obbligo morale conservarne l’uso e mantenere viva la tradizione.
Gli strumenti e gli accessori per la pesca.
Tra gli accessori indispensabili per la pesca figurano senz’altro ai primi posti le reti. Tra queste, tipiche della peschiera per la pesca nella camera della morte, sono: “su pezzu mannu” (lunga circa 35 m) e “su pezzigheddu” (lungo circa 20 m). Per la pesca nel resto dello stagno la più importante era “su poiggiu” (dal cui nome deriva “ poiggeris” cioè pescatori dello stagno ma non di peschiera), una rete lunga circa 35 m, doppia, con maglie di dimensioni diverse, provviste di piombini (per scendere verso il fondo) e di galleggianti in sughero (per far salire la gente superiore della rete verso l’alto). Vi erano poi:
- “ sa sciaiga” (usate dagli “ sciaigotteris”) che consisteva in una rete simile a su poiggiu ma di dimensioni maggiori.
- “ is tousu” 3 strati di rete così predisposti : la prima a maglia larga, la seconda a maglia stretta e l’ultima di nuovo maglia larga.
- “ su fiau” rete usata solo in peschiera per la pesca delle anguille.
Oltre alle reti venivano utilizzati altri accessori:
- “s’obiga” cioe' una sacca di rete tenuta da un semicerchio di legno del diametro di 2 m
- “sa bilancia” una rete
di forma rettangolare o quadrata tenuta da due ferri incrociati appesi a un filo che a sua volta pendeva da una canna.
- “I nassasa” gabbie di giunco e rami flessibili di olivastro intrecciati tra loro, provviste di un’apertura attraverso la quale i pesci potevano entrare ma non uscire.
- “Is crogollus” una sacca in rete lunga circa 2 metri divisa in 9-10 parti da dei cerchi in olivastro che a loro volta formavano delle piccole sacche che andavano via via restringendosi, per cui i pesci riuscivano ad entrare tranquillamente ma non ad uscirne.
- .“Sa fruscia”e “su pettini” fiocine di piccole (la prima) e grandi dimensioni (la seconda) che richiedevano abilità e velocità nel colpire la preda.
- “Su paramitu”, un cestino di olivastro e fieno palustre che conteneva una lenza lunga anche 1500 metri, lungo la quale venivano appesi, a circa m 1,5 di distanza, dei fili di nylon lunghi 30 cm, nella cui estremità pendevano degli ami (che andavano poi agganciati al bordo del cestino quando l’attrezzatura veniva riposta).
Per la pesca notturna venivano usate delle lampade a olio, a carburo o a petrolio.
Lo stagno di Cabras, meglio note come stagno di Mar’e Pontis, era costituito da 3 peschiere: Sa Madrini (completamente scomparsa dopo la costruzione dello scolmatore e recentemente ricostruita), Pischeredda, e infine la peschiera Pontis: la più grande e importante.
Quest’ultima è quella che ancora oggi rappresenta la più importante risorsa ittica. Gli stabili di appoggio all’attività della pesca risalgono ai secoli passati. Notevole, davvero, l’insieme delle costruzioni, alcune di antichissima realizzazione, ora protette dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali. Tra queste costruzioni la più grande era la casa riservata al padrone per le sue frequenti visite: “su poaziu” (il palazzo) dotata di piano terra e piano superiore, dove si firmavano contratti e avveniva il pagamento per la vendita dei pesci. C’era poi “s’omu eccia” (la casa vecchia), destinata al ricovero di pescatori che non lavoravano in modo continuativo nello stagno, e “s’omu noa” (la casa nuova) dove pranzavano in due distinti locali, ”zaraccus” (servi) e “pasrargius “ (capi peschiere). I magazzini erano tre: uno riservato alle provviste del vino “su magasiu ‘e su i~u”, uno grande per la conservazione del pesce affumicato e della bottarga, per questo motivo il magazzino era anche chiamato “s’omu ‘e sa buttariga”, ed infine uno piccolo per la conservazione di materiali di vario tipo. Vi era poi, attigua a “somu eccia”, “s’omu ‘e affumai”, una casetta destinata alla sola affumicatura del pesce; sotto di essa vi era un grande forno per l’affumicatura. C’erano, inoltre,“s’omighedda’ e su sai” (la casetta del sale) adibita a magazzino per la conservazione del sale ora completamente distrutta; “sa coxia” (la cucina) composta da due grandi stanzoni: uno col caminetto per l’inverno e l’altro dove si cucinava e si consumavano i pasti in estate; “s’omu ‘e su fiau”, una costruzione per sorvegliare le anguille filatrote e infine altri locali d’appoggio. Per ultimi, fuori dal cancello, ma non per questo meno importanti, vi erano una casa per la conservazione del giunco chiamata appunto “s’omu ’e su giuncu”, “s’omu ‘e sa pighi”, per la conservazione della pece occorrente per il restauro delle barche ed infine “s’osteria” dove padrone e i compratori di pesce parcheggiavano i loro carri e carretti. In uno spiazzo antistante la peschiera vi era infine la chiesetta di San Vincenzo, dedicata appunto al santo patrono dei pescatori, festeggiato il 22 di gennaio.
