Oristano 11 Novembre 2010
Cari amici,
ecco un'altro dei ricordi della mia fanciullezza.
Quand'ero ragazzo uno dei riti a cui proprio nessuno poteva sottrarsi era quello, oggi in disuso, della cena “ in comune”, che raccoglieva tutti i membri della famiglia.
All’ora stabilita, comunemente definita “al tocco dell’Ave Maria”, corrispondente al calare delle prime ombre della sera, tutta la famiglia si raccoglieva intorno al grande tavolo della cucina; nessuno, salvo rare eccezioni giustificate, poteva esimersi dal partecipare, per quanto grande fosse il numero dei suoi componenti. Era una “riunione” obbligatoria, assentarsi un sacrilegio.
Il pranzo, invece, era più libero e non veniva considerato cosi solenne ed importante come la cena. Questo derivava certamente dal fatto che il lavoro dei campi non consentiva spesso il rientro a casa; a mezzogiorno, quindi, si consumava una pasto frugale: in campagna, sul luogo di lavoro, il capofamiglia con i figli grandi, mentre in casa mangiavano le donne ed i ragazzi.
La cena, invece, riuniva al completo tutti i membri della famiglia. Era questo convivio rituale quasi un consuntivo dell’andamento della giornata. Il primo a raggiungere il grande tavolo di cucina, di fronte al camino, era il padrone di casa che sedeva a capotavola; a seguire tutti i componenti che raggiungevano i loro posti e si sedevano in maniera composta. La padrona di casa serviva per primo il capotavola e poi, a seguire, i vari componenti della famiglia, in ordine di anzianità. La cena era una specie di “Consiglio di famiglia”, una riunione importante ed aggregante, dove venivano affrontati i problemi e programmati i lavori e gli impegni per i giorni successivi.
Il silenzio a tavola era d’obbligo. Era il padrone di casa a gestire la conversazione. Era Lui il primo a prendere la parola, il solo a fare le domande, l’unico autorizzato a dare disposizioni ed a fornire le direttive per l’indomani. Gli altri partecipanti, moglie e figli, potevano solo assentire e, in pochi casi, chiedere maggiori dettagli sull’esecuzione degli ordini. Al capo famiglia, a cui tutti dovevano il massimo rispetto, competeva tutto il potere decisionale: dalla gestione economica a quella sociale della famiglia. Nessun componente, moglie, figlio o figlia che fosse, si sarebbe mai sognato di intraprendere attività, andare fuori per lavoro o sposarsi, senza il preventivo consenso del capofamiglia.
Veniamo ora all’episodio che sto per raccontarvi.
In casa mia l’ora stabilita per la cena, come in tante altre famiglie, era, senza deroghe di sorta, quella segnalata dal tocco serale delle campane: il tocco dell’”Avemaria”. Gli orologi individuali, da polso o da tasca, allora non abbondavano e la campana del campanile della Chiesa era considerata il grande orologio collettivo.
Per noi ragazzi, in qualunque parte del paese stessimo giocando, i primi rintocchi erano considerati “lo stop decisivo”, quello che, in qualunque fase del gioco fossimo, stabiliva la rapida interruzione ed il veloce rientro alle proprie case per la cena. Non vi erano eccezioni di sorta.
Un giorno, però, le cose per me non andarono proprio nel verso giusto.
Ho già avuto occasione di raccontare che ai tempi della mia fanciullezza i giocattoli ed i mezzi per trascorrere il tempo libero non erano abbondanti: anzi sarebbe meglio dire che erano cosi scarsi da poter essere considerati inesistenti. Io, fortunatamente, avevo un mio amico che disponeva, buon per lui, di una vecchia bicicletta.
Aggiustata mille volte, con i copertoni e le camere d’aria che avevano più rattoppi (“pezzette”) che struttura originale, era comunque molto robusta (una Bianchi con freno a bacchetta, lo ricordo ancora) e capace di sopportare, pur con i suoi anni, il peso di due ragazzi esuberanti.
Un pomeriggio primaverile, complice il calore della bella giornata, ci venne un’idea originale: andare in bicicletta nel vicino Paese di Tramatza a trovare un nostro amico. Tramatza distava solo pochi chilometri, era ben collegata, tra l’altro, a Bauladu dal sottile nastro d’asfalto (la vecchia strada statale Carlo Felice) che collegava Cagliari con Sassari, e noi, senza avvisare nessuno, ci avventurammo. Era la prima volta, non era mai successo prima.
Un pomeriggio primaverile, complice il calore della bella giornata, ci venne un’idea originale: andare in bicicletta nel vicino Paese di Tramatza a trovare un nostro amico. Tramatza distava solo pochi chilometri, era ben collegata, tra l’altro, a Bauladu dal sottile nastro d’asfalto (la vecchia strada statale Carlo Felice) che collegava Cagliari con Sassari, e noi, senza avvisare nessuno, ci avventurammo. Era la prima volta, non era mai successo prima.
Le poche strade asfaltate di quel periodo erano realizzate e riparate esclusivamente con il lavoro “manuale”, degli operai e dei cantonieri, miscelando la graniglia di pietrisco con il catrame. Ai bordi del nastro d’asfalto, ogni cinquecento metri vi era una “piazzola”, ove faceva bella mostra un elegante deposito di pietrisco, ben curato a forma di piramide, e dei grossi fusti di catrame che, opportunamente squagliato con improvvisati fuochi di legna, veniva a caldo miscelato alla ghiaia per realizzare i “rappezzi” delle parti usurate. Il risultato finale era un manto cosi rugoso, ruvido, capace di perforare anche la gomma più consistente e che consumava in poco tempo qualsiasi pneumatico si avventurasse a percorrerlo.
