Oristano
21 Febbraio 2016
Cari amici,
il lungo, difficile e
tormentato iter che sta seguendo al Senato la legge sulle unioni civili merita
senz’altro molte riflessioni, anche da parte dei ‘non addetti ai lavori’,
intendendo con questo termine ciascuno di noi cittadini, che dovremmo sempre
soppesare quanto, ci piaccia o no, bolle in pentola. Che modificare una
struttura radicata nei secoli (anzi, nei millenni) come la famiglia, da sempre
pietra miliare della Società, sia di una difficoltà enorme non vi è dubbio,
anche se tutti sappiamo che nulla è immutabile. Ma il cambiamento in atto,
però, è qualcosa di macroscopico, in grado di stravolgere l’attuale concetto di
famiglia che resiste da millenni, 'status quo' difficile se non impossibile da gettare alle
ortiche, se non trovando un modo intelligentemente e coerente di regolamentazione, creando il nuovo assetto
senza distruggere il vecchio.
Il concetto di famiglia
si è consolidato nei secoli con uno scopo ben preciso: costruire il futuro dell’uomo
perpetuando la specie e trasmettendo la vita con la nascita delle generazioni future, non
certo per vivere meglio insieme, godendosi la piacevole compagnia di altri partner. Partendo da questo
presupposto, a mio avviso, stare insieme (convivenza) e formare una famiglia
(procreazione) sono due cose nettamente differenti: metterle insieme, creare un
unico calderone, sarebbe certamente uno snaturare il concetto stesso di
famiglia, che da sempre ha identificato lo stare insieme per la procreazione, perpetuando la
specie. Il fatto poi che si possa stare insieme anche fuori dal concetto di
famiglia (in senso classico) di per se non è certo un male, anzi! Ma parificare
questi due sistemi, questi due modi di convivere, mi sembra a dir poco azzardato.
Fatta questa premessa, proviamo
ad entrare un attimo tre le pieghe dell’attuale legge in discussione in
Parlamento, che si basa sul DDL Cirinnà, dal nome della Senatrice proponente.
Fermo restando che anche l’Italia ha necessità di varare norme di legge per regolamentare le convivenze, più
chiaramente definite ‘unioni civili’, i forti dubbi che sorgono sono quelli sul modo di regolamentare questo ‘stare
insieme’. Le ipotesi sul tappeto credo che superino le reali necessità di
regolamentazione di queste unioni, che debordano da quello che, nella realtà, la
gran parte degli italiani secondo me vorrebbe. Cerco di spiegarmi meglio.
Il decreto Cirinnà, in
sintesi, è diviso in due parti: la prima riguarda specificatamente le coppie dello stesso sesso e prevede
sia l'adozione del figlio del partner sia la reversibilità della pensione. La
seconda è dedicata alle convivenze di fatto, sia etero che omosessuali. Le
convivenze tra queste coppie di fatto, tanto etero quanto omosessuali, vedranno regolati
i loro diritti, sanciti sia dalla giurisprudenza italiana che europea, relativamente
alla reciproca assistenza (ciascun convivente può designare l'altro con pieni
poteri o limitati per le decisioni in materia di salute o in caso di morte),
alla permanenza nella casa in cui si vive assieme, compresi diritti successori (contratti, casa d'abitazione, diritti nell'attività di impresa).
Tolti alcuni punti
fermi e da tutti in realtà accettati, una delle parti più spinose del
provvedimento legislativo è quella che, nel regolamentare ufficialmente la
convivenza ‘simil-matrimoniale’ delle coppie dello stesso sesso, prevede e consente anche l’adozione, da parte di uno dei due,
del figlio dell'altro partner, la così detta stepchild adoption. Parte della legge, quest’ultima,
abbondantemente contestata, in quanto risultano numerosi i motivi alla base del rifiuto
all’approvazione, da parte di un variegato gruppo di esponenti
politici sia della maggioranza che dell’opposizione.