Oltre i fabbricati principali nella peschiera erano presenti diverse piccole capanne di falasco, “cruccuri” (ora completamente in legno) che avevano un aspetto molto simile alle odierne tende canadesi. Queste capannine, denominate “barraccheddas de castiu”, venivano utilizzate, a turno, da un guardiano che, coricato all’interno di esse, garantiva un controllo, pressoché' costante, della zona. Date anche le sue piccole dimensioni, l’unico arredamento era costituito da un materasso di crine o una stuoia, un cuscino e qualche coperta. Dentro di esse si poteva accedere grazie ad una passerella ma il resto della costruzione era paragonabile ad una palafitta poiché' per tre lati era circondata dall’acqua e veniva sostenuta da pali impiantati sott’acqua.
La parte principale della peschiera era costituita da vari “sbarramenti” realizzati in canne e forniti di ”porticine” che, a loro volta, potevano essere aperte (per incanalare i pesci negli sbarramenti), oppure chiuse (per impedire ai pesci il ritorno al mare). Queste “cannizzadas“ erano costruite dagli stessi pescatori che realizzavano dei rettangoli di canne ripulite e legate con spago o giunchi delle dimensioni di 6 metri di lunghezza ciascuna (“is prantas”) le quali, unite tra loro, formavano i lati delle chiuse (pinnadas) che raggiungevano, in alcuni casi, 50-60 m di lunghezza. Il lavoro di sostituzione degli sbarramenti in canne veniva effettuato due volte all’anno: a maggio e a settembre. Questi sbarramenti erano attraversati da passerelle di legno che agevolavano la pesca e l’attraversamento a piedi da una sponda all’altra. Questi sbarramenti a labirinto sono senza dubbio suggestivi anche da vedere: in particolare il grande quadrato finale, dove finivano imprigionati grandi quantità di pesce e che veniva chiamato “ camera della morte”. Qui i pesci, ormai imprigionati e senza via d’uscita, vengono pescati da un folto gruppo di pescatori che con l’aiuto di “pezzu mannu e “
pezzigheddu”, circondano la camera della morte ed iniziano, sollevando le reti, ad avvicinarsi sempre più tra di loro restringendo a questo modo il cerchio nel quale i pesci sono rinchiusi. Con un cerchio ormai ridotto al massimo gli altri pescatori, dalla passerella, raccolgono il pesce con “s’obigu”.
L’antica piramide del potere in laguna.
Il personale che lavorava nelle peschiere (di Mar’e Pontis in particolare), seguiva un’organizzazione piramidale in cima alla quale stava il padrone dello stagno, appena sotto di lui seguivano, per importanza, due “pasrasgius” (tradotto: pesatori), cioe' 2 persone di fiducia che avevano il compito, oltre che di pesare i pesci pescati nello stagno o nella Peschiera, di compilare le bollette indicanti la quantita' e il prezzo del pesce venduto ed annotare (o controllare) che negli appositi registri venissero riportate le entrate e le uscite. Ai “pasrasgius” seguivano i “zaraccus” (servi) tra i quali molti godevano di una posizione privilegiata.