Pedalando a turno e alternandoci uno in sella e l’altro sulla canna della bicicletta, io ed il mio amico raggiungemmo lentamente Tramatza. In piazza cercammo e trovammo il nostro amico e trascorremmo con lui ed altri nuovi amici buona parte della serata. Al momento del rientro ci accorgemmo, con disappunto, che una delle gomme della bici era bucata: ripararla era impossibile. Il terrore si dipinse sui nostri volti. Tornare a piedi significava fare tardi: non saremo mai arrivati a casa per l’ora di cena, in quanto si avvicinava inesorabilmente il suono fatidico della campane che imponevano il pronto rientro a casa. Noi, tra l’altro, non avevamo avvertito della “gita”, quindi eravamo doppiamente colpevoli!
Il nostro amico ci diede un suggerimento che poteva risolvere il problema: rientrare costeggiando il fiume ( il rio Cispiri ), accorciando di non poco il tragitto. L’idea era buona, anche se noi non conoscevamo bene il sentiero che costeggiava il fiume. Ci avventurammo.
Faceva ancora abbastanza luce e, facendo il più in fretta possibile, iniziammo trafelati a percorrere il sentiero. Non era facile. I rovi ci flagellavano le gambe e mettevano a dura prova i calzoncini e le malandate scarpe che avevamo ai piedi. Cercavamo di accelerare il passo ma, nel frattempo il buio rese le cose ancora più difficili. La paura iniziava ad entrarci dentro. In alcuni punti il sentiero era ancora zuppo di acqua e melma e noi, con il peso della bicicletta appresso, sporchi, infangati e sudati, cercavamo in tutti i modi di fare il più in fretta possibile.
Avevamo ancora un bel tratto di strada da fare quando sentimmo il lontano rintocco delle campane. Ci guardammo impauriti e le lacrime bagnarono i nostri volti sporchi e feriti dai rovi. Non ci demmo per vinti. Con il viso velato di lacrime, stringendo i denti, facemmo l’ultimo sforzo ed arrivammo a casa. Ero terrorizzato per il ritardo, ma ormai la frittata era fatta.
Arrivato di fronte alla porta non avevo il coraggio di bussare: il cuore mi batteva forte in gola. Fui anticipato da Mamma, che, forse preoccupata del mio mancato rientro, spiava i rumori della strada. Lei apri la porta, mi guardò spaventata e con tono minaccioso mi disse: “Marieddu, dov’eri”? Tenendo gli occhi bassi non risposi. Lei acchiappò il mio ciuffo ribelle che mi ornava la fronte, mi diede due sonori ceffoni e mi disse: “che non ti succeda mai più!”.
Fui privato della cena e, dopo un sommario repulisti, andai in camera mia. Piansi a dirotto. Avevo tradito la fiducia dei miei e non lo sopportavo. Non lo avrei più fatto. Mamma prima di andare a letto mi porto un pezzo di pane abbrustolito con sopra una striscia di lardo; cercava di farmi capire la sua preoccupazione e la sua delusione con un finto sguardo di rimprovero che, invece, nascondeva un grande ed infinito amore.
Mario.
Il nostro amico ci diede un suggerimento che poteva risolvere il problema: rientrare costeggiando il fiume ( il rio Cispiri ), accorciando di non poco il tragitto. L’idea era buona, anche se noi non conoscevamo bene il sentiero che costeggiava il fiume. Ci avventurammo.
Faceva ancora abbastanza luce e, facendo il più in fretta possibile, iniziammo trafelati a percorrere il sentiero. Non era facile. I rovi ci flagellavano le gambe e mettevano a dura prova i calzoncini e le malandate scarpe che avevamo ai piedi. Cercavamo di accelerare il passo ma, nel frattempo il buio rese le cose ancora più difficili. La paura iniziava ad entrarci dentro. In alcuni punti il sentiero era ancora zuppo di acqua e melma e noi, con il peso della bicicletta appresso, sporchi, infangati e sudati, cercavamo in tutti i modi di fare il più in fretta possibile.
Avevamo ancora un bel tratto di strada da fare quando sentimmo il lontano rintocco delle campane. Ci guardammo impauriti e le lacrime bagnarono i nostri volti sporchi e feriti dai rovi. Non ci demmo per vinti. Con il viso velato di lacrime, stringendo i denti, facemmo l’ultimo sforzo ed arrivammo a casa. Ero terrorizzato per il ritardo, ma ormai la frittata era fatta.
Arrivato di fronte alla porta non avevo il coraggio di bussare: il cuore mi batteva forte in gola. Fui anticipato da Mamma, che, forse preoccupata del mio mancato rientro, spiava i rumori della strada. Lei apri la porta, mi guardò spaventata e con tono minaccioso mi disse: “Marieddu, dov’eri”? Tenendo gli occhi bassi non risposi. Lei acchiappò il mio ciuffo ribelle che mi ornava la fronte, mi diede due sonori ceffoni e mi disse: “che non ti succeda mai più!”.
Fui privato della cena e, dopo un sommario repulisti, andai in camera mia. Piansi a dirotto. Avevo tradito la fiducia dei miei e non lo sopportavo. Non lo avrei più fatto. Mamma prima di andare a letto mi porto un pezzo di pane abbrustolito con sopra una striscia di lardo; cercava di farmi capire la sua preoccupazione e la sua delusione con un finto sguardo di rimprovero che, invece, nascondeva un grande ed infinito amore.
Mario.
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