Oristano
24 Aprile 2014
Cari amici,
è senz’altro noto a
gran parte di Voi che nella Sardegna del passato gli anziani, ormai colpiti da
mali incurabili, venivano “dolcemente” accompagnati alla morte da una figura
femminile particolare che prendeva il nome di “Accabadora”.
Rito tristissimo ma necessario, ignorato sotto certi
aspetti anche dalla Chiesa, e che in tempi moderni è stato reso noto al grande
pubblico dal libro di Michela Murgia, “Accabadora”, romanzo vincitore del
Premio Campiello 2010. «Acabar», in spagnolo, significa porre
termine e nella lingua sarda, che tanto ha preso da quella spagnola, «Accabadora»
è colei che pone fine ad una vita umana ormai segnata, utilizzando un
particolare martello di legno duro, noto come “Su Mazzolu”. Agli occhi della Comunità
il suo non è il gesto assassino, ma un amorevole e pietoso aiuto per porre fine
a indicibili sofferenze. Gesto messo in atto da chi, superando remore che pochi
avevano il coraggio di valicare, aiutava il destino già segnato di una persona a
compiersi. Figura temuta, quella dell’Accabadora, che incuteva tristezza e
repulsione, ma anche ritenuta necessaria, per compiere quell’estremo sacrificio: era Lei l’unica
deputata a farlo, e che in quell’ultimo abbraccio mortale per il moribondo, ne
diventava l'ultima madre.
Questa mia riflessione
di oggi non è dedicata, però, a questa enigmatica figura ed alla sua terribile
arma, su “Mazzolu”; personaggio femminile e strumento di morte, entrambi ormai talmente
noti, che non hanno bisogno di ulteriori commenti da parte mia. Il mio pensiero
oggi è rivolto agli altri riti collaterali, misteriosi anch’essi, che facevano
da contorno alla pratica dell’eutanasia di quei tempi, come ad esempio il rito
de Su Juale. Per poter comprendere
meglio non solo il rito ma le motivazioni che lo hanno ispirato, ritengo di dover fare
una doverosa premessa.
Nella civiltà contadina
dei secoli scorsi agli strumenti agricoli necessari ed utili per
lavorare i terreni era attribuita un’importanza notevole, addirittura quasi una
sacralità. Questi strumenti, capaci di ricavare dalla terra i prodotti
alimentari indispensabili, erano così amati e ritenuti dalla Comunità cosi preziosi, che
incutevano rispetto, e rubarli o distruggerli era considerato un sacrilegio.
La
violazione di questa regola comunitaria costituiva un fatto di una gravità
inaudita: chiunque si fosse appropriato degli strumenti da lavoro, aratri,
carri, picconi, vanghe o in particolare dei legni del giogo dei buoi (allora l’unica
forza lavoro delle campagne) aveva violato un tabu che lo metteva all’indice
nella Comunità di appartenenza. Al giogo, in particolare, veniva attribuita una
speciale sacralità, come del resto all’aratro e al vomere, considerati strumenti
principe per la coltivazione di vaste zone arative, dalle quali ricavare i
prodotti necessari a sfamare la Comunità.
La vile azione
riprovevole, commessa con il furto degli strumenti di produzione, oltre che la
repulsa da parte della Comunità avrebbe attirato sul ladro anche l’ira di Dio,
che l’autore avrebbe pagato in punto di morte: la sua agonia, sul letto del trapasso sarebbe stata lunga e dolorosa, soffrendo, anche in questa vita terrena, le
pene dell’inferno. La stessa sorte sarebbe toccata anche a chi avesse sottratto
spazi produttivi ad altri, come modificare a suo favore i confini dei campi, o,
nei Santuari, si fosse appropriato della cera per le candele o dell’olio per i
lumini. Il giogo, comunque, rimaneva l’oggetto più venerato. Secondo una ricerca effettuata a Siniscola nel 1981 da alcune
studentesse, si era appurato che: "Su Juale “era considerato un oggetto così
sacro che se un uomo l’avesse gettato via o bruciato il legno che era
appartenuto a un giogo, al momento della morte avrebbe sofferto terribilmente
in una lunga e penosa agonia.