Sei “zaraccus”, infatti, aiutavano i “pasrasgius” nell’organizzazione dei lavori: uno faceva il cuoco, due stavano di guardia alla Torre “desu Pottu”, due stavano di guardia in peschiera e uno alla peschiera “de Sa Madrini”, questi incarichi ruotavano tra i sei “zaraccus”. A questi guardiani si univano sei guardie giurate più un certo numero di “poiggeris” (che variava nei diversi periodi dell’anno).
Il compito dei guardiani era quello di controllare che nello stagno non pescassero i pescatori di frodo, mentre in Peschiera, dove il controllo era ancora più serrato, si doveva provvedere a verificare che durante certe giornate ventose non entrassero troppi pesci nelle camere della morte, perché', in tal caso, la mancanza di ossigeno avrebbe causato una moria di pesci.
Seguivano, per importanza, i pescatori vagativi dello stagno: i “poiggeris” (il cui nome deriva da un tipo di rete chiamata “poiggiu”) e i “bogheris” (da “boga'i” remare). Questi due gruppi avevano la licenza, rilasciata dal padrone, di pescare nello stagno o per tutto l’anno (is poiggeris) o per un determinato periodo dell’anno (i bogheris). Tra i pescatori vagantivi i più importanti erano anticamente “is sciaigotteris” (da “sciaiga” un tipo di rete), ma questa categoria di pescatori è andato via via scomparendo intorno agli anni ’50.
Per i pescatori di peschiera il punto di appoggio era rappresentato dal complesso di costruzioni della Peschiera Pontis, per i pescatori vagantivi il punto di appoggio e di approdo era rappresentato da “Su Scaiu”, luogo dove i pescatori pernottavano prima del giorno di pesca e conservavano e pulivano le reti. Inizialmente “Su Scaiu” era ubicato in piazza Stagno ma successivamente venne spostato in Via Tharros, dove ancora oggi vengono utilizzati i locali e l’approdo per le barche. Per ultimi troviamo “is paramitaius” pescatori che, in massima parte, esercitavano il loro lavoro col palamito (da lì il loro nome) su “is fassois”. Intorno agli anni ’60 compaiono sempre più numerosi “is spadoa~ius”, pescatori abusivi che non avevano licenzadi pesca e lavoravano solo di notte perché' solo con l’aiuto delle tenebre potevano riuscire a sfuggire alla stretta sorveglianza dei guardiani.
Gli indumenti usati dai pescatori.
Il lavoro dei pescatori era molto duro, ma lo diventava ancor più in inverno allorché', durante la pesca in Peschiera si doveva entrare in acqua per lavorare . L’abbigliamento estivo era costituito solamente da calzoni corti (anticamente “crazzo~is”) mentre in inverno, oltre a questi, ci si copriva con vecchi maglioni, ma ciò non bastava certo a ripararsi dal freddo e, lavorare in queste condizioni proibitive, diventava molto faticoso. Successivamente, col passare degli anni, questo tipo di abbigliamento venne integrato con lunghi cappotti cerati “is inceraus” ma i piedi restavano ancora nudi; solo intorno agli anni ‘60 si è poi passati all’uso degli stivali in gomma.
Il sacro ed il profano.
Ogni professione ha il suo santo protettore. Quello dei pescatori, come abbiamo detto prima, è San Vincenzo, al quale era dedicata la chiesetta antistante la peschiera. La piccola chiesa, antistante la Peschiera Pontis, fu costruita sotto l’invocazione di San Vincenzo martire, forse a ricordare gli antichi padroni della peschiera, sotto la dominazione spagnola che durò in Sardegna tre secoli, dal 400 al 700 circa. Dai registri della parrocchia di Santa Maria Assunta e da altri documenti parrocchiali emerge che la chiesa già esisteva nel giugno 1830 e fino all’anno 1926 un cappellano vi celebrava la S. Messa in tutti i giorni di precetto.
Con il consenso dei padroni della peschiera, tutti della famiglia Carta di Oristano, si celebrava ogni anno la festa del patrono S. Vincenzo il 22 gennaio. Successivamente, con l’andare degli anni, le messe nei giorni di precetto e le feste di S. Vincenzo furono celebrate alla fine degli anni ’50.
