giovedì, dicembre 03, 2009

I MIEI PRIMI GIORNI DI SCUOLA ( Il mio primo Maestro )


















Oristano 3 Dicembre 2009

Cari amici,
quella che riporto è una storia vera.

E' la storia della mia prima esperienza scolastica, quella delle elementari che ho frequentato al mio paese natio: Bauladu.

Fa parte delle "mie memorie", una sequenza di flash, relativi agli anni giovanili, che sto portando avanti da qualche tempo. Spero di completare questo mio lavoro facendone un piccolo libro.

Ecco in anteprima questo primo racconto.

Buona lettura.

Su Maistu Pisu
( Il Maestro Pisu,il mio primo maestro)

Nell’anno scolastico 1950/51 andai per la prima volta a scuola.
Non vi erano allora scuole materne, asili nido o strutture di tal genere per le famiglie. La scuola iniziava con le elementari e, ovviamente, c’era il maestro unico. Oggi si parla tanto e si critica il ritorno a questa forma didattica, ma io credo, invece, che nei primi anni il bambino all’inizio del percorso formativo debba avere un punto di riferimento fisso, un unico gestore del suo “computer” che si appresta a ricevere i primi programmi, le prime tecniche per acquisire il sapere.
Il passaggio dal mondo infantile, quello dei giochi e della mancanza di impegno, a quello delle prime responsabilità dei primi impegni programmati, credo debba avvenire attraverso una figura unica, forte, carismatica. Penso che la presenza di più figure di riferimento non faccia altro che aumentare le difficoltà del passaggio dall’età infantile all’età scolare. Questa, però, è solo la mia opinione. Torniamo, dunque, alla mia prima esperienza scolastica.
L’edificio che ospitava la scuola era, come del resto tutti gli edifici pubblici dell’epoca, formato da larghi corridoi, aule grandi con i soffitti alti ( le classi erano numerose con oltre 30 alunni), grandi finestre, muri imbiancati a calce e pavimenti in marmette di graniglia. In ogni aula una grande cattedra, su un piedistallo ben rialzato, troneggiava di fronte alle due file dei banchi (una fila per i maschi e l’altra per le femmine), con a destra una grande carta geografica ed a sinistra una lavagna incorniciata in legno, un po’ staccata dal muro e collocata su un supporto in parte girevole. Una piccola mensola raccoglieva i gessetti bianchi ed il cancellino di feltro.
Le famiglie preparavano con impegno i bambini per il primo giorno di scuola. D’obbligo il grembiule nero con il colletto bianco, l’abbecedario e la penna con i pennini. Il calamaio in vetro contenente l’inchiostro era già predisposto, incassato nel banco di legno.
Il primo giorno di scuola era una festa. Tutti ripuliti, pettinati, trasformati dal grembiule nero e colletto bianco in tanti piccoli pinguini vocianti. Nel corridoio il bidello, con aria severa, sorvegliava che tutti si avviassero in silenzio ed in fila alle rispettive aule. Le due lunghe file di banchi in legno, a due posti ciascuno, attendevano l’arrivo dei nuovi occupanti. Il vociare ininterrotto e le prime schermaglie sull’occupazione dei posti si interrompevano all’improvviso all’arrivo del maestro: tutti in piedi, allineati nei banchi, per l’obbligatorio saluto in coro “buongiorno signor maestro”.
Ci si metteva a sedere, allora, solo dopo aver ricevuto l’invito dell’insegnante. Le classiche due bancate, come dicevo prima, avevano uno scopo ben preciso: dividere, come in Chiesa, i bambini in due gruppi: a destra le femmine ed a sinistra i maschi.
Io iniziai la mia carriera scolastica con il maestro Ilario Pisu. Costui era già un uomo di una certa età. Sposato con un’ insegnante, signora Stefanina, aveva tre o quattro figli tutti un po’ più grandi di me. Era un uomo apparentemente burbero, poco incline alla risata, che pretendeva da tutti obbedienza e rispetto. A scuola lo sapevamo bene che ridere e scherzare sarebbe stato alquanto temerario! Per me, poi, vi era un’ulteriore penalizzazione: la casa del maestro Pisu e quella della mia famiglia avevano i cortili confinanti. La sera, spesso, mio padre e lui dialogavano mentre si occupavano entrambi dell’orto. Sarebbe stato impossibile per me comportarmi male a scuola senza che i miei genitori lo sapessero immediatamente!
Non nego di aver avuto sempre un carattere esuberante. Per me rimanere fermo per lungo tempo sul banco è sempre stata una grande tortura. Questa mia iper-attività era mal digerita dal maestro. Egli cercò in tutti i modi di smorzare, annullare, questo mio comportamento per lui anomalo. Provò a cambiarmi di posto portandomi ai primi banchi. Avendo ottenuto scarsi risultati mi costrinse a sedermi al primo banco, proprio di fronte a Lui, convinto di riuscire nell’impresa. La riuscita, però, fu solo parziale e temporanea: i richiami erano una costante ed il risultato sempre scarso. Fece allora un ultimo tentativo: mise a fianco a me, sempre al primo banco, una bambina. Questo fatto, allora del tutto inusuale, fu da lui concepito nella convinzione che questo artifizio potesse riuscire a moderare la mia elettricità. Fu tutto inutile. Restai al primo banco e lui si rassegnò ad accettarmi com’ero.
