Oristano 14 dicembre 2023
Cari amici,
La storia della plastica,
peste del Terzo Millennio, comincia nell’XIX° secolo, quando, tra il 1861 e il
1862, l’Inglese Alexander Parkes, sviluppando gli studi sul nitrato di
cellulosa, isola e brevetta il primo materiale plastico semisintetico, che
battezza Parkesine (più nota poi come Xylonite). Si tratta di un primo tipo di
celluloide, utilizzato per la produzione di manici e scatole, ma anche di
manufatti flessibili come i polsini e i colletti delle camicie. Ma il secolo vero
della plastica è il ‘900. Nel 1907, infatti, il chimico belga Leo Baekeland ottiene per
condensazione tra fenolo e formaldeide la prima resina termoindurente di
origine sintetica, che brevetterà nel 1910 con il nome dei Bakelite.
Gino Bramieri e MOPLEN |
Ma questo è solo l’inizio.
Gli anni ’60 del secolo scorso vedono il definitivo affermarsi della plastica
come insostituibile strumento della vita quotidiana e come “nuova frontiera”
anche nel campo della moda, del design e dell’arte. Il “nuovo” materiale
irrompe nel quotidiano e nell’immaginario di milioni di persone, nelle cucine come nei salotti, permettendo a masse sempre più vaste di accedere a consumi prima
riservati a pochi privilegiati, semplificando un’infinità di gesti quotidiani,
colorando le case, rivoluzionando abitudini consolidate da secoli e contribuendo
a creare quello che gioiosamente fu definito lo “stile di vita moderno”.
Stile di vita moderno che,
però, sta pagando un prezzo altissimo, con un inquinamento del pianeta senza
fine, visti i lunghissimi tempi necessari (centinaia di anni) per il degrado e
la decomposizione della plastica. Come ben sappiamo, il mare è oggi così
inquinato che nelle acque a nord dell'Oceano Pacifico, c'è un'enorme isola, la
Great Pacific Garbage Patch, composta da 3 milioni di tonnellate di rifiuti
galleggianti. La sua grandezza è impressionante: ha un'estensione di circa 10
milioni di km², pari alla superficie dell'intero Canada. E non è l’unica: sono
sette le isole di spazzatura sparse in tutto il mondo e ce n'è una anche in
Italia, tra l'Isola d'Elba e la Corsica che sta mettendo in pericolo il Mediterraneo.
Ebbene, amici, la posta
in gioco per liberarci della plastica è davvero importante: alquanto urgente, oltre che inquietante. Il
mondo produce rifiuti di plastica per 400 milioni di tonnellate l’anno, che si fa
fatica a “smaltire correttamente”, come si dovrebbe, questo immenso e inquinante
prodotto. E così, nonostante gli sforzi, almeno 10 milioni di tonnellate
finiscono negli oceani creando quegli agglomerati galleggianti prima riportati,
che intralciano anche la navigazione e rappresentano solo l’aspetto più
visibile ed eclatante degli innumerevoli problemi creati da quello che è il
principale fattore di inquinamento dei grandi mari; uno dei seri problemi, per
esempio, sono le microplastiche (quelle di dimensioni inferiori ai 5 millimetri)
che combinano ulteriori, serissimi guai.
Queste minuscole
particelle di cui ormai il mare è pieno, attraggono e assorbono le altre
innumerevoli sostanze inquinanti disperse negli oceani, come pesticidi,
fertilizzanti, scarichi industriali, detersivi e cosmetici. Insomma, le
microplastiche sono un aggregante di altri inquinanti, che poi finiscono nella
catena alimentare: pesci, mammiferi, uccelli, uomo. Stra-noti gli effetti
nefasti sull’alimentazione, sul metabolismo generale, sui cicli ormonali e via
dicendo.
Fortunatamente gli studi
per liberarci di questa peste continuano senza sosta e di recente un team di
ricercatori dell’ENEA, l’Ente pubblico di ricerca italiano che opera nei
settori dell'energia, dell'ambiente e delle nuove tecnologie, ha messo a punto
un processo che consente di riconvertire oltre il 90% della plastica recuperata
in mare e sulle spiagge in nuovo “petrolio” da utilizzare come combustibile o
per produrre nuove plastiche, vernici, solventi e innumerevoli composti organici.
Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto europeo interregionale
Italia-Croazia “NETWAP” sulla riduzione e la gestione innovativa dei rifiuti.
Il progetto, i cui
risultati sono stati pubblicati su ACS Sustainable Chemistry & Engineering,
la rivista scientifica online dell’American Chemical Society, utilizza la “pirolisi
catalitica”, un processo che consente di decomporre i rifiuti scaldandoli a
oltre 400 gradi in assenza di ossigeno. La pirolisi catalitica può essere
considerata “una delle opzioni più valide per il trattamento della plastica
marina perché è in grado di gestire grandi quantità di rifiuti altamente
eterogenei e non pretrattati”, come sottolinea Riccardo Tuffi, il
ricercatore dell’ENEA artefice della ricerca insieme ai colleghi Lorenzo
Cafiero e Doina De Angelis.
Il campione di plastica
preso in esame dal Team per sperimentare il processo pirolitico è stato
felicemente riconvertito in idrocarburi di grande valore economico: circa l’87%
in olio leggero e l’8% in gas; inoltre i gas prodotti durante il trattamento
termo-chimico si sono dimostrati più che sufficienti a sostenere il fabbisogno
energetico del processo (450 °C). Un riciclo che, tra l’altro, non prevede grandi
impianti, considerato che, come afferma sempre Riccardo Tuffi, “Piccoli
impianti di pirolisi installati nei porti potrebbero addirittura produrre
carburante per le imbarcazioni a partire proprio dalla plastica recuperata in
mare”. Insomma, un riciclo, addirittura a chilometro zero.
Cari amici, è tempo,
ormai, di trovare una soluzione definitiva all’inquinamento prodotto dalla
plastica. La Direttiva europea sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio ha
fissato obiettivi di riciclaggio della plastica al 50% entro il 2025 e al 55%
entro il 2030. Inoltre, è stato emanato il piano d’azione sull’economia
circolare per incoraggiare il riciclo, con una forte attenzione ai rifiuti di
plastica, e per prevenire e ridurre l’impatto sull’ambiente dei prodotti di
plastica monouso. Una soluzione, quindi, quella proposta dall’ENEA, che appare
quanto mai importante!
A domani.
Mario
Nessun commento:
Posta un commento