Ancora
oggi molte persone se si imbattono in un giogo buttato in campagna non lo
toccano, per paura di commettere sacrilegio. Da questa patente di sacralità
attribuita al giogo, ne era scaturita una pratica abbastanza diffusa: per procurarsi
una buona morte era necessario mettere sotto il capezzale del moribondo un
giogo, successivamente miniaturizzato che, per esprimere al meglio la sua
efficacia, doveva essere stato costruito in un momento e in un luogo
particolari, e precisamente in Chiesa, il giorno della Domenica delle Palme,
durante la lettura della Passione di Cristo.
La costruzione a scopo taumaturgico de su Juale, divenuto nel tempo sempre più piccolo e più
maneggevole, aveva un preciso rituale; durante la Domenica delle Palme oppure
il Giovedì Santo, si era soliti andare in chiesa portandosi dietro un rametto
d’olivo, e mentre si commemorava la passione di Cristo, ovvero durante il suo
trapasso dalla vita alla morte, si iniziavano a intagliare in tutta fretta tre
tipi di Juale, in relazione all'uso: Jualeddos (piccoli gioghi per aiutare il
trapasso), Coreddos (piccoli cuoricini) e Ughitta (minuscole croci). Gli ultimi
due manufatti venivano spesso portati nelle vigne o negli orti per proteggere
le piante dal malocchio, ma anche donati alle mogli e alle fidanzate perché
producessero sano e abbondante latte.
Quando sul letto di
morte l’agonia del malato si prolungava per giorni, l’unico rimedio per coloro
che “non riuscivano a morire” era quello di mettergli sotto il capo su Juale. L’agonia
prolungata di un moribondo veniva quasi sempre attribuita alle cattive azioni
che aveva commesso durante la sua vita; era questo suo comportamento che
impediva all’anima di lasciare il corpo e il rimedio consisteva
nell’indirizzargli un segno di croce e fargli baciare il giogo che veniva in
seguito posto sotto la sua testa. Su Juale o Juvale
veniva anche usato per facilitare il parto oppure per proteggere il bambino
dalle Surbule («Sa surbule» è un'anima dannata, temuta dalle mamme perché
accusata di rubare i bambini per succhiare loro il sangue), ma il suo fine principale
era sempre quello di agevolare il trapasso. Questa sua doppia valenza
rispecchiava in fondo il significato stesso del giogo, significato legato ai campi che davano all'uomo la vita, il sostentamento, ma che era anche sinonimo di
morte: tutto nasce dalla terra e alla terra ritorna, in un ciclo continuo che
non è possibile sovvertire ma solo assecondare.
La riproduzione del
giogo, seppure in miniatura, simboleggiava proprio la fine della vita. Staccato dai
buoi (la forza che trainava l’aratro e il carro), rappresentava il corpo
dell’ammalato, privo di vigore e incapace ormai di assolvere al suo compito.
Il
rituale, che potremo dire di riconciliazione, pare si svolgesse in questo modo:
al malato veniva passato il giogo lentamente sulle gambe, sul ventre e sul petto,
si recitavano le formule che dovevano alleviare la sua coscienza dal fardello
pesante dei peccati commessi, che impedivano alla sua anima di lasciare questo
mondo e di morire in pace. Alla fine del rito gli veniva sollevato il capo e il
giogo gli veniva passato dietro alla nuca da due assistenti che lo reggevano
agli estremi. Pare che al termine, finalmente rappacificato, il malato non
tardasse a esalare l’ultimo respiro.
Cari amici, la cultura
del Popolo Sardo è ricca di usi, costumi e tradizioni che affondano le radici
nei secoli e nei millenni. La riflessione di oggi, riferita all’antica civiltà
contadina aveva, allora, certamente la sua ragion d’essere, in un mondo che viveva un’economia di pura sopravvivenza, dove le necessità alimentari non consentivano ai vecchi improduttivi di pesare oltre misura sugli altri. Bisogno, che non poteva concedere tempi
lunghi neanche alla morte.
Grazie, cari amici,
della Vostra sempre gradita attenzione.
Mario
3 commenti:
la sardegna era ricca.. il discorso dell'economia di sostentamento è fasullo...
Ce Sardegna e Sarde gna...
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