Un altro mio difetto infastidiva non poco il maestro Pisu: il fatto che io fossi mancino. Non bastava il fatto che ero esuberante! In quei tempi, contrariamente alla logica di oggi, il mancino era un “diverso”, uno che doveva essere corretto e portato alla “normalità” degli altri. Ero l’unico mancino della classe e lui provò in tutti i modi a porvi rimedio. Anche i programmi scolastici erano ben diversi da quelli di oggi. Nei primi due anni si imparava a scrivere facendo una sequenza infinita di segni uguali ( le aste di varia lunghezza e inclinazione ) per passare, poi, negli anni successivi alle materie come storia geografia, aritmetica e cosi via. La teoria degli insiemi era ancora da venire! Lunghe file di aste allineate nelle pagine di lugubri quaderni con la copertina nera ed il bordo rosso erano un po’ l’incubo degli scolari di allora.
Nei giorni dedicati al dettato quando il maestro chiedeva di prendere la penna, allora un lungo bastoncino di legno con il supporto per infilarvi uno dei pennini in dotazione, e iniziare a ricopiare le “aste” da lui disegnate alla lavagna, iniziava per me un vero e proprio tormento. La mano pronta a scattare per prendere la penna, infilare il pennino ed intingerla nell’inchiostro, non era per me la destra, quella che tutti gli altri usavano, ma la mano sinistra.
Durante questi preparativi che precedevano lo svolgimento degli esercizi il maestro passeggiava lentamente tra le due bancate, osservando minuziosamente ciascuno di noi. Lasciando la cattedra portava sempre con se una lunga bacchetta. Lo strumento, ausilio del maestro per spiegare, evidenziare i diversi punti nella carta geografica o indicare quanto scritto alla lavagna era un semplice ramo di olivo o lentischio, ripulito e levigato, abbastanza robusto ma flessibile; oltre che per gli scopi prima ricordati era atto anche ( allora si poteva…) a richiamare, in maniera forte, gli allievi poco attenti alle lezioni. Questa bacchetta io la conoscevo bene: era diventata la mia ossessione.
Come ho detto prima, essendo seduto al primo banco, molto vicino quindi alla portata della sua “arma letale”, gli era facile ricordarmi, con questo strumento, come dovevo comportarmi. Torniamo al dettato.
Al suo comando di prendere il quaderno e la penna, la mia mano sinistra, prima a muoversi per cercare la penna, incontrava inesorabilmente la sua bacchetta che, con colpo secco, piombava sul dorso della mano o sulle dita, costringendomi a fare velocemente marcia indietro. Con grande fatica mentale costringevo, allora, la mano destra a prendere la penna, intingerla con difficoltà nel calamaio ed iniziare, poi, la lunga e difficile serie di aste sul quaderno. Le frequenti macchie d’inchiostro tra un’asta e l’altra dimostravano, se mai ce ne fosse stato bisogno, le difficoltà che trovavo a cambiare abitudini. Sul mio essere mancino e sulla necessità di essere corretto, non mollò mai; sulla mia esuberanza, a malincuore, si rassegnò a sopportarmi, considerato anche che seguivo con grande facilità ed apprendevo molto velocemente.
Imparai faticosamente e malvolentieri a scrivere con la mano destra. Credo che la mia pessima grafia, che non sono mai riuscito a migliorare, sia frutto di questa costrizione, del mio perenne rifiuto mentale a scrivere con “l’altra mano”. Ancora oggi, a parte l’uso della penna con la mano destra, per tutte le altre necessità, continuo ad usare la mano sinistra, compreso l’utilizzo “mancino” delle posate a tavola.
Pur non condividendo i metodi didattici applicati ho avuto nei confronti del mio primo maestro, un concetto molto positivo. Non esagero se dico francamente che per me fu un grande maestro di vita. Fu lui, per primo, a capire che, nonostante la mia esuberanza, ero portato per gli studi. Apprezzando le mie capacità si era fatto la convinzione che io dovessi continuare gli studi e non fermarmi alla licenza elementare. Sarei dovuto andare, secondo lui, prima alla Scuola Media e poi alle Superiori e diplomarmi, nonostante le dichiarate difficoltà economiche della mia famiglia. Le sue quotidiane chiacchierate con mio padre, la sera, mentre ciascuno seguiva il suo orto ( i nostri cortili, come dicevo prima erano confinanti ), ottennero il risultato di convincer i miei a fare qualsiasi sforzo, qualsiasi sacrificio perché sia io che mio fratello continuassimo gli studi. E fu cosi. Arrivammo entrambi, al diploma, con un’ottima votazione.
Conservo gelosamente il libro ( allora i libri erano davvero preziosi) che volle regalarmi alla chiusura del quinto anno, al termine delle scuole elementari. Il libro ha una sua dedica che, oltre alla lode per il mio impegno, contiene un forte invito a continuare con impegno nello studio, a non rassegnarmi a vivere nell’ignoranza, che costringe poi nella vita a fare i lavori più umili; era un invito a stringere i denti e lottare per raggiungere posizioni e traguardi più alti ed appaganti.

Non dimenticherò mai il suo sguardo burbero e severo, ma fondamentalmente buono, che mi ha accompagnato per tutti i cinque anni delle Elementari. Ho ancora impressa nella mente la sua imprecazione urlata con la quale in aula, con voce alterata, ci ordinava il silenzio e ci calmava: “ Basta, Porca boia”! Era cosi efficace che riusciva a zittirci tutti in un solo istante.
Chissà poi perché il boia, nel suo sfogo urlato, era femmina e non maschio!

Mario Virdis












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