Oristano 5 Agosto 2011
Cari amici,
l'argomento di oggi è un po' complesso.
Credo, però, che interessi tutti, sopratutto noi sardi. I fatti recenti impongono a tutti noi una maggiore consapevolezza ed un impegno che non esonera nessuno: solo con il contributo di tutti potremo davvero uscire dal guado.
Leggiamo tutti con attenzione.
Il termine globalizzazione di uso più comune è riferito prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni fra popoli e grandi aziende. A livello più generale, invece, va riferito ad un ambito più ampio ed è inerente al contesto globale dei cambiamenti sociali, tecnologici e politici, e delle complesse interazioni su scala mondiale che, soprattutto a partire dagli anni ottanta, in questi ambiti hanno subito una sensibile accelerazione, incluso quel fenomeno di progressivo allargamento della sfera delle relazioni sociali sino ad un punto che potenzialmente arriva a coincidere con l'intero pianeta. Da questo punto di vista la globalizzazione delle relazioni economiche e finanziarie e la globalizzazione delle comunicazioni (compresa l'informatizzazione del pianeta) rappresentano un unicum strettamente interconnesso.
Come già accennato la globalizzazione non riguarda solo l’aspetto politico-economico, ma anche quello informatico (reti telematiche, internet, ecc.) e quello strettamente sociale. Fa infatti parte dell’esperienza quotidiana di miliardi di consumatori in tutto il mondo la possibilità di acquistare prodotti, beni e servizi ideati, fabbricati e commercializzati nei più lontani angoli del mondo. L’efficienza di questo processo si basa sulla possibilità tecnologica, data dallo sviluppo e dall'impiego dell’informatica e della telematica, di trasmettere in tempo reale le informazioni ovunque. Questa ‘interrelazione globale’, significa anche interdipendenza globale, per cui i cambiamenti, le sostanziali modifiche, che avvengono in una parte del pianeta avranno, in virtù di questa interdipendenza, contemporanee ripercussioni (di vario segno) anche nel resto del pianeta stesso.
Sotto il profilo politico-economico la globalizzazione ha portato ad una perdita di potere degli stati nazionali e ha permesso al mercato finanziario di sostituirsi ai mercati nazionali; quasi tutte le imprese hanno sviluppato completamente un proprio lato finanziario in modo da diversificare la proprie attività ad allo stesso tempo di integrarle. Questo obbiettivo è stato raggiunto in particolare dalle grandi imprese, le cosiddette multinazionali, che vantano dei bilanci enormemente consistenti (basti pensare che le venti maggiori imprese del pianeta hanno un ricavato superiore a quello dell’economia degli ottanta paesi più poveri). Esse agiscono, infatti, “trapassando” i mercati nazionali e tendendo a spostare i loro capitali verso i paesi in via di sviluppo, i quali vengono costretti ad integrarsi nel mercato in una posizione assai debole. Sul piano economico-sociale si può dire, per esempio, che l’espansione delle attività delle multinazionali ha portato alla creazione di pochissimi posti di lavoro. Non solo. La ricerca del maggior profitto ha spostato l’occupazione dai paesi in cui essa risultava troppo costosa, ai paesi ove il costo della vita era più basso ed il trasferimento in essi di un gran numero di imprese.
Alla luce di questo fenomeno inarrestabile, considerata l’impossibilità di tornare indietro, bisogna allora necessariamente trovare i giusti correttivi. Quali?
Uno di questi è certamente quello di cercare di coniugare la globalizzazione con la valorizzazione delle particolari specificità “locali” di ogni singolo popolo. Questo significa estrapolare il meglio dalle migliori ancorché scarse risorse ( a livello globale) locali per soddisfare esigenze specifiche di particolare valore: in sintesi attraverso la valorizzazione delle risorse “di nicchia”, capaci di ‘volare alto’ in quel mare magnum di un mercato uniformato ed amalgamato, buono per tutti e capace di accontentare tutti. Mercato di nicchia che, attraverso una severa selezione altamente qualitativa del prodotto, possa soddisfare le particolari esigenze degli ‘abbienti’, disposti a soddisfare i propri bisogni anche a prezzo elevato.
Questo processo di integrazione tra la prodotto o servizio “Globalizzato” e prodotto o servizio “Locale” e definito “ GLOCALIZZAZIONE”. Dall'agire ‘globale’ all’agire ‘glocal’ il passo è breve.
La parola Glocal, ha avuto un suo affermarsi negli anni Ottanta in Giappone, ripresa dal sociologo inglese Roland Robertson e rilanciata da Zygmunt Bauman. E’, però, Edgar Morin a definirla nel senso più compiuto. Morin parla di "un pensiero capace di non rinchiudersi nel locale e nel particolare, ma capace di concepire gli insiemi, adatto a favorire il senso della responsabilità e il senso della cittadinanza" (La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, 2000). Glocal coniuga globale e locale, nel tentativo di ammortizzare l'urto della globalizzazione che tende ad uniformare in logiche standard, astratte e disumanizzanti, le peculiarità, sociali, culturali nonché economiche, delle specificità territoriali.
Guardiamoci intorno, il nostro Paese si fa sempre più piccolo in un mondo globalizzato, così sbilanciato ad oriente che la Cina ha in mano gran parte del debito pubblico statunitense. Eppure c'è un modo per fare di questo essere così piccoli e così minoritari (l'italiano è una delle lingue meno parlate...) qualcosa che inneschi un processo virtuoso. Questo qualcosa è proprio l’agire ‘glocal’, ovvero l'agire locale nel contesto globale. L'Italia è esemplare per le sue biodiversità coniugate alle culture materiali: dall'enogastronomia a quelle immateriali della bellezza artistica e delle tradizioni popolari, distribuite in un sistema micro e macro-regionale ad alta antropizzazione che rivela unicità sorprendenti. In questo contesto la Sardegna potrebbe recitare un ruolo assolutamente primario. Quanto agire glocal potremmo davvero mettere in gioco.
Pensiamoci cari amici non aspettiamo che siano gli altri a farlo! Ciascuno di noi può e deve fare la sua parte. Non facciamo che anche in futuro la gente continui a pensare ai sardi come ‘sudditi’, che i sovrani spagnoli definivano “Pocos, locos y mal unidos.”
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