Il 22 gennaio nella peschiera Pontis si faceva una grande festa di popolo. Questa festa era molto attesa dai famigliari dei pescatori, soprattutto dalle mogli, perché esse potevano recarsi in peschiera solo in questa occasione. Loro era in gran parte l’organizzazione dei festeggiamenti, che coinvolgevano anche i figli, che avevano l’occasione di uscire di casa e di stare insieme ai coetanei e divertirsi.
A questa festa partecipava la gran parte degli abitanti di Cabras. La vigilia della festa le donne delle famiglie dei pescatori che lavoravano in peschiera andavano a pulire e ad addobbare la chiesa; i “zaraccus” e i “pasrasgius”, nel frattempo si davano da fare per preparare “su cumbidu” (caffè e pesci per tutti). La giornata aveva inizio con una o più messe che venivano celebrate da sacerdoti in latino con la predica in sardo. I fedeli assistevano seduti per terra o in piedi, talvolta i partecipanti erano così numerosi che la chiesetta non poteva contenerli tutti, per cui in molti dovevano stare nel vestibolo o all’esterno. Finita la messa aveva inizio la fase profana della festa: si offriva il caffè che veniva preparato in pentoloni perché' la gente era tanta e se ne serviva in grandi quantità. Subito dopo venivano distribuiti alcuni piatti contenenti il pesce cucinato (pisci a craddaxiu), del quale se ne cucinava circa un quintale. I pesci che non venivano cucinati al banchetto potevano essere portati via dai presenti. Ai “zaraccus” e ai familiari spettava un trattamento particolare: mangiavano, oltre al pesce, carne di maiale, di pollo o d’agnello in grande quantità. A questo invito partecipavano anche i fabbri, i falegnami, i carpentieri e gli artigiani che lavoravano per la peschiera. Un invito particolare veniva offerto al sacerdote, al sacrestano e all’autista che lo accompagnava, dopo aver bevuto il caffe', infatti, mangiavano “pistoccusu”, “pirichittusu”, “anicinusu” e “druccisi de mendua” preparati nei giorni precedenti a spese dei padroni. Dopo aver mangiato il sacerdote portava via parecchi chili di pesci come ricompensa per aver celebrato le messe.
Durante il pranzo tutti bevevano abbondantemente del vino e si ubriacavano. Queste abbondanti libagioni creavano un particolare stato di euforia che metteva anche i più riservati nelle condizioni di scherzare in modo alquanto grossolano prendendo in giro e schernendo persone assenti…e presenti. Se era presente un suonatore di “organittus” o di “launeddas”, i presenti ballavano o si rallegravano ascoltando la musica, mentre, altri ancora, improvvisavano canti sardi riferiti anche ai presenti. A tarda sera tutti rientravano verso casa, ad eccezione dei “zaraccus” che avrebbero di lì a poco ripreso il lavoro, l’occasione di svago aveva creato un’atmosfera di divertimento ma, a festa finita, sopraggiungeva la malinconia perché sarebbe trascorso molto tempo prima che si ripresentasse l’occasione di un’altra festa.
Che ne dite….della meravigliosa storia dello stagno di Cabras, perla della penisola del Sinis, che ha un passato antico ed avvincente? Mi piacerebbe conoscere la Vostra opinione, con i possibili commenti.
Prima di chiudere voglio fare un doveroso ringraziamento. Ho potuto raccontarvi tante curiosità con l’aiuto delle molte notizie sull’argomento, reperite dai ragazzi delle Scuole di Cabras. L’interessante studio è stato fatto dagli alunni delle classi 4^A e 5^A della Scuola Elementare di Cabras nell’anno scolastico 2001/2002, nell'ambito del progetto "Dalla Matita al mouse". Hanno coordinato i lavori le insegnanti Annina Vece e Stefania Putzu. Ecco il sito: www.scuolecabras.it.
Grazie, cari amici, della Vostra sempre gradita attenzione!
Mario.
1 commento:
Bellissimo lavoro, grazie per questo tediare...
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