Oristano
3 Aprile 2014
Cari amici,
per raccontare la
storia della fotografia, forse, non basterebbe un’enciclopedia! Eppure l’idea
di riportare, almeno per sommi capi, la lunga storia della “cattura delle immagini" mi balenava in testa da un po’, ma la
complessità e la difficoltà di sintetizzare una materia così complicata, frenava
tutta la mia voglia di raccontare. Tuttavia, cercando di essere chiaro, anche
se necessariamente sintetico, oggi ho cercato di farlo, prevedendo di trattare l’argomento in
diverse puntate (penso 3 o 4), ovviamente intervallate da altri argomenti, per
evitare noia in chi legge. Oggi, nella prima parte, cominciamo proprio dall’inizio, dalla nascita dell'idea.
Fu il filosofo greco Aristotele
(Stagira 384 a.C. – Calcide, 322 a.C.) a rendersi conto, osservando la luce che
passava attraverso un piccolo foro, che questa proiettava un'immagine
circolare. Curiose osservazioni di giochi di luce, che al momento non svilupparono le possibili
applicazioni. Successivamente lo studioso arabo Alhazen Ibn Al-Haitham, intorno
al 1039, partendo dalle stesse osservazioni di Aristotele, iniziò a cercare
applicazioni al fenomeno, definendo la scatola nella quale tutte le immagini si
riproducevano con il termine "camera obscura". E’ ancora presto, però, per
arrivare alle prime possibili applicazioni pratiche. Nel 1515 Leonardo da Vinci,
studiando la riflessione della luce sulle superfici sferiche, descrisse una
camera oscura che chiamò "Oculus Artificialis" (occhio artificiale). Questo
rudimentale apparecchio fu usato per studiare l'eclissi solare del 24 gennaio
1544, e fu commentato ed illustrato dallo scienziato olandese Rainer Geinma
Frisius. Ci si avvicinava alla prima soluzione pratica. Gerolamo Cardano, nel
1550, fu il primo ad utilizzare una lente convessa per aumentare la luminosità
dell'immagine, mentre il veneziano Daniele Barbaro, nel 1568, utilizzò una
sorta di diaframma di diametro inferiore a quello della lente per ridurre le
aberrazioni.
Catturare in modo
permanente l’immagine luminosa proiettata, però, richiedeva il reperimento di
materiali fotosensibili, che, anche se conosciuti fin dal Medioevo, non furono mai
studiati a fondo. Solo nel 1727 lo scienziato tedesco Johann Heinrich Schulze,
durante alcuni esperimenti con carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico
e argento, si rese conto che il composto risultante, fondamentalmente nitrato
d'argento, reagiva alla luce. Per controllare la reazione riempì con il
composto una bottiglia di vetro che, dopo l'esposizione alla luce, si scurì
solo nel lato illuminato. La miscela scoperta da Schulze venne chiamata “scotophorus”,
portatrice di tenebre. In effetti la reazione ottenuta era la stessa che
successivamente sarebbe stata adottata per la maggior parte delle pellicole e
carte in bianco e nero, diffuse fino alla prima metà del Novecento e basate
sugli alogenuri argentici. Gli studi di Schulze, una volta pubblicati, crearono
grande fermento e curiosità nell'ambiente della ricerca scientifica.
Museo Wedgwood
Nei primi anni
dell'Ottocento l'inglese Thomas Wedgwood, ceramista inglese di quel tempo,
sperimentò l'utilizzo del nitrato d'argento, prima rivestendone l'interno di
recipienti ceramici, poi immergendovi dei fogli di carta o di cuoio esposti poi
alla luce dopo avervi deposto sopra degli oggetti. Osservandone la reazione all’esposizione
si accorse che dove la luce colpiva il foglio, la sostanza si anneriva, mentre
rimaneva chiara nelle zone coperte dagli oggetti. Queste immagini, però, non si
stabilizzavano e perdevano rapidamente contrasto se mantenute alla luce
naturale, mentre riposte all'oscuro potevano essere viste alla luce di una
lampada (a olio) o di una candela. Wedgwood, a causa della salute cagionevole,
però, non poté proseguire negli studi che nel 1802 furono proseguiti dall'amico
Sir Humphry Davy. Questi li descrisse sul "Journal of the Royal
Institution of Great Britain", annotando però che non era stato compreso
il meccanismo per interrompere il processo di sensibilizzazione. La
corrispondenza che scambiò con James Watt, tuttavia, fa ritenere che in quegli
anni avvenne la prima impressione di un'immagine chimica su carta.
Joseph Nicéphore Niépce,
nato in Francia nel 1765, brillante inventore, già autore di un prototipo di
motore a combustione interna, cominciò a interessarsi, intorno al 1816, ai
fenomeni della luce e della camera oscura, progetto che già nel 1797, durante
un soggiorno a Cagliari lo aveva impegnato almeno in una fase teorica. Trovando
interesse nelle allora recenti scoperte della litografia, cerco di approfondire
gli studi, alla ricerca di una sostanza che potesse impressionarsi alla luce in
maniera esatta, mantenendo il risultato nel tempo. Il 5 maggio 1816, Joseph
Niépce scrisse al fratello Claude del suo ultimo esperimento, un foglio bagnato
di cloruro d'argento ed esposto all'interno di una piccola camera oscura.
