Oristano
24 Febbraio 2016
Cari amici,
L’associazionismo,
quello che noi oggi chiamiamo terzo settore, ha le sue vere radici negli Stati
Uniti d’America. Figlio di quella “nuova società”, che si era evoluta in un
contesto multietnico e multirazziale, era frutto della straordinaria immigrazione
proveniente da tutte le parti del ‘vecchio mondo’, che in quel contesto creò
una società libera, senza gli orpelli di regnanti e nobili, che invece continuavano
a connotare l’Europa alla fine del ‘900. Fu però uno studioso europeo, Alexis
de Tocqueville, francese di nascita e pure nobile, ad analizzare la nascita e l’evoluzione
dell’Associazionismo, mettendo a confronto in modo preciso l’enorme differenza
che caratterizzava il contesto sociale del nuovo mondo se rapportato al vecchio.
Questo studio, divenuto
un libro-diario che al rientro di Tocqueville in Europa circolò con il titolo
di “La democrazia in America”, contribuì
sicuramente a far attecchire il seme del volontariato anche in Europa. Oggi il settore dell’associazionismo
No-Profit, definito Terzo settore, è sicuramente una colonna importante del welfare.
È definito terzo settore in quanto si differenzia dal Primo, lo Stato, che
eroga beni e servizi pubblici, e dal Secondo, il mercato o settore profit, che
produce beni privati, andando a completare e sostenere quei campi “scoperti” che
sfuggono sia al primo che al secondo, venendo incontro ai bisogni personali ed
alle esigenze delle categorie deboli, impossibilitate ad accedere agli
strumenti del mercato, e neppure usufruire della mano pubblica.
Questa mia riflessione,
amici, non vuole certo affrontare con Voi oggi la storia e l’evoluzione delle
strutture socio-assistenziali e di volontariato in genere, ma analizzarne solo alcune
problematiche, comuni alla gran parte delle Associazioni, e riferite sia alla loro
struttura organizzativa che al loro funzionamento. Lo faccio da ‘appartenente’
ad alcune associazioni, e quindi dopo essermi reso conto di persona delle
ragioni e dei motivi che sono alla base di determinate regole della loro vita
sociale. Il problema, certamente il più importante per la conduzione di una
associazione, è la sua rappresentanza, ovvero la struttura di gestione e
comando, che deve far in modo che essa duri e si perpetui nel tempo.
Partendo dal
presupposto che la gran parte degli appartenenti alle associazioni è costituita
da persone entrate a farne parte volontariamente, e che conseguentemente non ci
sono né traguardi personali da raggiungere, carriere o retribuzioni, vediamo come
viene strutturato – in linea di massima – l’organigramma che deve governarle.
Se gli appartenenti al gruppo sono tutti uguali, allora l’unica ipotesi gestionale
possibile e la rotazione negli incarichi. Ci sarà chi, per un determinato periodo
farà il Presidente, chi il Vice, chi il Segretario, il Tesoriere e così via. La
durata dell’incarico può essere varia, da un anno a più anni, ma certamente con
il fondamento basilare della regolare rotazione.
Una delle associazioni
a cui appartengo da lunga data (sono socio di un club del Rotary International)
prevede la rotazione Annuale negli incarichi. L’elezione, pur prevedendo un
eventuale rinnovo, è fatta per un anno e, alla scadenza, il socio torna nel
gruppo riprendendo a svolgere il compito di rotariano, come al momento dell’ingresso
nel club. L’altra associazione a cui appartengo (è l’Ordine Equestre del S. S.
di Gerusalemme) prevede incarichi di durata quadriennale, rinnovabili una sola
volta, dopo di che si ritorna in campo con la stessa voglia e con lo stesso
entusiasmo di prima.
Io non so a quanti,
questo sistema di parità ed uguaglianza, possa calzare a pennello: io lo
condivido e sottoscrivo senza se e senza
ma, perché ritengo che sia la formula più giusta possibile. Cerco di
chiarire i motivi di questo mia convincimento. Per farlo parto da un concetto
che, esulando dalla logica profit, entra proprio nel suo contrario: il
no-profit. No-profit che, nella mia visione di servizio, significa proprio operare senza
trarne benefici o vantaggi personali; quindi, il fatto che il gruppo mi abbia
scelto per fare temporaneamente il Segretario, il tesoriere o il Presidente,
significa che mi ha considerato capace di farlo (e per me questo dovrebbe
costituire un grande motivo di orgoglio), ma anche che – alla scadenza del
mandato – devo rientrare nei ranghi e riprendere, come prima e più di prima, il
mio ruolo di servizio per cui sono entrato a farne parte.
Cari amici, chi entra
nel Rotary sa che il suo motto operativo è “Servire
al di sopra dell’interesse personale”, che dice, in modo chiaro, che chi
entra a farne parte deve farlo non per avere vantaggi o servigi, ma per dare,
per offrire la sua competenza e la sua professionalità agli altri, senza nulla
chiedere in cambio. Faccio parte di questa associazione dagli anni novanta del
secolo scorso. In questo non breve periodo, nel mio club di appartenenza
(Oristano) ho svolto praticamente tutte le mansioni: tesoriere, segretario,
Presidente (3 volte), Vice Presidente, Prefetto cerimoniere, consigliere. Nella
struttura superiore (il Distretto) sono stato cooptato come componente di
Commissioni, come Presidente delle stesse, come Assistente del Governatore (6
volte), come componente del Comitato di redazione del periodico dell’associazione.
Credetemi, al termine
di ogni incarico, non ho mai avuto problemi a riprendere a fare il socio del
club. Pensate che questa mia logica sia difficile da accettare? Non è
difficile, basta pensare sempre che siamo tutti utili ma nessuno è
indispensabile, e che, se siamo coerenti, accettando di far parte di una libera
associazione di servizio, dovremmo entrare per servire, non per servircene.
Grazie, amici, a
domani.
Mario
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