Cari amici ecco per Voi un'altro dei miei ricordi giovanili.
Ho esitato molto pima di scriverlo e, sopratutto prima di divulgarlo. Credo di avere ancora dentro di me delle sensazioni forti, che continuano a farmi male e che non mi hanno mai abbandonato.
L’ANTICO PROFUMO DEL PANE
Quand’ero ragazzo, erano gli anni del primo dopoguerra, non c’erano telefonini, motorini, iPod, Play Station e diavolerie simili. I ragazzi come me dovevano ingegnarsi per trascorrere piacevolmente le ore libere. Gli incontri tra di noi avvenivano, normalmente, all’interno del “Vicinato"(1)(termine che allora indicava il gruppo delle famiglie che occupava una piccola porzione del Paese, costituita dalle strade vicine e dalla piazzetta dove queste confluivano).
Allora, negli anni tra il 1950 ed il 1960, i bambini non erano scarsi come oggi ma numerosi: la guerra aveva riportato a casa gli uomini e c’era bisogno di braccia. La piazzetta di fronte a casa mia era sufficientemente grande non solo per riunirsi ma anche per improvvisare tanti tipi di giochi. Maschi e le femmine, normalmente in gruppi separati, formavano squadre per inventare giochi, considerata la cronica carenza di giocattoli, come oggi noi li intendiamo.
Nel periodo scolastico il tempo libero era solo quello del pomeriggio, in quanto la Scuola assorbiva praticamente tutta la mattinata. Finito l’anno scolastico, invece, all’inizio dell’estate, si trascorreva tutti insieme la giornata all’aperto, con un unico pensiero: giocare.
Consumata la frugale prima colazione, si usciva di casa chiamando a gran voce i ritardatari, affacciandoci, vociando, nelle case del “vicinato”, per ritrovarsi, poi, tutti insieme e ricomporre il “gruppo”. Le prime discussioni riguardavano il tipo di gioco collettivo da svolgere e la formazione delle squadre, la cui composizione comprendeva elementi di varia età che spaziava dai 4/7 anni fino ai 13/15. La fantasia certo non mancava, erano i giocattoli quelli che mancavano. L’unica possibilità era quella di inventarne di nuovi, in continuazione, apportando varianti nuove ai giochi conosciuti.
Si giocava a nascondino, o a ”luna monta” ( il gioco di saltare al volo un compagno, chino con le mani sulle ginocchia, dandogli nel contempo una pacca sul sedere. Chi sbagliava passava “sotto”, ovvero sostituiva il compagno che non era riuscito a saltare). Oppure ci si sfidava correndo a perdifiato spingendo dei cerchi di vecchie biciclette, guidati da una stecca ( di ferro o legno ) che scorreva nell’incavo de cerchio. Le sfide erano molto partecipate. Ci si allineava all’inizio di una stradina, possibilmente in discesa, tracciando prima per terra un solco sulla polvere (l’unica strada asfaltata era allora la Strada Statale “ Carlo Felice”, che passava ai margini del paese): al via tutti giù a perdifiato, spingendo con forza il cerchio con la stecca; sulle stradine in terra battuta o sulle strette viuzze coperte di acciottolato, lo sbattere veloce del cerchio creava un forte rumore metallico, per l’impatto sui sassi levigati, che ci dava l’illusione della velocità. Chi perdeva il controllo del cerchio, che cadendo si fermava, ripartiva per ultimo. Il vincitore era salutato da una ciurma vociante e chiassosa che, spesso, causava rimproveri e malumori da parte degli anziani, disturbati nelle ore del riposo pomeridiano.
Nei giorni di caldo afoso, invece, ci si raccoglieva sotto un vecchio albero a giocare a “pirastias”(2), a “testa o croce” con le scarse monete, spesso sostituite da bottoni recuperati da vecchi cappotti militari o con le biglie di vetro che i più coraggiosi ricavavano dalle bottiglie di birra, dopo averle sottratte da uno dei pochi “zilleris”(3) esistenti. D’inverno il tempo scorreva molto più monotono, allietato da qualche partita a tombola con premio finale in natura: castagne, mandorle, oppure arance o mandarini.
