venerdì, dicembre 25, 2020

RICORDI DI UN NATALE DEL PASSATO, VISSUTO NEGLI ANNI TRISTI DEL DOPOGUERRA. CREDO FACCIA MEDITARE OGGI PIÙ DI IERI…


Oristano 25 dicembre 2020

Cari amici,

Oggi 25 dicembre 2020 è il giorno di NATALE. Un giorno, però, molto diverso da quello degli anni scorsi, vissuto nel chiuso delle nostre case, senza amici, senza gioia e con una forte preoccupazione per il domani. Viviamo tempi difficili, forse più preoccupanti anche di quelli da me vissuti da ragazzo nel primo dopoguerra, quando le famiglie mancavano di tutto ma almeno coltivavano la speranza, quella che aiutava a rimboccarsi le maniche per cercare di risalire la china, così come poi è stato. Ecco, è proprio la SPERANZA quella che non ci deve mancare: dobbiamo combattere per vincere quel nemico insidioso che ci ha assalito, e per farlo dobbiamo rispettare le regole imposte, senza se e senza ma. Ma dobbiamo farlo resilienti, carichi di speranza, per cercare di dare ai nostri figli un domani migliore.

Ecco, per Voi oggi, cari amici lettori, un brano del mio libro “MARIEDDU”, che Vi prego di leggere, perché potrebbe aiutare a farvi riflettere. Grazie amici. Buona lettura, con i miei migliori AUGURI di BUON NATALE!

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Mariedda, la venditrice di mirto: miseria e dignità.

Chissà perché quella che mi è rimasta più impressa nella mente è la sacchetta di tela che portava sempre con sé legata in vita e che si apriva e chiudeva facendo scorrere un cordino! Era di tela grossa e la ricordo rigonfia, piena di grosse bacche di mirto profumato che Lei offriva a noi ragazzi con un sorriso, riempiendo una piccola tazza di ferro smalto che teneva in mezzo al mirto. Fosse vissuta al giorno d’oggi zia Mariedda avrebbe avuto meno problemi a sbarcare il lunario. Negli anni ’50, invece, quelli della lenta “ricostruzione”, che doveva spazzare via le macerie della guerra, soprattutto per le vedove senza reddito, la vita non era facile.

In quegli anni io ero poco più di un bambino, ma ricordo bene fatti e figure, considerato che ho una buona memoria fotografica. Lei era una donna di piccola statura, sempre vestita di nero, con una serie di gonne indossate una sopra l’altra, ognuna delle quali copriva le parti usurate, mancanti, della gonna sottostante. Uno scialle scuro, che aveva conosciuto tempi migliori, le avvolgeva le spalle, o veniva, in caso di brutto tempo, indossato sopra il fazzoletto nero che le copriva perennemente la testa. Ricordo bene la sua figura esile, un po’ curva, sempre scalza, estate e inverno, con le piante dei piedi ricoperte, ormai, da una suola naturale che sostituiva egregiamente, ed a costo zero, le scarpe che non si era mai potuta comprare.

Zia Mariedda non era di Bauladu, credo che fosse originaria di uno dei paesi vicini e che avesse perso il marito in guerra. In quegli anni le pensioni stentavano a decollare, perché soddisfare le esigenze delle famiglie dei tanti caduti in guerra non era facile con le magre risorse dello Stato che una guerra assurda e persa aveva messo in ginocchio. I sopravvissuti alla guerra, però, dovevano campare e le famiglie dei caduti, soprattutto, dovevano ingegnarsi tutti i giorni per mettere insieme il pranzo con la cena. Chiedere aiuto non è mai stato facile per nessuno: chiedere l’elemosina, mendicare, è addirittura per molti un comportamento impossibile da praticare.

Zia Mariedda, pur vivendo in grande povertà, non avrebbe mai potuto farlo: non aveva mai abdicato alla sua dignità e mai avrebbe mendicato, chiesto l’elemosina. Nella sua concezione economica del dare e dell’avere Lei poteva concepire il “baratto”, non il dono senza scambio. Lei avrebbe sempre ricambiato, avrebbe svolto qualsiasi mansione, qualsiasi lavoro, anche durissimo, anche in cambio di poco o nulla, ma chiedere la carità no, questo Lei non l’avrebbe mai fatto. Si alzava all’alba, tutti i giorni, estate e inverno, e si recava in campagna; qui cercava, a seconda delle stagioni, quei prodotti spontanei che potevano essere venduti, commercializzati: funghi prataioli, cardi, carciofini selvatici, cicoria, bietole, frutti selvatici come mirto, pere selvatiche e quant’altro.

