Oristano 7 Febbraio 2016
Cari amici,
l’altra mattina,
passando nella redazione del giornale con cui collaboro, ho fatto due
chiacchiere con il Vice Direttore. Non essendoci niente di particolare di cui
parlare, ad un certo punto mi dice: “hai visto che nell’ultimo ‘pezzo’ ho tagliuzzato
qualche ridondanza, che mi sembrava esagerata, spero non ti dispiaccia”. Gli ho
subito risposto di no, anzi gli ho confermato che apprezzavo sempre i suoi
consigli in quanto, arrivato ad occuparmi della comunicazione abbastanza tardi
(dopo aver speso la mia vita a fare altro), ne avevo sicuramente necessità.
Credetemi, davvero non
me la sono presa: il mio rapporto con Lui è franco e mai formale, mai di facciata, però quel
pesante vocabolo ridondanza, anche
dopo che ci siamo lasciati continuava a martellarmi in testa. Rientrando a casa
pensai subito che certe cose vanno affrontate di petto, metabolizzate: andavo maturando in effetti la
decisione di scrivere un ‘pezzo’ proprio sull’argomento. E così è stato, con la
speranza che anche per Voi che mi leggete, l’argomento possa essere di Vostro
interesse.
Inizio la riflessione
partendo proprio dal significato di ridondanza. Rileggendo il termine nell’Enciclopedia
Treccani, per ridondanza troviamo: “Nella teoria
della comunicazione, eccesso in un messaggio di elementi significativi e di
informazioni rispetto allo stretto necessario per la corretta comprensione e la
ricezione del messaggio stesso; si ricorre alla ridondanza nelle
telecomunicazioni, per aumentare la probabilità di un’esatta ricostruzione del
messaggio anche in presenza di disturbi o rumori”, mentre “in linguistica, il termine è inteso come mancanza di contenuto
informativo specifico in uno o più elementi di un testo orale o scritto, per
cui quegli elementi risultano superflui (o ridondanti). Nella critica
letteraria, presenza, in un testo, di elementi stilisticamente ricercati che
risultano esclusivamente formali ed esornativi”.
Stante questi concetti
possiamo affermare che se nel linguaggio corrente, parlato, una certa ridondanza
può essere accettabile, spesso anche necessaria per ribadire il concetto
espresso a voce, nel linguaggio scritto, invece, la ridondanza spesso appare pretenziosa e formale, non necessaria, capace solo di ‘ornare’, senza nulla
aggiungere al significato. Devo dirvi, in tutta sincerità (per quanto ciascuno
di noi eviti fin che è possibile di colpevolizzarsi) che il ‘pizzico’ del Vicedirettore in effetti
un po’ mi aveva toccato, in quanto, non lo nascondo, spesso amo nelle mie
descrizioni di fatti o avvenimenti, usare molti più aggettivi e ripetizioni di
quanto normalmente necessario.
Cari amici, credo che
arrivato alla mia non più verde età, sia riuscito a conoscermi abbastanza bene,
per cui sono ben conscio dei miei difetti. A dirla tutta, è vero, amo essere ‘abbondante’
nelle descrizioni per almeno due ragioni: una è quella che da sempre vivo gli
avvenimenti con grande intensità emotiva e quindi cerco di trasmettere (a modo
mio) questa sensazione agli altri, e per farlo oso abbondare, sia parlando che
scrivendo, diventando quindi ridondante; la seconda è che sono da sempre dotato
di una memoria che io definisco ‘fotografica’. Mi spiego meglio. Quando,
scrivendo i miei libri, nel riportare diversi avvenimenti del mio passato
relativi anche a molti anni fa, la mia mente rivive
i fatti raccontati come se fossero stati messi a fuoco in quel momento da una
macchina da presa ad alta risoluzione: nella mia mente quei fatti hanno i
colori, gli odori e i sapori originali; è un ripercorrere oggi quei sentieri del
passato, con la stessa intensità di allora, come in un film in technicolor.
Ecco allora da cosa
scaturisce la mia voglia di ridondanza: un modo per cercare di far partecipi
anche gli altri di questo mio sentire e, per farlo, ecco l’utilizzo di numerosi
aggettivi, di ripetizioni, di rafforzativi, tutti messi lì, uno dietro l’altro,
con l’unico scopo di illuminare, di rendere edotto, di "portare" il lettore su quel fatto,
anche emotivamente. Certo, per alcuni questa mia ridondanza è solo retorica. Non è la prima volta che qualcuno, dopo aver letto un mio libro, mi
dice: Mamma mia, quanto sei retorico, non comprendendo, però, il
vero motivo per cui io ho preferito abbondare!
Insomma, cari amici, essere (spero nel modo corretto) retorici
o ridondanti, anche se ci fa prestare il fianco a qualche critica, non credo possa essere considerato negativo; la retorica (quella vera), cioè l'arte che studia le
proprietà del discorso, di negativo ha ben poco. Secondo la tradizione la
retorica ‘studia il discorso’, in particolare i temi e gli argomenti
(inventio), la disposizione delle parti (dispositio) e la scelta e la disposizione
delle parole (elocutio). In parole povere, per retorica vengono intesi tutti
quegli artifici che ci consentono di esprimerci meglio, soprattutto ci
consentono di far capire, nel modo più intenso, ciò che abbiamo voluto
esprimere con le nostre parole.
Per chiudere questa mia riflessione (spero che
da Voi non venga ritenuta ridondante…) voglio ribadire ancora che
parlare e scrivere non sono la stessa cosa, in quanto seguono percorsi
linguistici differenti. Ripetere, rimarcare in un discorso orale il concetto
espresso, è ritenuto quasi normale (forse per questo motivo è stato coniato il
detto Verba volant, scripta manent), mentre quanto scritto può essere
compreso meglio dal lettore rileggendo, anche più volte il testo. Ciononostante
resto convinto, come ho spiegato prima, che anche nello scrivere la ripetizione
di un concetto può essere d’aiuto al lettore. Si, perché scrivere con passione significa voler trasmettere con forza, con la massima intensità, questo suo sentire a chi legge, anche col rischio di essere...ridondante!
Grazie, amici, a domani.
Mario
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