Giocare con un pallone vero era un sogno. I pochissimi circolanti erano di vero cuoio, cuciti a mano, con dentro una camera d’aria che veniva gonfiata con la pompa per la bicicletta. Solo la partita domenicale era giocata con un vero pallone: quello dell’Oratorio della Parrocchia.
Le partite quotidiane erano giocate con un grosso involto di stracci legati con gli elastici ricavati dalle camere d’aria, vecchie ed ormai non più riparabili, delle non molte motociclette in circolazione. Gli elastici ricavati da queste camere d’aria erano anche un’ottima materia prima per la realizzazione di fionde (l’attrezzo da noi realizzato si chiamava più semplicemente “tiralastico” ). Tutti ne possedevano almeno uno. Costruito con un ramo a forchetta di olivastro o di lentischio, veniva, poi, lisciato e completato con i tiranti in gomma saldamente legati al legno. Le sfide consistevano nel preciso lancio di piccoli sassi tondi, verso uccellini o lucertole, ferme a prendere il sole, che spesso venivano martoriate senza pietà. La fantasia e l’ingegno di noi ragazzi erano straordinari.
Un “carruccio" (su carruzzu)(4), opera di alta maestria del mio gruppo, era diventato un giocattolo molto ambito. Spesso, dopo averlo utilizzato nel gruppo, veniva dato in prestito anche ad altri gruppi, previo esborso di beni di prima necessità: castagne, mandarini, noci o altre scarse prelibatezze di stagione. Altro interessante passatempo era la realizzazione di scherzi nei confronti degli adulti, sopratutto verso quelli che mal sopportavano la nostra esuberanza e ci richiamavano in continuazione. Le nostre “vendette” nel loro confronti erano realizzate soprattutto la Domenica, quando tutti gli “anziani” andavano a messa ben ripuliti, con la camicia bianca ben in vista. Nascosti in punti poco visibili ad un cenno partivano i lanci di bombette di fango puzzolente: destinatarie le loro candide camicie, spesso stirate e inamidate di tutto punto. Forte irritazione da una parte e grandissimo divertimento dall’altra, anche se spesso si rischiavano botte a non finire.
Tutto questo movimento, questa esuberanza, le corse a perdifiato, però, scatenavano un appetito, sotto certi aspetti, tanto grande ma, soprattutto, poco gradito. La gran parte delle famiglie non aveva, allora, la dispensa ben fornita. Solo alcune famiglie, soprattutto quelle con buona proprietà terriera, avevano in casa buone scorte di grano da usare nella panificazione, olio, vino formaggi ed altri generi che, invece, scarseggiavano, se non mancavano del tutto, nella gran parte delle altre, dove era quasi una scommessa, una improba fatica quotidiana, mettere insieme pranzo e cena.
Il pane, soprattutto, restava la base principale dell’alimentazione quotidiana, integrato con le poche verdure dell’orto, da qualche uovo e da scarse carni bianche. Non esistevano allora praticamente macellerie: solo in alcuni periodi qualche allevatore apriva bottega (“Sa Panga”, cosi era definita questa macelleria) e vendeva la carne di qualche vitello, pecora o agnello. Erano tempi in cui la carne veniva consumata in famiglia, con grande parsimonia, utilizzando l’allevamento familiare: il pollaio ed il maiale domestico. La gran parte delle case aveva, infatti, un piccolo cortile annesso all’abitazione, dove venivano coltivate le patate, le cipolle, l’aglio e le varie verdure ed odori, come ravanelli, basilico e prezzemolo. In un angolo del cortile il pollaio e la casetta del maiale.
Il pane, però, chi non aveva scorte di grano e quindi non poteva panificare in casa, doveva comprarlo in uno dei due negozietti del paese dove, tra l’altro, era ancora razionato.