Messa insieme la quantità ritenuta bastante per la giornata si incamminava verso uno dei paesi vicini, sempre a piedi, e iniziava le “visite di vendita” dei prodotti campestri raccolti che portava con sé nella capiente sacca fatta di tela grezza e che offriva alle famiglie di sua conoscenza. Le persone che andava a visitare le conosceva bene. Si affacciava alla porta chiamando per nome la padrona di casa e, ricevuto l’invito ad entrare, avanzava verso la cucina sempre con un sorriso dolce e triste allo stesso tempo. Era sempre ben accolta. Nonostante i tempi fossero duri per tutti e le difficoltà non mancassero, era difficile che le famiglie rifiutassero quello che Lei offriva.

Lei non dava un prezzo alla sua merce: la metteva sul tavolo da cucina e con un sorriso diceva: “ti ho portato questo, è fresco e genuino, prendilo”. Lo diceva in sardo e non indicava mai il prezzo, aggiungendo, sempre con un sorriso, “Giaimi su chi keris” (dammi in cambio quello che vuoi). Più che una proposta di vendita altro non era che uno scambio, un “baratto”: in cambio, spesso, riceveva una pezzo di pane, un pezzo di formaggio, un po’ d’olio o un pugno di cereali. La padrona di casa dove si presentava sapeva perfettamente che il prodotto offerto mascherava una richiesta di aiuto che, per dignità, non veniva espresso direttamente; tutti sapevano che Lei non sarebbe mai entrata in una casa a chiedere semplicemente l’elemosina, voleva orgogliosamente dare, in cambio, il frutto, pur modesto, della sua fatica, del suo impegno, del suo lavoro.

Nel periodo della maturazione del mirto (le campagne allora abbondavano del dolce frutto che oggi è meglio utilizzato per produrre il classico digestivo) ne portava sempre con sé una sacchetta. A noi ragazzi le dolci e profumate bacche piacevano molto e le mangiavamo con gusto: servivano, tra una corsa e l’altra, tra un gioco e l’altro, a riempire i vuoti dello stomaco che, data l’età giovanile, avrebbe ingurgitato ben altri prodotti ed in quantità certo più rilevanti! Lei a noi ragazzi lo offriva sempre spontaneamente, dopo aver riempito, con la mano stanca, la tazza che immergeva nella sacchetta appesa in vita. Ci guardava sempre con il Suo sorriso, dolce e triste insieme, mentre noi divoravamo velocemente, rispondendo al suo, con il nostro sorriso gioioso e grato, quello di chi vive senza troppi pensieri, senza quelle pesanti responsabilità che, invece, gli adulti avevano. I problemi, le responsabilità, sarebbero arrivati, più tardi, anche per noi.

Cara zia Mariedda, quale dignità, quale portamento, quale lezione di vita, hai dato ieri e potresti dare oggi! Che grande differenza tra le povertà di ieri, portate con dignità e solidarietà, e le povertà di oggi, vissute, invece, con rabbia ed arroganza. Com’è differente lo sguardo di chi “chiede” oggi, al semaforo o di fronte alla Chiesa, pieno di odio e rancore verso il mondo intero, da quello Tuo, “Mariedda”, che mai avrebbe negato un sorriso! A nessuno! Mi domando: miseria affrontata con dignità quella di ieri e miseria vissuta senza dignità quella di oggi? Il dubbio è forte.

Sarà forse l’effetto della “Globalizzazione” che mercifica anche i sentimenti e sacrifica, annientandola, anche la dignità? Speriamo che i giovani trovino la forza di reagire. Grazie Mariedda della tua bontà e del tuo sorriso che mai dimenticherò. Quando riapro quel file mi rivedo e mi ritrovo ragazzo, gioioso e pieno di vita e Ti rivedo sempre in movimento, con il paniere e la sacchetta colma di mirto, con stampato in viso quel dolce e malinconico sorriso che è rimasto per sempre dentro di me: devo essere sincero, qualche volta, una lacrima mi scende furtiva e bagna velocemente il mio viso di eterno ragazzo.

(Dal mio libro “Marieddu, ricordi di gioventù”. Ediz. EPDO – OR)

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A domani. BUON NATALE!

Mario

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