Il motivo principale è la
considerazione che, di fatto, la stepchild adoption appare come un ‘cavallo di Troia’
per far entrare dalla finestra quello che non può entrare dalla porta: il così
detto utero in affitto. In Italia
l’utero in affitto è vietato dalla Legge 40, ma non lo è in altri Paesi. Com’è
accaduto più di una volta in Italia, sono stati proprio i giudici a non punire
chi è tornato dall’estero con il bimbo in braccio, frutto di un utero in
affitto. Timori fuori luogo, dicono i sostenitori, in quanto non c’è nessuna
correlazione tra la particolare forma di adozione contenuta nella nuova legge e
l’utero in affitto. Apparenza, si potrebbe dire, in quanto i dubbi restano, eccome!
Leggendo con attenzione
l’art. 44 della legge sulle adozioni, modificato dal DDL Cirinnà, qualche
dubbio più che fondato, infatti, viene a galla. La nuova legge, nel prevedere che il
partner di una coppia omosessuale possa adottare il figlio dell’altro, percorre tre possibili sentieri: o uno dei partner ha un figlio
avuto da una precedente relazione, oppure in precedenza aveva adottato un
bambino; terza ipotesi: uno dei partner ha avuto un figlio in altri modi:
tramite la donazione di gameti maschili (se coppie formate da due donne)
ovvero, tramite la maternità surrogata (coppie formate da due uomini), ovvero
con il così detto “utero in affitto”.
Sostenere che il DDL
Cirinnà non c’entri nulla con l’utero in affitto è vero e falso allo stesso
tempo. E’ vero, in quanto la norma non legalizza l’utero in affitto né lo
disciplina; è falso, perché comunque non lo esclude dall’ambito di applicazione
della norma (nel senso che non lo proibisce, magari stabilendo che la legge sulle adozioni, e in particolar
modo l’art. 44, non si applichi nel caso di figlio avuto con questi metodi). E non
pensiamo che quanto detto sia solo teoria, perché fatti recenti lo smentiscono
platealmente.
Recentemente la Corte d’Appello
di Milano ha assolto una coppia di coniugi ultrasessantenni di Varese dall’accusa
di falso, proprio in un caso di maternità surrogata. Quattro anni fa si erano
recati a Kiev in una delle cliniche specializzate nelle pratiche di
fecondazione assistita, dove, con i gameti dell’uomo e un utero in affitto
erano nati 2 gemelli. Registrati nella capitale ucraina i due gemelli, sono
stati portati in Italia e registrati nuovamente a Varese come loro figli. Le
successive indagini accertarono la violazione della Legge 40, in quanto la
donna dall’esame del DNA non risultava la madre biologica. Pertanto il Tribunale
di Varese nella sentenza di primo grado condannò la coppia per falso ad un anno
e sei mesi di carcere.
In appello, però, il
verdetto venne ribaltato: assoluzione piena. Secondo la Corte, che depositerà
per intero le sue motivazioni, anche di fronte a delle violazioni, a prevalere
è sempre l’interesse del minore. Anche la Corte di Strasburgo, di recente, ha
dichiarato che l’interesse prevalente deve essere quello dei minori. In questo
caso, una condanna dei genitori avrebbe penalizzato i 2 bambini, che all’età di
quattro anni sarebbero stati tolti a chi fino a quel momento li aveva
cresciuti. Il recente pronunciamento dei giudici milanesi non fa che dimostrare
che la Stepchild Adoption può costituire un grimaldello forte, capace di
scardinare i divieti previsti dalla Legge 40, aggirandola legalmente.
Cari amici, il problema
è certamente complesso e non facile da risolvere. Tuttavia, sappiamo tutti che a
certi risultati si arriva sempre per gradi. Io credo che la legge in discussione
vada approvata limitandosi a regolamentare le unioni civili, sia dal punto di
vista patrimoniale che sociale, mentre per le adozioni è l’intera legge che va
rivista, mettendo mano ad una riforma completa dell’attuale normativa,
eliminando quanto di obsoleto la legge in vigore contiene e integrandola. Io
non credo che questo sia chiedere troppo! Il problema, senza nascondersi dietro
il dito, è di vitale importanza: la pratica dell’utero in affitto è qualcosa di troppo
serie per essere ignorata! I dati parlano da soli: in Italia, secondo stime
attendibili, si verificano fino a 4mila casi all’anno. Non è cosa da poco…
Grazie,
amici, a domani.
Mario
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