“Sa buttega”(5)( erano queste dei piccoli bazar dove si vendeva di tutto: dal pane ai chiodi, dalle sardine, più note come “arangada”, alle caramelle, dalla conserva di pomodoro alle sigarette ed al chinino di stato), vendeva al minuto ed in assenza di denaro contante vendeva a credito ( a “liburettu”)(6). Gli acquisti si limitavano all’indispensabile: solo quello che non poteva essere prodotto in casa. Il pane, però, razionato, non bastava proprio! Una pagnotta grande, questa era la quantità contingentata destinata alla mia famiglia, una volta divisa in quattro diventava una fetta a testa per tutto il giorno. La fetta destinata a ciascuno di noi ragazzi altro non era che una goccia d’acqua per un assetato! Veniva divorata in pochi istanti e prontamente digerita. Il ritorno dello stimolo della fame era pressoché immediato.
Vi racconto, ora, un fatto vero che non ho mai dimenticato. Eccolo.
Una mattina primaverile, in una giornata libera dalla scuola, complice l’aria frizzante ed un delizioso profumo di pane appena sfornato che proveniva dalla casa dei ricchi vicini di casa, non riuscii a tenere buoni i richiami del mio stomaco e…messo un piede al mio orgoglio, aiutato da un altro compagno, tentai con lui la sorte. Facendoci coraggio a vicenda ci presentammo alla porta della ricca famiglia da dove veniva il delizioso profumo del pane. Demmo due colpi al grosso batacchio con testa di leone, collocato al centro della porta e che serviva da campanello, ed attendemmo tremanti l’apertura della porta. L’uscio tardò ad aprirsi. Sentivamo dei rumori, forse quelli della servitù che sfaccendava e certamente sistemava il pane nei contenitori dopo averlo tolto dal grande forno. Nelle case di prestigio, allora ricche di servitori, la casa era un po’ come una fattoria: il pane, il formaggio, l’olio, il vino, le conserve, i dolci, erano fatti in casa.
Dopo un po’ sentimmo scorrere la serratura e l’uscio si aprì. La padrona di casa, la vecchia “Tzia”(7), come normalmente veniva chiamata per rispetto, vestita di nero, con la camicia bianca ed il corsetto tipico del costume sardo, scrutandoci in tono interrogativo ci chiese: “ e itta kereis? “ ( ndr, cosa volete?). Io, dopo aver inspirato aria per darmi coraggio, con le gambe molli, Le risposi: “ mi mandada mamma e m’a nau a Di domandai ‘u’ coccoi’e pani”(8) ( traduz.: Mi manda mamma e mi ha detto di chiederle una forma di pane ).
Rosso in viso, considerata la bugia, aspettavo la risposta senza respirare, con il cuore che mi martellava in petto e con gli occhi bassi. La vecchia, senza scomporsi, mettendosi le mani sui fianchi e guardandoci entrambi con sufficienza disse a me: “ Naraddi a mamma tua c’a non tenidi su carrigu in domu” ( ndr. Digli a tua mamma che non ha il contenitore del pane a casa mia ).
Ci girammo di scatto e fuggimmo piangenti per il rifiuto e l’umiliazione. Per il resto della mattinata io non giocai più. Tornai a casa taciturno e mamma mi chiese il motivo della mia tristezza. Le raccontai tutto. Orgogliosamente fece finta di rimproverarmi per le bugie dette, ma notai in Lei una grande tristezza: aveva gli occhi lucidi e si allontanò da me, in fretta, per andare in cucina a preparare il pranzo.
Questo fatto mi segnò, in modo particolare. Non so se per il rifiuto o maggiormente per l’umiliazione. Sta di fatto che per me il pane, ancora oggi, ha un valore ed un fascino particolarmente forte. Il suo profumo e la sua presenza mi danno sempre sensazioni intense e rassicuranti. Ho per il pane un rispetto, quasi religioso. Molti non lo sanno ma io non mi metto a tavola se non c’è il pane. Lo uso in piccole dosi per accompagnare tutti i piatti: dall’antipasto al primo ( accompagno anche la pasta con un piccolo tocco di pane ), dal secondo al formaggio e a volte lo uso anche con la frutta ( con l’uva e con le pere il pane è buonissimo). Faccio, inoltre, ancora oggi, la colazione come da ragazzo: una scodella di latte, condita con una tazzina di caffè, dove metto, in zuppa, tanti piccoli pezzi di pane del giorno prima. E’ questa per me la più buona colazione del mondo. Altro che Corn Flakes!