L'immagine risultante appariva, però, invertita, con gli oggetti bianchi su fondo
nero. Questo negativo non soddisfece Niépce, che proseguì la ricerca di un
procedimento per ottenere direttamente il positivo.
Scoprì che il bitume di
Giudea era sensibile alla luce e lo utilizzò nel 1822 per produrre delle copie
di una incisione del cardinale di Reims, Georges I d'Amboise. Il bitume di
Giudea è un tipo di asfalto normalmente solubile all'olio di lavanda, che una volta
esposto alla luce indurisce. Niépce cosparse una lastra di peltro con questa
sostanza e vi sovrappose l'incisione del cardinale. Dove la luce riuscì a
raggiungere la lastra di peltro attraverso le zone chiare dell'incisione,
sensibilizzò il bitume, che indurendosi non poté essere eliminato dal
successivo lavaggio con olio di lavanda. La superficie rimasta scoperta venne
scavata con dell'acquaforte e la lastra finale poté essere utilizzata per la
stampa.
Nel 1827, durante il
viaggio verso Londra per trovare il fratello Claude, Niépce si fermò a Parigi e
incontrò Louis Jacques Mandé Daguerre: quest'ultimo era già stato informato del
lavoro di Niépce dall'ottico Charles Chevalier, fornitore per entrambi di lenti
per la camera oscura. Daguerre era un pittore parigino di discreto successo,
conosciuto principalmente per aver realizzato il diorama, un teatro che
presentava grandi quadri e giochi di luce, per le cui proiezioni Daguerre
utilizzava la camera oscura per assicurarsi una prospettiva corretta. A Parigi
Niépce concluse nel dicembre 1829 con Daguerre, un contratto valido dieci anni
per continuare, insieme le ricerche. Dopo quattro anni, nel 1833, Niépce morì
senza aver potuto pubblicare il suo procedimento. Il figlio Isidore prese il
posto nell'associazione con Daguerre, ma non fu in grado di fornire alcun
contributo, tanto che Daguerre modificò il contratto e impose il suo nome all'invenzione
(nota come dagherrotipo), anche se
mantenne il contributo di Joseph Niépce. Isidore firmò la modifica pur
ritenendola ingiusta. Il nuovo procedimento era molto diverso rispetto a quello
originario preparato da Joseph Niépce, quindi si può ritenere in parte corretta
la rivendicazione da parte di Daguerre.
Nel 1837 la tecnica
raggiunta da Daguerre fu sufficientemente matura da produrre una natura morta
di grande pregio. Daguerre utilizzò una lastra di rame con applicata una
sottile foglia di argento lucidato, che posta sopra a vapori di iodio reagiva
formando ioduro d'argento. Seguì l'esposizione alla camera oscura dove la luce
rendeva lo ioduro d'argento nuovamente argento in un modo proporzionale alla
luce ricevuta. L'immagine non risultava visibile fino all'esposizione ai vapori
di mercurio. Un bagno in una forte soluzione di sale comune fissava, seppure
non stabilmente, l'immagine. In cerca di fondi, Daguerre fu contattato da
François Arago, che propose l'acquisto del procedimento da parte dello Stato.
Il 6 gennaio 1839 la scoperta di una tecnica per dipingere con la luce fu resa
nota con toni entusiastici sul quotidiano Gazette de France e il 19 gennaio nel
Literary Gazette.
Il procedimento venne
reso pubblico il 19 agosto 1839, quando, in una riunione dell'Accademia delle
Scienze e dell'Accademia delle Belle arti, venne presentato nei particolari
tecnici all'assemblea e alla folla radunatesi all'esterno. Arago descrisse la
storia e la tecnica legata al dagherrotipo, inoltre presentò una relazione del
pittore Paul Delaroche, in cui furono esaltati i minuziosi dettagli
dell'immagine e dove si affermò che gli artisti e gli incisori non erano
minacciati dalla fotografia, anzi potevano utilizzare il nuovo mezzo per lo
studio e l'analisi delle vedute. La relazione terminò con il seguente appunto
di Delaroche: « Per concludere, la mirabile scoperta di monsieur Daguerre ha
reso un servizio immenso alle arti. ».
Cari amici, in questa
prima parte, abbiamo visto il lento evolvere dell’idea straordinaria di
utilizzare la luce per catturare e fissare le immagini: dai primi tentativi
alle prime realizzazioni. Lo straordinario potere della luce era capace non
solo di proiettare un’immagine ma anche di fissarla e riprodurla stabilmente!
A preso, amici, con la
seconda puntata!
Mario
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