Ho anche cercato di inculcare il rispetto per il pane agli altri componenti della famiglia. Debbo dire, però, con scarsi risultati!
Mario
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Note.
[1] Nei Paesi della civiltà contadina il “ vicinato” era una struttura importante. Formata da un numero variabile di famiglie, in relazione all’ampiezza della piazza dove si affacciavano le case o le viuzze vicine, costituiva una sovrastruttura di “mutuo soccorso”. Oggi potremo definirla una “ famiglia allargata”, dove questa sovrastruttura assommava i compiti di reciproca e mutua assistenza.
[2] Il gioco delle “ Pirastias”, utilizzato ancora oggi in alcuni Paesi, consisteva nel disegnare un quadrato, a sua volta diviso in altri piccoli spazi ( simili alla costruzione degli spazi del Sudoku) con dei pezzi di calce secca, o spezzoni di tegole. L’abilità del concorrente consisteva, dopo aver lanciato all’interno di uno degli spazi delimitati di una “Pirastia”( pezzo di tegola resa quadrata da una lunga levigatura ) nel saltare a piedi uniti o con un solo piede, senza toccare le linee di demarcazione. Vinceva chi superava il percorso senza penalità e nel tempo più breve, recuperando velocemente la “Pirastia”.
[3] Su “ Zilleri” era un locale con banco di mescita dove la sera gli anziani si riunivano a chiacchierare, giocare a carte, e bere vino, birra ed altri alcolici. Al tempo le bottiglie di birra ( la più nota era la “Ichnusa”) era tappate a pressione con una biglia, sempre di vetro come la bottiglia. Per aprirla e versare il contenuto era necessario, con un colpo secco assestato da una piccola stecca di legno, far scendere nel fondo la biglia. Erano proprio queste biglie che, dopo aver rotto la bottiglia, venivano utilizzate per giocare dai ragazzi.
[4] “su carruzzu” di cui si parla fu costruito con l’utilizzo di vecchie tavole a cui furono applicate delle piccole ruote inserite in spezzoni di vecchi manici tondi di strumenti di lavoro agricolo in disuso, sapientemente inchiodati alla tavola principale. Le piccole ruote (rotelle) erano quelle che venivano utilizzate dalle Ferrovie per lo scorrimento dei cavi di apertura/chiusura dei passaggi a libello che i casellanti manovravano, a mano, prima e dopo il passaggio dei treni. Noi ragazzi con pochi attrezzi riuscivamo ad asportare alcune rotelle, usate poi per la costruzione del veicolo.
[5] " Sa buttega".L’apertura di una nuova bottega era derivata dalla concessione fatta ai “reduci” della guerra, ai quali lo Stato aveva concesso la vendita dei prodotti allora di monopolio: Sali, tabacchi e chinino di stato, come evidenziava l’insegna esposta fuori dal locale.
[6] Su “liburettu” era un quaderno con copertina nera e a quadretti con il bordo rosso, come quelli che si usavano a scuola, dove il negoziante segnava quello che la famiglia aveva prelevato, di giorn in giorno, con il relativo prezzo indicato a fianco. Alla fine del mese la famiglia cercava, ove possibile di regolare il debito in tutto o in parte. Il rapporto era basato sulla fiducia ed era in un solo esemplare, custodito dal negoziante.
[7] "Thia". Nella cultura patriarcale della Sardegna agli anziani era sempre riservato l’appellativo di “Thia” ed il Voi, di rispetto, in sardo “Fostei” .
[8] “ Su coccoi” era la forma più usata per preparare il pane da cuocere. Era una forma tonda che veniva leggermente schiacciata all’atto dell’introduzione nel forno. Ancora oggi in uso.
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